Premiata Cancelleria Marco Travaglio

Premessina annoiata: la letterina di Berlusconi a Marco Travaglio è la riproposizione testuale e parziale di una scheda scritta da me, e, a sua volta, tratta da miei articoli pubblicati su Libero. Mi sono limitato a spedire la «scheda» a un collega (che non citerò, non è rilevante, e poi magari non c’entra niente neanche lui) ma ripeto, è tutto già pubblicato: fa eccezione solo la breve parte della lettera dedicata su Montanelli, di cui nulla so. Il collega mi disse una cosa tipo: «Aho, giovedì c’è Servizio Pubblico col duello eccetera, tu non avevi scritto… ?».

Mentre l’elencazione delle condanne civili e penali di Travaglio è in parte tratta da Wikipedia, sì, il dettaglio curioso è che su Wikipedia le postai io due o tre ani fa, limitandomi a copiare da miei articoli che citavano anche le fonti: agenzie di stampa, un paio di avvocati e un monitoraggio a cura del professor Zeno-Zencovich. Le scrissi, queste voci su Wikipedia, dopo che una masnada di personaggi mi aveva martellato l’anima dicendomi che Travaglio non aveva mai avuto condanne in vita sua: anche quello fu solo un copia/incolla. Insomma, è tutta una banale sciocchezza: al collega avrei anche potuto dire «cercati la roba in rete» e invece gli mandai una mail in tre secondi. È normale, tra colleghi: compresi un paio di amici de Il Fatto Quotidiano. Diverse volte ho pure spedito vecchi articoli o «schede» (anche dei post ripresi da qui, se ricordo bene) a degli avvocati che avevano in ballo delle cause. Fine.

Travaglio copia dai magistrati e Berlusconi – chi per lui – ha copiato da giornalisti.

Poi: sappiamo tutti – qui, almeno – che una causa e un processo per diffamazione a un giornalista, un tempo, non parevano una gran notizia neppure quando toccavano un giornalista che appunto fa notizia, come Travaglio. Ora le cose sono cambiate, c’è stato il caso Sallusti ma soprattutto c’è stato un imbarbarimento che è parte dell’eredità culturale che proprio Travaglio ha contribuito a edificare in anni di professione. Ciò detto, l’elenco delle cause/querele lo metto qui di seguito, chi non è interessato vada alla parte successiva.

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– Nel 2000 è stato condannato in sede civile per una causa intentata da Cesare Previti dopo un articolo su L’Indipendente del 24 novembre 1995): 79 milioni di lire, pagati in parte attraverso la cessione di un quinto dello stipendio.

– Nel giugno 2004 è stato condannato dal Tribunale di Roma in sede civile a un totale di 85.000 euro (più 31.000 euro di spese processuali) per un errore contenuto nel libro «La Repubblica delle banane» scritto assieme a Peter Gomez e pubblicato nel 2001. Nel libro, a pagina 537, così si descrive «Fallica Giuseppe detto Pippo, neo deputato Forza Italia in Sicilia»: «Commerciante palermitano, braccio destro di Gianfranco Miccicché… condannato dal Tribunale di Milano a 15 mesi per false fatture di Publitalia. E subito promosso deputato nel collegio di Palermo Settecannoli». Dettaglio: non era vero. Era un caso di omonimia tuttavia spalmatosi a velocità siderale su L’Espresso, su il Venerdì di Repubblica e su La Rinascita della Sinistra: col risultato che il 4 giugno 2004 sono stati condannati tutti a un totale di 85mila euro più 31mila euro di spese processuali; 50mila euro in solido tra Travaglio, Gomez e la Editori Riuniti, gli altri sparpagliati nel gruppo Editoriale L’Espresso. Nel 2009, dopo il ricorso in appello, la pena è stata ridotta a 15.000 euro.

