L’arte del dopo

È davvero troppo presto, e persino inopportuno, ragionare su cosa accadrà dopo. Ci mancano ancora moltissimi elementi, fattuali e temporali (ad esempio: quando sarà il Dopo?) per valutare.

Ma c’è un vecchio libro che varrebbe la pena riprendere in mano e considerare in questi giorni di forzata (per quasi tutti) immobilità: Pittura a Firenze e Siena dopo la morte nera. Arte religione e società alla metà del Trecento (Einaudi 1982). Lo pubblicò, nel 1951, un grande storico dell’arte statunitense, Millard Meiss (1904-1975), che insegnò nelle principali università e, in particolare, nel prestigioso Institute for Advanced Study di Princeton, dove Albert Einstein aveva chiamato, accanto a grandi fisici (come Robert Oppenheimer, che ne fu Direttore) e matematici (come il logico Kurt Gödel), studiosi apparentemente assai eccentrici, come lo storico dell’arte Erwin Panofsky e lo storico Ernst H. Kantorowicz (autore, nel 1957, del celebre I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale). In contatto con quell’ambiente ricco di stimoli interdisciplinari fu concepito questo libro che rivoluzionò il modo di intendere la storia dell’arte.

Studiando Giotto e i pittori del periodo a lui successivo, Meiss aveva notato un brusco mutamento nello stile e nel gusto nella pittura a Firenze e Siena attorno alla metà del Trecento. Nell’arco di pochi decenni è come se la pittura dei maestri (Giotto, Duccio, Simone Martini, Pietro e Ambrogio Lorenzetti) fosse stata dimenticata e “si fosse tornati all’arcaismo duecentesco, sia sul piano delle forme sia su quella della scelta dei temi iconografici (…) Tutti i maestri più giovani, dopo il 1343-50, rifiutavano, almeno in parte, il risultato giottesco più facile da imitare, la prospettiva lineare (…) Nessuno di essi aderì inequivocabilmente al concetto di Giotto del divino immanente in un’umanità elevata e profondamente morale”.

È come se si fosse stata spenta la “luce” di Giotto. La sua grande arte è immediatamente riconoscibile: aveva qualcosa in più rispetto agli altri pittori del suo tempo, per come dipinge le mandorle degli occhi, le umanissime pieghe dei volti e, soprattutto, per il modo di rendere la luce. Una luce non soltanto fisica. Secondo Giovanni Boccaccio, nel Decameron (VI, 5), Giotto riportò la luce dell’arte a Firenze: “Avendo egli quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d’alcuni (…) era stata sepulta, meritatamente una delle luci della fiorentina gloria dir si puote”. E Lorenzo Ghiberti nei suoi Commentari scrisse: “Vide Giotto nell’arte quello che gli altri non agiunsono. Arrecò l’arte naturale e la gentileza con essa, non uscendo delle misure. Fu peritissimo in tutta l’arte, fu inventore e trovatore di tanta doctrina la quale era stata sepulta circa d’anni 600”.

Meiss attribuì alla terribile peste a Firenze e in Toscana del 1348, la causa principale della svolta nella pittura e nel gusto dell’epoca. Quell’epidemia, prima spaventosa ricomparsa del morbo nel mondo occidentale dopo secoli di tregua, ridusse in un anno la popolazione di Firenze da 90mila a meno di 50mila abitanti (praticamente scomparve la metà della popolazione). Boccaccio (che parlò addirittura di 100mila morti), nel Decameron, raccontò della pestilenza gli aspetti inumani e inquietanti: “degli uomini che morivano ci si curava come ora ci si curerebbe di capre”.

Quella tragedia, com’è facilmente immaginabile, lasciò ferite molto profonde nell’animo e nella sensibilità della popolazione e degli artisti. Ed ecco apparire dei dipinti del tutto diversi: quelli dell’Orcagna (Andrea di Cione), ad esempio, come il raffinato Trittico di San Michele (esposto agli Uffizi), e di Andrea Bonaiuti. Quella tragedia fece da detonatore di una nuova sensibilità etico-religiosa cupa e istituzionale, e di un ritorno all’arcaismo pittorico duecentesco.
Dietro ai dipinti dell’Orcagna – come la notevole e rara Pentecoste (1365-1370) conservata alla Galleria dell’Accademia di Firenze, punteggiata dalle lingue di fuoco dello Spirito Santo, o le sculture del suo prezioso Tabernacolo (1359) di Orsanmichele, che racchiude l’arcaizzante Madonna col Bambino in trono e Angeli (1347) di Bernardo Daddi – c’è la Morte: il ricordo terribile dei cadaveri a migliaia per le strade e la paura cieca di una malattia invisibile e inspiegabile. Si assistette così, per reazione, al ritorno a una visione teocentrica espressa con formule iconografiche lontane dall’umanesimo di Giotto e dei suoi seguaci.

Fino alla comparsa del molto documentato, e ben scritto, libro di Meiss, la tendenza negli studi sulla pittura del Trecento era stata quella di attribuire la “svolta” dopo Giotto a una naturale evoluzione dei modi e dei temi della pittura religiosa.

Spiegare i cambiamenti nello stile e nella sensibilità estetica con il trauma di una epidemia fu allora un fatto storiografico rivoluzionario che fece storcere il naso agli storici dell’arte più “ortodossi”. Ma il lavoro di Meiss (che, dopo la guerra fece parte del Comitato per il restauro dei monumenti italiani e, nel 1966, seppur già malato, volle recarsi a Firenze per dare il suo contributo al salvataggio delle opere danneggiate dall’Alluvione) si basava sulla profonda convinzione che “la pittura, la scultura e l’architettura esprimomo, proprio come la letteratura e la filosofia, i pensieri e i sentimenti umani e comunicano anche le opinioni più profonde degli uomini sulle loro relazioni con i propri simili e con il mondo”.

La pittura a Firenze e Siena dopo la morte nera è oggi anche una sfida a saper leggere e tentare di interpretare con attenzione, e senza preconcetti, quella che sarà la produzione artistica dei prossimi anni. Come cambierà (sta già mutando, lo si capisce da tanti piccoli segni) il nostro modo di vedere le vita, il lavoro, la comunicazione, i rapporti tra le persone? È pensabile che dopo un disastro di queste dimensioni (e non soltanto dal punto di vista, sanitario, economico, sociale e politico) potrà essere come prima? Forse nemmeno fra tanti anni, nei libri di storia, questo 2020, verrà considerato una data-frattura nella nostra illusoria idea di una continuità del Tempo e del Progresso, e si studierà, valuterà e paragonerà, come fece Millard Meiss, il Prima e il Dopo.

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).