La morte di Mikis Theodorakis

Viviamo in un Paese in cui il conformismo del discorso pubblico mainstream arriva al punto di accettare con pochi scossoni qualunque cosa: la rivendicazione della memoria del fratello del Duce a premio sui martiri della nostra Repubblica, la promozione in alto loco di zelanti funzionari già distintisi per encomi postumi a estremisti di destra, il dileggio di quei pochi intellettuali che pongono l’antifascismo a fulcro della propria attività di pensiero. Dietro i simboli la partita è più sostanziosa, e non di oggi: si marginalizza in una riserva indiana, magari con una pacca sulla spalla, un complimento di facciata e la malcelata commiserazione che tocca agli utopisti, chi si fa banditore di un pacifismo davvero intransigente, chi ritiene che insegnare non sia solo trasmettere nozioni (o che esercitare un mestiere non si risolva nell’abilità tecnica), chi fa della lotta alla diseguaglianza e al favoritismo una condicio sine qua non, chi crede nell’arte ”impegnata”, chi cerca di ridare voce e fiato alla tradizione della musica popolare, chi considera il patrimonio artistico e il paesaggio non come petrolio da sfruttare ma come linfa della coscienza civile di un popolo.

Giovedì scorso è arrivata una cartina di tornasole: la scomparsa di Mikis Theodorakis, il più grande musicista del Novecento greco, è stata celebrata dai più evocando il famosissimo sirtaki di Anthony Quinn nel film Zorba il Greco o la colonna sonora di Serpico; da altri, con pudichi e generici cenni alla sua figura di “combattente”. Si tratta di visioni legittime ma riduttive, che non spiegano nemmeno l’unanime cordoglio della sua patria, dove sono stati decretati tre giorni di lutto nazionale. Theodorakis è stato anzitutto un uomo che ha più volte rischiato la pelle per difendere, in lotte collettive e disperate, la libertà del suo Paese e gli ideali democratici in cui credeva: a più riprese imprigionato e torturato da Italiani e Tedeschi fra Tripoli d’Arcadia e Atene durante la II guerra mondiale (una volta fu liberato solo in quanto il maresciallo nazista, melomane, constatò che era allievo del conservatorio), continuò a entrare e uscire dal carcere e dalla clandestinità non solo durante la Resistenza ma poi lungo tutta la guerra civile (1945-49), vedendo perire o scomparire molti dei suoi amici più cari. Analogo trattamento gli fu riservato con l’avvento della Giunta dei Colonnelli (1967), quando – ormai celebre, e aderente del Partito Comunista – fu tirato fuori dalla gattabuia e portato in esilio solo grazie all’intervento del governo francese e di Jean-Jacques Servan-Schreiber.

Quando si evoca il magnifico sirtaki di Zorba, bisognerebbe ricordare con stupore che tale motivetto nacque negli stessi mesi del 1963 in cui Theodorakis era impegnato a onorare la memoria dell’amico deputato Grigoris Lambrakis, sapiente e indefesso alfiere della democrazia barbaramente assassinato da squadracce a Salonicco (a questo omicidio è peraltro dedicato il film Z – l’orgia del potere, del 1969, in cui Costa Gavras usò una colonna sonora fatta uscire di contrabbando dalla cella in cui Theodorakis era detenuto): all’indomani del misfatto, Theodorakis creò e capeggiò un movimento giovanile, quello dei cosiddetti “Lambràkides”, destinato a raccogliere negli anni fino a 50mila adepti e a giocare un ruolo decisivo, di lì a poco tempo, nella resistenza contro la Giunta dei Colonnelli: un movimento il cui manifesto parlava di libertà e democrazia, di liberazione dalla sudditanza agli USA (primi fautori del colpo di stato militare del ’67), di abolizione delle leggi speciali e dello stato di polizia, di eliminazione delle disuguaglianze, di recupero della cultura popolare.
Né fu un caso: se egli, infatti, ribadiva di non aver mai messo in musica testi connotati in senso partitico, tuttavia era persuaso che l’artista, tramite il contatto con il popolo, dovesse “alzare la bandiera dell’umanesimo, la bandiera della speranza”, essere “congeniale alle necessità fondamentali della società”, e pertanto contribuire a lottare con i propri mezzi (e non solo) contro l’ignoranza, la miseria, il nazionalismo, la guerra, la tirannia. Non parole vuote, queste, né ortodossie veteromarxiste, ma una missione che dava un senso alla sua idea di musica, e di futuro: il “canto popolare artistico” (praticato assieme a lui anche dall’altro grande, Manos Chatzidakis) fu un miracolo quasi solo greco che metteva al centro testi di altissimi poeti (apparentemente “difficili” e lontani dalle masse) e li faceva volare sulla bocca di tutti, rivendicando il bouzouki, il sandouri, la lira e il baglamàs come strumenti di una grecità primordiale, la sanguinante Grecità dell’amico poeta Ghiannis Ritsos (che mise in musica) contrapposta alla posticcia e ipocrita “civiltà ellenocristiana” dei fascisti, e pronta a dialogare con le culture circostanti – benché la sua famiglia a Creta avesse versato molto sangue nelle lotte d’indipendenza, Theodorakis collaborò sovente con musicisti turchi, e addirittura nel 1985 in Santa Sofia a Istanbul intonò a cappella un inno alla Vergine, col consenso ammirato dei locali.
Una missione così concreta da essere esplicata, a beneficio del prossimo, non solo nei teatri e nelle piazze, ma anche nei luoghi più impensati: nelle prigioni Averoff di Atene eseguì per la prima volta la “canzone-fiume” Epifania del premio Nobel Giorgio Seferis (“Ho conservato la mia vita come un sussurro nel silenzio infinito / e non so più parlare né pensare. Fruscii / come il respiro del cipresso quella notte…”); nella cucina del campo di detenzione di Oropos musicò per i compagni Raven dello stesso Seferis (peraltro noto conservatore); ai suoi carcerieri di Zatuna in Arcadia cantò testi del comunista Manolis Anagnostakis (“Parlo di fiori / seccati sulle tombe / e marci per la pioggia, / di case senza finestre / sogghignanti / come cranii sdentati, / di ragazze mendicanti / che mostrano i seni / e le ferite”).