– Nell’aprile 2005 eccoti un’altra condanna di Travaglio per causa civile di Fedele Confalonieri contro lui e Furio Colombo, allora direttore dell’Unità. Marco aveva scritto di un coinvolgimento di Confalonieri in indagini per ricettazione e riciclaggio, reati per i quali, invece, non era inquisito per niente: 12mila euro più 4mila di spese processuali. La condanna non va confusa con quella che il 20 febbraio 2008, per querela ‘stavolta penale di Fedele Confalonieri, il Tribunale di Torino ha riservato a Travaglio per l’articolo Mediaset «Piazzale Loreto? Magari» pubblicato sull’Unità del 16 luglio 2006: 26mila euro da pagare; né va confuso con la citata condanna a pagare 79 milioni a Cesare Previti (articolo sull’Indipendente) e neppure va confuso con la condanna riservata a Travaglio dal Tribunale di Roma (L’Espresso del 3 ottobre 2002) a otto mesi e 100 euro di multa per il reato di diffamazione aggravata ai danni sempre di Previti, reato – vedremo – caduto in prescrizione, o forse no, non si capisce.

– Nel giugno 2008 è stato condannato civilmente dal Tribunale di Roma al pagamento di 12.000 euro più 6.000 di spese processuali per aver descritto la giornalista del TG1 Susanna Petruni come personaggio servile verso il potere e parziale nei suoi resoconti politici: «La pubblicazione», si leggeva nella sentenza, «difetta del requisito della continenza espressiva e pertanto ha contenuto diffamatorio».

– Nell’aprile 2009 è stato condannato dal Tribunale penale di Roma (articolo pubblicato su L’Unità dell’11 maggio 2007) per il reato di diffamazione ai danni dell’allora direttore di Raiuno Fabrizio Del Noce. Il processo è pendente in Cassazione.

– Nell’ottobre ottobre 2009 è stato condannato in Cassazione (Terza sezione civile) al risarcimento di 5.000 euro nei confronti del giudice Filippo Verde, che era stato definito «più volte inquisito e condannato» nel libro «Il manuale del perfetto inquisito», affermazioni giudicate diffamatorie dalla Corte in quanto riferite «in maniera incompleta e sostanzialmente alterata».

– Nel giugno 2010 è stato condannato civilmente dal Tribunale di Torino (VII sezione civile) a risarcire 16.000 euro al Presidente del Senato Renato Schifani, avendo evocato la metafora del lombrico e della muffa a «Che tempo che fa» il 10 maggio 2008.

– Nell’ottobre 2010 è stato condannato civilmente per diffamazione dal Tribunale di Marsala: ha dovuto pagare 15mila euro perché aveva dato del «figlioccio» di un boss all’assessore regionale siciliano David Costa, arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e successivamente assolto in forma definitiva.

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Dall’elenco manca una querela. Anzi due, perché una è finita in bellezza: il 12 marzo e 6 maggio del 2004, su l’Unità, il presunto collega scrisse gli articoli «M’illumino d’incenso» e «Zitti e Vespa» e fu querelato da Antonio Socci; il procedimento si concluse nel 2008 dopo che Socci decise di rimettere la denuncia. Travaglio l’aveva convinto con una transigenza poco sbandierata: «Riconosco di aver ecceduto usando toni e affermazioni ingiuste rispetto alla sua serietà e competenza professionale, e di ciò mi scuso anche pubblicamente con lui».

L’altra querela è la più significativa, ed è stata citata anche da Berlusconi a Servizio Pubblico. Ma prima di spiegarla bisogna spiegare che Travaglio sabato mattina è tornato sull’argomento sul Fatto Quotidiano: ancora una volta insiste con la sua tesi originaloide secondo la quale le condanne per diffamazione sono solo penali, mentre quelle civili – come le sue – non sono condanne, e non sono neanche diffamazioni, o insomma contano poco. Testuale, da Il Fatto di sabato:

«Se un giornalista viene citato in giudizio dinanzi a un tribunale civile per avergli inferto un “danno”, il giudice decreta la sua soccombenza nella causa se ritiene che il danno ci sia stato, oppure no in caso contrario».

Notare la fatica per evitare i termini «condanna» e soprattutto «illecito», che in diritto civile sostituisce il reato. Travaglio, in pratica, scrive come se un tizio potesse farti causa senza che dietro al «danno» ci sia anche un illecito: è chiaro che deve esserci, altrimenti non ti condannerebbero. Ma pur di evitare il termine «condanna» eccolo stiracchiare il termine «soccombenza» (complicandosi la vita, perché la soccombenza esiste anche nel penale) e fingendo che di condanna non si parli negli articoli 91 e 278 del Codice di procedura civile, tra altri. Parentesi: se molti suoi amici magistrati fanno direttamente causa civile, saltando l’azione penale, è giusto per saltare un passaggio e puntare direttamente ai soldi. Chi si sente offeso nel proprio onore, infatti, può chiedere direttamente il risarcimento con una causa civile senza necessità di una penale. Può esserci un illecito civile senza che sia anche penale, mentre un illecito penale comporta sempre anche un illecito civile. Funziona così.

