Racconto di Natale

Dal primo dicembre i tubi dentro i muri dell’ufficio di Felice Settembrini avevano preso a rumoreggiare, come un sinistro presagio. Uno scricchiolio intermittente, quasi un ringhio rugginoso, increspava l’aria della stanza al settimo piano del nuovo grattacielo nei pressi della Stazione di Porta Genova, dove aveva sede la casa editrice Pompazzi Barbieri. L’edificio era interamente coperto da spelacchiati alberelli, cespugli sempreverdi e sbuffi di bacche amaranto che ingraziosivano la facciata rendendo felici e rassicurati gli amanti del verde in città.
Stava appropinquandosi il Natale e Felice, uscendo dalla metropolitana e percorrendo i pochi metri che lo separavano dall’ingresso del palazzo, si disse che sarebbe stato simpatico addobbare, con lucine e palline colorate, tutte quelle piante abbarbicate al cemento fino al ventesimo piano. L’idea di andare a lavorare dentro una specie di enorme albero natalizio gli dava una malinconica euforia, come quando da ragazzino aspettava l’arrivo dei regali, sapendo con certezza, ormai da diversi anni, che non sarebbe stato Babbo Natale a portarli. Ma era bene far credere agli indaffarati genitori che lui ci credeva ancora.
Felice era un tipo che sapeva mentire. Anche per questo portava sempre occhiali da sole, persino quando diluviava. Era uno stimato redattore editoriale, pur odiando i libri e coloro che li scrivevano. Fuori dal lavoro leggeva solo quelli che gli consigliava, insistentemente, la fidanzata Viviana, laureanda in Storia del teatro con una tesi sulla crudeltà in Euripide.
Dopo studi universitari irregolari, Felice era entrato in casa editrice grazie a una spintarella della madre Carlotta, fotografa, collaboratrice e molto amica di Gaspare Manolo Rossi, amministratore delegato e anche, come spesso ormai accade, direttore editoriale della casa editrice: un uomo che riuniva in sé la pericolosa commistione di una scarsa cultura e di un ego smisurato. Con lui Felice condivideva la passione per il cibo raffinato: si occupava infatti di una delle collane di punta della Pompazzi Barbieri dedicata alle ricette commentate di cuochi famosi in televisione, facendoli apparire, grazie a un camuffaggio editoriale, pensosi intellettuali, sensibili interpreti del gusto raffinato e persino della vita.
Per arrontondare il magro stipendio, Felice teneva un suo bizzarro sito, “Luppolo felice”, dove redigeva e aggiornava commenti e classifiche di birre e birrerie, parlando bene soltanto di coloro che lo pagavano. Inoltre collaborava al mensile “Inventario culinario”: in ogni numero scriveva un racconto di cinque cartelle. In quello di dicembre, monografico sul pesce, avrebbe dovuto inventarsi una gustosa storia ittica. Purtroppo la sua vena creativa sembrava essersi prosciugata. L’unico racconto che era riuscito a buttar giù era quello di una pornostar sul viale del tramonto, Vanessa, che faceva il numero di mezzanotte in un malmesso ristorante di pesce dell’Isola, immersa in un acquario con uno sveglio esemplare di Carassius auratus. Di lei si era innamorato un attempato armatore russo-londinese di passaggio ed ella aveva accettato, insperatamente, di sposarlo a patto che nel salotto della loro casa venisse costruito un grande acquario a parete dove il suo fedele partner rosso e giallo potesse sguazzare comodamente. Il racconto terminava con la signora, abbondantemente ingioiellata, intenta a sistemare i pacchetti regalo sotto l’albero di Natale, che strizzava l’occhio sorridente al pesciolino. Lui, felice del suo piccolo abete di plastica sistemato per l’occasione nell’acquario, ricambiava con un boccheggiante bacio stampato sulla parete di cristallo…
Il racconto – intitolato arditamente: “Amo”, la parola più pericolosa per il pesce e per l’uomo – non era piaciuto affatto a quelli della rivista che lo avevano rifiutato sostituendo la sua pagina con la pubblicità di un viaggio di Natale alla scoperta delle meraviglie culinarie del Peloponneso. Felice c’era rimasto molto male, ma non lo dava a vedere, nemmeno a Viviana che, proprio in quei giorni, era riuscita, per la prima volta dopo parecchi anni, a strappargli la promessa di andare assieme a cena dai di lei genitori per la Vigilia di Natale.
In ufficio, quella mattina, lo attendeva una sorpresa: l’assemblea d’azienda, convocata senza preavviso. Ai dodici annoiati dipendenti (la Pompazzi Barbieri era inusualmente composta solamente da uomini), l’imperioso Gaspare Manolo Rossi, dopo un generico bilancio degli ultimi mesi, annunziò che, quell’anno, il ventiquattro sera avrebbero cenato assieme. E aggiunse, ammiccante:
“Tanto qui siamo tutti o divorziati, o vedovi, o scapoli impenitenti. Alle mamme e ai figli potrete eventualmente dedicare il Pranzo di Natale”.
