L’economia sta cambiando?

Provati, scoraggiati, angosciati, incupiti: chi più chi meno, comunque in tanti sono arrivati alla fine di questo anno sentendosi così o avendo provato più volte nei mesi passati tali stati d’animo. Troppe cose sono andate nel verso sbagliato. Troppe disuguaglianze, troppa iniquità, troppa arroganza, troppo cinismo. E la fiducia nel futuro, nel complesso, ne ha inevitabilmente risentito.

Non è stato infatti un anno “felice”, con la politica ai minimi storici di credibilità e l’economia che langue per molteplici ragioni. E se l’una e l’altra sono entrate in crisi c’è ben poco da stare allegri, tutto a cascata si ripercuote. A meno che la crisi, come la sua etimologia dal verbo greco Krino sta a significare, non si riveli una rara occasione per “separare”, “discernere”, decidere con nettezza da che parte stare.

Se la politica, in profondo stato comatoso, non accenna ancora alcun autentico cambio di passo, proprio dall’economia arrivano inaspettati segnali di possibile rinnovamento. Nel senso che il re appare sempre più nudo, che l’alone di mistero che avvolge certi ambiti della vita economica (la cosiddetta favolistica dei poteri forti) e le alchimie del potere esercitate nei famigerati “salotti buoni” della finanza, vanno via via dissolvendosi. E visto che nel mondo alla rovescia nel quale viviamo l’economia ha preso il sopravvento sulla politica, se si scorge qualche segnale positivo nella prima possiamo confidare che prima o poi ciò si ripercuoterà favorevolmente anche sulla seconda. Cioè sulla gestione della cosa pubblica. In ultima istanza, quindi, su tutti noi.

Prendiamo per esempio le banche. Abbiamo saputo che anche quelle italiane, le stesse che dopo lo scoppio della bolla dei titoli tossici americani menavano vanto del proprio provincialismo che, secondo loro, le aveva portate a diffidare dei facili guadagni ottenibili con la finanza spericolata, si trovano ora con l’acqua alla gola. E che se non corrono presto ai ripari con aumenti di capitale da capogiro, dell’ordine di diversi miliardi di euro (circa 15), potranno andare incontro a problemi molto seri. Per cui finalmente certi banchieri smetteranno di compiacersi in tv o altrove e se ne staranno almeno per un po’ zitti a leccarsi le ferite.

Abbiamo saputo anche che alcune di queste banche finalmente cesseranno di erogare fiumi di denaro a un personaggio come Ligresti, che dopo aver resistito a tanti “cambi di stagione” rimanendo sempre sulla cresta dell’onda forse si è davvero incamminato inesorabilmente sul viale del tramonto.

Abbiamo saputo che una banca dal glorioso passato come la Banca Popolare di Milano, dopo esser finita negli ultimi anni nel mirino del fisco, della magistratura, della Banca d’Italia oggi è a rischio class action per aver piazzato titoli ad alto rischio, come le obbligazioni “convertendo”, a molti ignari risparmiatori. Abbiamo saputo che le famigerate fondazioni bancarie, fino a ieri piene di soldi e di potere, che solo a nominare qualche loro potentissimo presidente molti (tra cui anche diversi esponenti del settore nonprofit) si mettevano sull’attenti per riflesso condizionato, sono a corto di risorse travolte dai crolli in borsa delle quotazioni delle partecipazioni detenute nelle banche. E, sempre a proposito di fondazioni bancarie, talvolta non si possono non ravvisare potenziali “conflitti di interesse”, come nel caso di Paolo Biasi, presidente della fondazione Cariverona che ha in portafoglio il 4,9% di Unicredit, la stessa banca alle prese con la ristrutturazione del debito del suo gruppo, il gruppo Biasi appunto, attivo nel settore delle caldaie a gas e in forte crisi.

Sono solo alcuni esempi. Sufficienti tuttavia a dare il senso che alcuni nodi cominciano ad arrivare al pettine e che forse nulla sarà più come prima. Martedì, nell’ampio ricordo dedicato da Repubblica a Giorgio Bocca, era anche riportato un brano del suo ultimo libro che uscirà il prossimo 11 gennaio (Grazie no, Feltrinelli) che comincia così:

«Due Italie separate e non comunicanti. L’Italia delle caste e delle cricche e quella che si guadagna onestamente la vita. Lontane l’una dall’altra anni luce, nel modo di vivere, di pensare, nei modelli di morale e di estetica. Come sia possibile la loro convivenza senza una dura resa dei conti resta un mistero»

Forse una simile resa dei conti presto arriverà se la crisi che ci attanaglia si rivelerà occasione, come la sua etimologia ci ricorda, per “separare”, “discernere”, decidere con nettezza da che parte stare. Questo è il mio augurio per il nuovo anno.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com