Ora passiamo alla sostanza. Ha scritto ancora Travaglio:

«Ho perso alcune cause, pagando il risarcimento del danno, mai per avere scritto il falso, ma perlopiù per casi di omonimia o per critiche ritenute eccessive o per fatti veri mal compresi dal giudice».

Per confutare queste sciocchezze toccherebbe riportare paginate di sentenze che oltretutto ucciderebbero questo post: di casi di omonimia, comunque, ne risulta uno solo, mentre altre sentenze parlano di affermazioni riferite «un maniera incompleta e alterata». Ma forse dare del «figlioccio di un boss» a un assessore regionale, secondo Travaglio, è solo una critica eccessiva. Senza contare i «fatti mal compresi dal giudice», che è la più bella: ci sono anche i giudici – gli idoli di Travaglio – che hanno evidenti deficit mentali. Roba che neanche Berlusconi.

La sostanza, dicevamo. Scrive Travaglio:

«La condanna penale citata da Berlusconi non è né definitiva né caduta in prescrizione: si tratta di una condanna penale in appello a risarcire Previti con una multa di 1.000 euro su cui pende il mio ricorso in Cassazione senza che nessuno abbia dichiarato la prescrizione del reato».

E qui è un mistero. La notizia della sua prescrizione, infatti, la diedero tutti i giornali e le televisioni (anche il Tg1, lo so perché mi intervistarono) ma soprattutto ne parlò ampiamente anche Travaglio: accadeva nel suo «Passaparola» (4 aprile 2011) in cui ammetteva, nel dettaglio che «ho avuto una prescrizione e forse ne ho avuta anche un’altra… ho avuto una multa di mille euro e poi dopo l’Appello è caduta in prescrizione»; accadeva poi anche a «In Onda» (2 aprile 2011) e a «Otto e mezzo» (11 aprile 2011). Ergo: o mente, adesso, o forse ha fatto ricorso successivamente, dopo esser stato scoperto. Ma per rivelarlo ha aspettato che ad accusarlo fosse Berlusconi, seduto al suo posto.

Vediamo i fatti. La condanna in primo grado è dell’ottobre 2008: il presunto collega beccò otto mesi di prigione (pena sospesa) e 100 euro di multa. L’articolo era del 2002 e su l’Espresso era sottotitolato così: «Patto scellerato tra mafia e Forza Italia. Un uomo d’onore parla a un colonnello dei rapporti di Cosa nostra e politica. E viene ucciso prima di pentirsi». Lo sviluppo, poi, era un classico copia & incolla dove un pentito mafioso spiegava che Forza Italia fu regista di varie stragi. Chi aveva raccolto le confidenze di questo pentito era il colonnello dei carabinieri Michele Riccio, che nel 2001 venne convocato nello studio del suo avvocato Carlo Taormina assieme a Marcello Dell’Utri.

In quello studio, secondo Riccio, si predisposero cose losche, tipo salvare Dell’Utri, e Travaglio nel suo articolo citava appunto un verbale reso da Riccio a proposito. Eccolo: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti». E così praticamente finiva l’articolo. L’ombra di Previti si allungava perciò su vari traffici giudiziari ma soprattutto veniva associato a un grave reato: il tentativo di subornare un teste come Riccio. Fine. Il dettaglio è che Travaglio aveva omesso il seguito del verbale del colonnello, ed eccolo per intero:

«… era presente anche l’onorevole Previti. Il Previti però era convenuto per altri motivi, legati alla comune attività politica con il Taormina, e non era presente al momento dei discorsi inerenti la posizione giudiziaria di Dell’Utri».