Oggi pare quasi incredibile che un uomo capace di inventare il ritmo di García Lorca e di concepire l’idea della musica meta-sinfonica, di elaborare pensieri profondissimi sul rapporto tra tecnica drammatica antica e suono contemporaneo (si pensi anzitutto ai film Elettra e Troiane di Michael Cacoyannis, dove la colonna sonora realizza al meglio l’unione “mistica” tra logos – parola -, musica e danza), fosse al contempo in grado di organizzare manifestazioni, dettare linee politiche, scrivere volantini per il quartiere e spedire lettere a Nixon, provando letteralmente, nella prassi, a “risvegliare la gioventù dal sonno del totocalcio, dei juke-box e dei flipper”. Ma il suo non fu un caso isolato: negli stessi anni decine di intellettuali lottavano a proprio rischio e pericolo (galera, torture, plotoni di esecuzione, censura totale per le loro opere) in nome di un futuro diverso: dal citato Ritsos (premio Lenin come lui, e autore fra l’altro del famoso Epitafio per la morte di un dimostrante operaio, che Theodorakis trasformò in un inno delle lotte per la giustizia e la libertà: nel 2013 lo udii cantare da una folla spontanea, guidata dall’anziano scrittore Vassilis Vassilikòs, proprio dinanzi all’ospedale di Salonicco dove morì Lambrakis, a 50 anni esatti da quel giorno; e mi commossi) al patriota Manolis Glezos (l’eroe della Resistenza, morto l’anno scorso, che nel ‘41 strappò la bandiera nazista dall’Acropoli: alcuni ricorderanno i suoi folgoranti discorsi al Parlamento europeo, dove fu eletto con Syriza); dal vulcanico e sempre scomodo Alekos Panagulis (il protagonista di Un uomo di Oriana Fallaci, eliminato non dai colonnelli ma dalla restaurata democrazia) ai poeti resistenti come il citato Anagnostakis, Aris Alexandru, Titos Patrikios (l’unico di tutti ancora in vita) e molti altri.
Nessuno di questi uomini andò esente da errori, incertezze, incoerenze (anche se spesso, come avvenne pure a Theodorakis, furono calunniati dai loro nemici come traditori della loro causa al solo fine di gettare discredito sulla loro aura di incorruttibilità); nessuno dimenticò mai la missione di dar voce ai tanti compagni caduti nella lotta “dalla parte giusta” per un mondo migliore. Deputato per il Partito Comunista dal 1981, nel ‘90 Theodorakis, con la sua apertura mentale (la stessa che – per sommo scorno dei massimalisti – nel 1974 lo indusse ad accettare perfino un gabinetto presieduto dal suo acerrimo nemico Karamanlís pur di uscire per via democratica dalla lacerazione civile inferta al Paese dalla Giunta), raccolse l’invito a fare il ministro della Cultura in un governo di destra guidato da quello stesso Konstandinos Mitsotakis (padre dell’attuale premier) nella cui colpevole accidia egli aveva additato venticinque anni prima una delle ragioni dell’avvento della dittatura: durò pochi mesi. Ma il senso di un’avventura musicale, intellettuale e civile rimane in quello straordinario crogiolo degli anni ’60, che entusiasmò tanto anche l’Italia (a tacere dei libri usciti per gli Editori Riuniti, da Conquistare la libertà a Diario del carcere, nel 1970 uno spettacolo delle sue Canzoni in esilio, poi diventato un disco di Ricordi con Edmonda Aldini, tenne banco per un mese intero al Teatro dell’Arte di Milano). E il vertice fu toccato non in un canto di lotta ma nella versione musicale di molti brani del poema Axion esti (Dignum est) di Odisseas Elitis (poi Premio Nobel 1979: fresche di stampa le sue Poesie pubblicate da Crocetti).

Ardimentoso insieme di parole e pensieri derivati da ogni momento della storia secolare della grecità, il capolavoro di Elitis riprende in parte certe movenze degli inni liturgici bizantini, alternando salmi, canti e “letture” in prosa, e convoglia in altissima poesia momenti del passato antico e recente della stirpe, fino agli episodi cruenti della Resistenza antitedesca. Quando nel ’64 (l’anno, di nuovo, di Zorba) Theodorakis musicò queste poesie, divennero patrimonio comune dei giovani e degli anziani, nelle taverne e sulle spiagge, alcuni versi che, da soli, danno un senso a questa storia, alla storia dei Greci, degli Italiani, e dell’uomo tout court: “Sole intellegibile della Giustizia – e tu mirto glorificatore / non dimenticate, ve ne – scongiuro la mia terra!”, o “Da centimani notti – nel firmamento intero / Sono i visceri smossi – Questo dolore brucia / Dove trovare l’anima – lacrima quadrifoglia!”, o ancora “Il vincitore dell’Inferno dell’Amore il salvatore, / il Principe dei Gigli è qua”.

Filippomaria Pontani

Filologo classico a Venezia (Ca’ Foscari), mi occupo di greco da Omero a Kavafis, di manoscritti bizantini, di poesia, di lingua. Sul Post e sul Fatto quotidiano scrivo di scuola e università, di arte e patrimonio culturale, di Europa e Medio Oriente, di venetudine.