L’autobus del nonprofit

Puntualmente, appena comincia ad aleggiare l’ipotesi di possibili imminenti elezioni politiche, parte una sorta di gara a chi evoca con più forza e convinzione la necessità di coinvolgere la società civile. Luogo “magico”, secondo molti, in cui abitano cavalieri senza macchia e senza peccato dediti al bene comune. E che, quindi, rappresentano una risorsa per il Paese.

Lo hanno fatto, con toni e sfumature diverse, Gianfranco Fini a Mirabello dieci giorni fa, Pierluigi Bersani domenica scorsa a Torino, l’ex presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky in un interessante, lungo articolo apparso ieri su Repubblica, intitolato “La buona politica e la società civile”.

Quando si passa, però, dalle enunciazioni di principio alla realtà, la società civile è davvero sempre così “desiderabile”?

Prendiamo il mondo delle professioni: se penso, per esempio, alla statura morale e professionale di Giorgio Ambrosoli non posso che augurarmi che gli avvocati che ne hanno raccolto idealmente il testimone si impegnino nell’agone politico. Ma se guardo ai tanti azzeccagarbugli che infestano il Paese, posso solo sperare che se ne stiano ben lontani.

Oppure, prendiamo il mondo delle imprese: se penso ai tanti imprenditori che condividono quotidianamente oneri e onori della loro azienda con i propri dipendenti e collaboratori e fanno impresa perché vogliono creare benessere diffuso, coesione sociale e nuova occupazione, allora l’auspicio è uno solo: ben vengano! Se però il pensiero corre ai quei mascalzoni che, indossando l’abito formale dell’imprenditore, evadono le tasse, licenziano indiscriminatamente, corrompono i politici di turno per ottenere favori e appalti, beh, allora: vade retro Satana.

E ancora, per venire al punto centrale di questa riflessione, prendiamo la cosiddetta società civile organizzata, il settore nonprofit: qui, a differenza dei due ambiti di riferimento appena richiamati, la distinzione (per semplificare) tra “buoni e cattivi” non è affatto palese. Anzi, il settore gode di una generalizzata buona reputazione. E questo, non c’è dubbio, è un vero punto di forza.

Tuttavia, a fronte di centinaia di migliaia di persone ed enti non lucrativi che, per citare Zagrebelsky, «dedicano spontaneamente e gratuitamente passione, competenze e risorse a ciò che chiamiamo bene comune» non corrisponde, o corrisponde sempre meno una classe dirigente del settore nonprofit all’altezza della rappresentanza di un tale giacimento civico. Una classe dirigente non di rado pericolosamente incline all’autoreferenzialità, al piagnisteo, all’auto-perpetuazione.

Dov’è, allora, la differenza tra un ceto politico che teme il cambiamento e quei dirigenti (a vario titolo) della società civile organizzata  che da anni e  anni  non si schiodano dalla loro poltrona? Difficile individuarla.  Tutte e due si sentono insostituibili. Ma così il settore nonprofit, esattamente come la politica, si avvita sempre di più su se stesso.

Altro che risorsa, quindi: assomiglia sempre più a una zavorra, appesantita ulteriormente da quelle analisi tanto “luccicanti” quanto parziali e inverosimili di qualche professorone o professorino che, non disinteressatamente, non fanno mancare mai il proprio entusiastico commento sulle sorti del Terzo settore, nascondendo invece tutti i problemi che su di esso oggi più che mai gravano (anche perché, talvolta, sono essi stessi uno dei problemi) e il vuoto propositivo che lo attanaglia.

Zagrebelsky a un certo punto dell’articolo si chiede: «Quante sono le persone, singole e insieme ad altre, che a partire dalle tante e diverse esperienze, in tutti gli ambiti della vita sociale, a iniziare dai più umili a diretto contatto con i suoi drammi e le sue tragedie, sarebbero disposte a dare qualcosa di sé, non per un proprio utile immediato ma per opere di più ampio impegno che riguardano la qualità, per l’appunto civile, della società in cui noi, i nostri figli e nipoti si trovano e troveranno a vivere? Da quel che mi par di vedere, tantissime».

Anch’io la penso allo stesso modo. Ma, a differenza di Zagrebelsky, ritengo che gli ostacoli che impediscono la piena “liberazione” e affermazione di tanto civismo e buona volontà risiedano non solo nelle nomenclature dei partiti politici ma anche in quelle di alcune organizzazioni senza fine di lucro, terrorizzate ambedue che qualcuno possa arrivare a resettare tutto.

Nassim Nicholas Taleb indicava qualche giorno fa sul Sole 24 Ore dieci regole per fronteggiare la crisi economica. La terza comincia così: «A coloro che hanno guidato un autobus a occhi bendati (e lo hanno distrutto) non si dovrebbe mai affidare un altro autobus».

Credo che una regola simile valga anche per numerose organizzazioni nonprofit. Andrei quindi cauto a invocare, indistintamente, un maggior coinvolgimento della società civile in politica.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com