Una diffamazione bella e buona, tanto che il giudice Roberta Di Gioia del Tribunale di Roma, il 15 ottobre 2008, condannava Travaglio ai citati otto mesi. E scriveva:

«La circostanza relativa alla presenza dell’onorevole Previti in un contesto di affari illeciti è stata inserita nell’articolo mediante un accostamento indubbiamente insinuante… è evidente che l’omissione del contenuto integrale della frase di Riccio, riportata solo parzialmente nell’articolo, ne ha stravolto il significato. Travaglio ha fornito una distorta rappresentazione del fatto… al precipuo scopo di insinuare sospetti sull’effettivo ruolo svolto da Previti».

Ma il peggio doveva ancora venire:

«Le modalità di confezionamento dell’articolo risultano sintomatiche della sussistenza, in capo all’autore, di una precisa consapevolezza dell’attitudine offensiva della condotta e della sua concreta idoneità lesiva della reputazione».

In lingua corrente: Travaglio l’aveva fatto apposta, aveva diffamato sapendo di diffamare.

«Ricorrerò in Appello» aveva annunciato il giornalista dopo la condanna: e pazienza se infinite volte si era detto favorevole all’abolizione dell’Appello. «Vedremo le motivazioni della sentenza» aveva poi commentato. Poi, quando furono rese note, non disse una parola. La sentenza è dell’8 gennaio 2010 e confermava la condanna: semplicemente gli era stata concessa, per attenuanti generiche, una riduzione della pena. Ma Travaglio fece il furbo come al solito: «La sentenza di primo grado in cui venivo condannato a otto mesi più un paio di multe e ammende è stata appena devastata dalla Corte d’appello, che elimina la pena detentiva e lascia una multina di 1000 euro». Devastata, aveva scritto. «Ora aspetto la motivazione», aggiungeva, «e mi auguro che venga scritta da un giudice che abbia la più pallida idea di che cos’è un articolo di giornale».

Il problema è che la motivazione, per essere depositata, non impiegò i consueti sessanta giorni: impiegò un anno, dall’8 gennaio 2010 al 4 gennaio 2011. Così il reato è caduto in prescrizione, o questo avevamo capito tutti, anche Il Fatto Quotidiano. Forse che fossero motivazioni complesse? Diremmo di no, visto che occupano due sole pagine. Ma che cosa dicevano? Non è un dettaglio da poco, visto che Travaglio dice: «Quando parlo di Corti d’appello come “scontifici” mi riferisco a quando mantengono inalterato l’impianto accusatorio e limano qualche giorno sui mesi o qualche mese sugli anni inflitti in primo grado. Quando invece stravolgono le condanne di primo grado, fanno altro: le riformano, le rivedono, le smentiscono. Vedremo se è così anche nel caso mio».

E lo si vide: non era il caso suo. La sentenza d’Appello non stravolse, non riformò, non rivide e non smentì, anzi:

«La sentenza impugnata deve essere confermata nel merito», si legge, «in quanto ottimamente motivata, con piena aderenza alle risultanze processuali… È appena il caso di ribadire la portata diffamatoria nei confronti dell’on. Previti… Bastava omettere la frase “in quell’occasione presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti” per evitare qualunque diffamazione, senza togliere alcunché alla notizia… Proprio l’averlo inutilmente nominato, e l’aver totalmente omesso la specifica precisazione circa l’assenza fatta dal teste, è prova del dolo da parte del Travaglio».

In sintesi: Travaglio se la prende coi giornalisti diffamatori, ma allora è un diffamatore anche lui. Travaglio è stato condannato, ma preferisce dire «soccombente». Travaglio parla solo di «danno», e non dice che in un tribunale non esiste danno senza illecito. Travaglio dice che una prescrizione non equivale a un’assoluzione ma a una condanna: ergo lui è stato condannato. Travaglio dice che un innocente che si reputasse tale dovrebbe rinunciare alla prescrizione: ma lui alla prescrizione non ha rinunciato, o questo sapevamo: se non è così ci illumini, smentisca se stesso, ci spieghi meglio. Travaglio è favorevole all’abolizione dell’Appello: ma poi ricorre in Appello. Travaglio, in passato, ha scritto che le corti d’Appello sono degli «scontifici che mantengono inalterato l’impianto accusatorio, e che limano soltanto la pena»: è quello che è successo a lui. Travaglio è un ottimo giornalista: se solo decidesse di cominciare a farlo.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera