I sogni dell’anno che verrà

Fanno tenerezza i tentativi che facciamo, all’inizio dell’anno, di immaginare e prevedere cosa accadrà nei prossimi dodici mesi. C’è un bisogno di controllo, la ricerca di conferme e speranze, e soprattutto una spasmodica curiosità, che ci porta addirittura a oscurare tutto il resto. Come è accaduto il primo gennaio di quest’anno, quando Rai Due ha deciso di cancellare “Mezzogiorno in famiglia”, all’interno del quale era previsto l’ oroscopo di Paolo Fox, sostituendolo con uno speciale sull’attentato della notte precedente a Istanbul: sono fioccate a valanga le proteste dei teleutenti indignati perché era stato tolto il loro “atteso giocattolo”.

Giacomo Leopardi, nel Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere, pubblicato nelle Operette morali (1834), scrive: “Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce, non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso comincerà a trattare bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice”. Nonostante le generali previsioni sul prossimo futuro, abbastanza catastrofiche, rimane sempre forte la speranza che qualcosa di ciò che non conosciamo, almeno individualmente, vada meglio.

Non mi appassionano le previsioni sul futuro, nemmeno quelle spicciole. Sin dai tempi dell’università, sono un seguace dell’antimetafisico e scettico David Hume, sostenitore del fatto che aver visto il Sole sorgere sino a oggi non implica alcuna necessità che sorga anche domani. Con gli anni, mi sono abituato a vivere non dando niente per scontato, come se oggi fosse l’ultimo giorno e senza la certezza del domani. Non credo agli oroscopi e sono poco portato a fidarmi degli “esperti” che azzardano previsioni: mi accontenterei cercassero di spiegarmi bene che cosa è accaduto ieri. Gli economisti, ad esempio, si sono dimostrati, anche recentemente, del tutto inadatti a fare previsioni, a volte per palese ignoranza o malafede, ma soprattutto perché la loro disciplina, come molte altre, può ammettere soltanto l’azzardo previsionale, non disponendo di costanti certe e non potendo fornire alcun elemento affidabile per fare un discorso sul futuro (dove entrano in gioco talmente tanti fattori imponderabili, primo di tutti la Fortuna, che possono mutare radicalmente il corso degli eventi).

Paradossalmente sono portato a prendere in considerazione soltanto dei sogni, convinto appunto che, come sosteneva, nel 1635, Pedro Calderón de La Barca , “la vita è un sogno e i sogni sogni sono”. Ovviamente non attribuisco ad essi nessun potere di indicazione sul futuro, ma mi affascinano gli strampalati scenari che mi squadernano davanti. Nella lingua italiana sogno significa sia “immaginazione” (“Finché ci sono sogni c’è speranza”) che “immagini” prodotte dal sonno. In altre lingue, come il polacco, sen significa sia “sogno” che “sonno” (“Non c’è sonno senza sogni e non non ci sono sogni senza sonno”). Il sogno, scriveva Sigmund Freud nella sua Interpretazione dei sogni (1899), è “il primo membro di una serie di formazioni psichiche abnormi”.

Il sogno è un paradigma dei nostri disagi. Ma tutti coloro che si sono adoperati per interpretarli variamente, a partire dal poetico Artemidoro da Efeso (120-192 d.C.?), con la sua Onirocritica, non sono riusciti a spiegare come nascano. E ancor oggi lavoriamo sul racconto dei sogno ma non siamo capaci di capire veramente da quali cortocircuiti del nostro cervello essi siano prodotti. Certo è che i nostri sogni lavorano, anche quando costruiscono le immagini e le vicende più strampalate, assemblando assieme materiale non inventato: mettono sempre assieme elementi di realtà. Se sogniamo una Chimera, animale che non possiamo aver visto (perché non esiste), altro non facciamo che accozzare bizzarramente elementi a noi noti (il muso di leone, il corpo di capra, la coda di drago…). È proprio questa oscurità della loro origine che mi spinge irrazionalmente a fidarmi dei sogni, come, da bambini, crediamo alle favole più bizzarre e surreali. Sulle storie che ci mostrano i sogni si può lavorare di fantasia, sapendo che comunque essi sono un fatto da cui partire. Un’opera straordinaria, anche per la qualità delle illustrazioni, come il Libro rosso (1913-1930) di C.G. Jung, nacque dai suoi sogni: da una serie di incubi alla vigilia dello scoppio della Prima Guerra Mondiale. È sempre bene quindi raccontarli, non si sa mai. Serviranno eventualmente a spiegare meglio il passato.

Questo che segue è il racconto del sogno che ho fatto la notte del primo gennaio:

In una sola, ventosa, giornata di fine primavera comparvero nel golfo di Trieste sette balene. Una di loro si ingoiò, in un battibaleno, la barchetta rossa di Mario, con lui dentro che stava leggendo un libro. Alcune ore dopo la uccisero a mitragliate due battelli grigi della guardia costiera, mentre le altre sei fecero perdere le proprie tracce, tornandosene indisturbate nelle profondità dei mari dalle quali erano emerse. Il grosso cetaceo, fu trascinato a riva e sezionato direttamente sul bagnasciuga, da una coppia di anatomatopatologi di origine barese, ma operanti da anni sul Carso, e da una biologa marina venuta da Trento. Dal suo ventre emersero: il cadavere bluastro dello stupefatto Mario, gonfio d’acqua e orlato di alghe; un cappello a larghe tese austriaco; quattordici paia di scarpe francesi di varie misure e fatture; vecchie banconote di marchi tedeschi; alcuni voucher; un pomo della discordia; quarantanove scatolette di tonno (scadute); una motoretta Ape decorata come un carretto siciliano; materiale da lavoro di una cartomante croata; sette canotti tunisini sgonfi; la turbina di una Ferrari; una poltiglia multicolore di sacchetti di plastica cinesi; sessantacinque preservativi; quattro binocoli NATO; i volumi delle opere complete di Alberto Arbasino; una maglietta dell’Inter; sette computer greci inservibili; sette foto di Vladimir Putin sorridente; un missile terra-aria turco inesploso; matite a cera curde; una pistola dell’Isis; molte lampadine spagnole, ma quasi tutte fulminate. I funerali del nostro eroe Mario si svolsero al Monumentale di Milano alle sette del mattino. In forma privata, con poca gente. Lo inumarono nella cappella neogotica di famiglia, anche se lui aveva sempre detto di non avere una famiglia…

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).