Nessuno sapeva che Felice avesse da anni una fidanzata. Come se non bastasse, gli venne pure affibbiato il compito di scegliere e fissare il ristorante. Fu stabilito un tetto di spesa (non tanto alto, per la verità) e, in un empito di lungimirante generosità, fu anche stanziata una piccola somma perché egli potesse provare (ma il termine usato fu il più moderno “testare”) alcuni menù.
Con la morte nel cuore, Felice si disse entusiasta della brillante idea del Direttore e onorato dell’incarico, promettendo che, nelle due settimane che mancavano alla Vigilia, avrebbe battuto la città per scovare il miglior ristorante adatto all’occasione. Ma, per l’agitazione, durante il resto della giornata lavorativa non fu in grado di fare nulla. Parlò però al telefono con Viviana, rassicurandola sulla cena del 24 con i suoi genitori. Verso le diciotto fece ritorno a casa, dietro la Stazione Centrale, proprio sopra un buffo negozietto che ripara biciclette e vende contemporaneamente piante e fiori. Dopo un bagno caldo, stappò una birra analcolica e inserì nel lettore uno dei CD preferiti da Viviana: Rebetiko gymnastas di Vinicio Capossela. Cullato da quella musica dolcemente straziante, Felice si sedette al tavolo di cucina e accese il computer portatile, iniziando a compilare una lista dei ristoranti di Milano da prendere in considerazione. Ebbe così immediatamente chiaro che non ci sarebbe stato un minuto da perdere e già da quella sera avrebbe dovuto mettersi in caccia.
Con una pietosa bugia disdisse l’appuntamento al cinema Beltrade (retrospettiva di Theo Angelopoulos) con Valeria e, inforcata la sua bicicletta con pedalata assistita, si diresse a visitare i primi ristoranti papabili. Si rivelarono tutti strapieni e, comunque, già impegnati per la cena della Vigilia. Dopo un paio di giorni, Felice dovette amaramente constatare che, a Milano, è invalsa da anni l’abitudine, dopo la festa di Sant’Ambrogio e fino a Natale, di cenare fuori con gli amici e i colleghi per salutarsi e scambiarsi regali. Per una quindicina di giorni non si trova alla sera un posto libero: tutto prenotato, da settimane. E nonostante che in città i ristoranti siano tantissimi: cresciuti negli ultimi anni come funghi dopo l’acquazzone, soprattutto in occasione dell’Esposizione universale sulla nutrizione del pianeta. Un forestiero, si disse Felice, potrebbe essere portato a pensare che a Milano non si faccia altro che mangiare.
Più i giorni passavano e più Felice sbatteva la faccia contro ristoranti esauriti. Finiva sempre col tornare a casa a mani vuote, dopo la mezzanotte: stanco, sfiduciato e affamato. Per la fidanzata, si dette malato. Finalmente Carlo, un amico molto addentro al rutilante mondo della ristorazione milanese, dopo alcune telefonate, gli garantì che, per la sera del ventiquattro, il “Chiodo di garofano” avrebbe avuto un tavolo libero per i tredici della Pompazzi Barbieri. Felice pensò che andava comunque sperimentato adeguatamente, anche per il prezzo: era infatti uno dei locali preferiti dai maneggioni della finanza. Si recò là in taxi indossando il completo di velluto blu sopra la camicia bianca di spesso cotone e la cravatta blu con greche celesti. Prima di entrare si soffermò a guardare dall’altra parte della piazza, come un turista sorpreso, l’enorme dito in marmo bianco che l’ironico Maurizio Cattelan ha posto davanti al vecchio Palazzo della Borsa, in Piazza Affari e pensò che non fosse di buon auspicio.
Nel ristorante lo fecero accomodare a un piccolo tavolino bianco, vicino a grandi poltrone in pelle elegantemente abrasa dall’uso. Lo raggiunse subito uno dei cuochi stellati (coautore di un recente libro da lui redatto): Alberico sembrava un barbiere con il camice immacolato. Gli spiegò, con una cantilena nasale e molta enfasi, il menù consigliato:
“Centrifugato di melanzane con burrata francese appena affumicata, cetriolo di Siria, crostini leggermente ripassati in burro sudafricano e bagnati con Rhum vietnamita, capperi siberiani e sfumature di ravanelli, raccolti negli orti sul ciglio dei Navigli;
asimmetrie di ravioli profumati al coniglio, con crêpes di bottarga e ghirigori di caviale;
risottino con camembert boemo al profumo di rosmarino ripassato in padella di antico rame con scaglie d’oro nuziale;
budino di branzino giapponese, insaporito simpaticamente con un battuto agrodolce di cerfoglio, aglio armeno, erba cipollina dei Carpazi e fatto rinvenire nel celebre brodetto di Trebisonda;
involtino di pecorino transalpino lardellato, ricoperto di mandorle lavorate a tempo perso;
meringata di mascarpone con ciliegie di Gibilterra ingentilita con panna discretamente montata e zabaglione estemporaneo, accompagnata da piccoli fichi blu di stagione e canditi sinceri di Mazara del Vallo…”.
Il suo sconcertato silenzio fu interpretato per un convinto assenso. Allora il cuoco fece una piroetta e schioccò le dita all’indirizzo di una signorina pimpante che gli portò immediatamente una bella e costosa bottiglia di Chateau Babar del ’92. Non passò molto che iniziarono ad arrivare grandi piatti di porcellana bianca al cui centro stavano appisolate, in piccolissime quantità, delle gocce di cibo. Dopo un’ora, Felice si alzò con la fame, pagò un conto salatissimo esaurendo abbondantemente il suo budget, e se ne andò senza nemmeno salutare Alberico.
Anche nei giorni successivi tutte le ricerche si risolsero in un fallimento. Felice iniziava, sempre senza darlo a vedere, a essere inquieto. In casa editrice, pressato dalle domande incuriosite dei colleghi, si teneva sul generico, rispondendo che aveva sotto mano una decina di opzioni e stava ancora valutando la migliore.
Mercoledì 21, Gaspare Manolo Rossi lo convocò al mattino presto nel suo ufficio e gli intimò di “sciogliere subito la prognosi” perché non amava le sorprese. Felice riuscì a strappare ancora un giorno di tempo per dare l’annuncio ufficiale. E aggiunse alla promessa una frase sottolineata da un largo e insincero sorriso:
“Vi assicuro che sarà la migliore cena della Vigilia della vostra vita: una vera rinascita!”.
Con la scusa di dover perfezionare ancora gli ultimi accordi, ottenne di non lavorare tutta la giornata e uscire dall’ufficio prima di mezzogiorno. Si ritrovò così a vagare disperato dalle parti di Piazza del Duomo senza un obiettivo preciso. C’era una gran folla che impazzava in cerca degli ultimi regali. Lui aveva la nausea e stava addirittura meditando di fuggire all’estero, facendo perdere le proprie tracce. Ad un tratto, in una traversa di via Torino, scorse un piccolo ristorante con gli infissi azzurri. L’insegna era in greco: METAMÓRFOSE. Sotto stava appesa una sorta di banderuola con su scritto: METAMORFOSI. Ristorante greco.
Non ne aveva mai sentito parlare. Cercò di farsi un’idea sbirciando dalla vetrina, ma non si vedeva niente a causa delle spesse tendine bianche. Davanti alla porta non c’era il menù. Non gli restava che entrare.
Girò la maniglia di ottone graffiato, spinse la porta e mise dentro il piede sinistro e la testa. All’interno intravide per un attimo: tavolini di legno verniciato di bianco; sedie blu impagliate; una grande rete da pescatore appesa alla parete con stelle marine e conchiglie incagliate tra le maglie; molti vasi di coccio variopinti; un bouzouki senza corde… Poi, d’improvviso, si fece buio e Felice venne aspirato in un vortice freddo e privo di odori.
Quando tornò la luce, si ritrovò seduto in una modesta e fumosa osteria affollata di vecchi avventori che parevano non accorgersi della sua presenza. Alcuni stavano discutendo animatamente di pecore. Felice, con grande sorpresa, capiva quello che dicevano, anche se parlavano in greco. Si alzò un po’ inteccherito, come dopo un lungo e scomodo viaggio, e si diresse verso il bancone. Una ragazza, con luccicanti pupille azzurre e una svolazzante veste color indaco che nascondeva a fatica l’avanzato stato di gravidanza, lo guardava con curiosità asciugando bicchieri con un canovaccio verde.
Felice, stropicciandosi gli occhi, le chiese:
“In che posto mi trovo?” (le sue parole, pensate in italiano, uscirono in greco).
“A Metamorfosi”, fu la risposta di Maria, con tono sorpreso.
“Il ristorante?”
“No, questo locale si chiama “O thiasos” (La recita). Metamorfosi è il paese”.
“E dove sta?”.
“Nel Peloponneso, in Laconia, sotto Sparta, alla sinistra del lungo viale di eucalipti tra Molai e Sikea”…

(Questa è la parte iniziale, con qualche piccola modifica, del racconto La metamorfosi del Natale pubblicato lo scorso anno dalla casa editrice Sellerio all’interno di un volume collettaneo: Calaciura, Camilleri, Cataluccio, Giménez- Bartlet, Manzini, Recami, Stassi, Storie di Natale )

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).