La storia in mano a questo qui

Di Pietro in due frasi? Eccolo. Prima frase, pagina 173: «È iniquo che di fronte della diffamazione di una persona sia prevista la pena pecuniaria». Seconda frase, pagina 40: «In tutti questi anni ho incassato più di un milione e mezzo di euro di risarcimento da parte dei giornali che mi hanno diffamato». Dopodiché viene da scagliare il suo libro dalla finestra, ma tipo dall’ultimo piano del Pirellone. Chi dice che nessun libro è inutile, del resto, non ha visto questo. Manco è cominciato e già leggi: «Nato a Montenero di Bisaccia nel 1959». Falso, è nato nel 1950. Un errore, capito. Poi: «Ha lasciato la magistratura nel 1994». Falso, spedì la lettera al Csm il 1° aprile 1995 e la delibera è del 27 successivo, con pensione di anzianità dal 6 maggio. Ecco, è un libro tutto così, raffazzonato, denso di rimasticature in alcune parti e di omissioni e balle in altre.

Il titolo comunque è Politici, quattordici ritratti insoliti (Ponte alle Grazie) col dettaglio che non sono insoliti, e che la rivelazione più squassante è che l’Idv non farà alleanze con l’Udc. Del resto francamente chi se ne frega, compresa – ci perdonerà – l’improbabile solennità con cui la co-autrice spiega che quella di Tonino è «la rude verità dei fatti incontrovertibili della storia».

Dopodiché scrive un mare di cazzate e falsità. Faccio un solo esempio, qui, per i feticisti delle cose piddine. Di Pietro scrive: «Veltroni avrebbe voluto che l’Idv confluisse nel Pd, mentre noi ritenemmo quel partito troppo acerbo, instabile, frammentato». Stop. Una sintesi grida vendetta. Di Pietro e Veltroni si incontrarono il 10 febbraio 2008: tempo tre giorni e avevano raggiunto un accordo per le elezioni di aprile. Disse Tonino: «Con Veltroni abbiamo fatto un accordo programmatico, politico e progettuale…. un percorso che porterà alla possibilità di una nostra confluenza in un unico partito e in un unico gruppo parlamentare». Sembrava una cosa seria. Tonino era stato chiaro: «L’Italia dei Valori creerà un unico gruppo con il Pd con l’obiettivo di confluirvi ». Unico gruppo. Confluire. Le parole erano quelle: tanto per chiarire che cosa non gli passerà neppure per l’anticamera del cervello. Eppure lo disse una terza, una quarta, infinite volte: «Saremo alleati fedeli, abbiamo sottoscritto un programma con il Pd e per noi quel programma è il Vangelo».

Passavano solo cinque giorni e già Di Pietro cominciava a smarcarsi: «Non scioglierò l’Italia dei Valori e non ho mai detto una cosa del genere, questo non significa che non formerò un unico gruppo elettorale del Pd». Il resto della storia si sa. Di Pietro – si disse – era lo spauracchio che doveva tenere sottotraccia i grillisti e i forcaiolisti del Paese, l’antipolitica, queste cose: neppure qualche mese dopo, a Pd già vampirizzato, Veltroni diede segni di ravvedimento: «Se Di Pietro fosse rimasto fuori dell’alleanza, avrebbe usato in campagna elettorale i toni che lo hanno caratterizzato nei mesi successivi. Per questo non sono pentito della scelta che ho fatto». Insomma non si pentì, cosicché Di Pietro si tenne ben stretto l’antiberlusconismo e lo usò anche contro il Partito democratico. C’è un episodio, misconosciuto, che rende l’idea: Veltroni, come appariva logico, nel 2008 chiese a Di Pietro di non ricandidare nelle sue liste chi era rimasto fuori da quelle del Pd; Di Pietro invece chiese a Veltroni di non ricandidare nel Pd chi avesse già fatto tre legislature, come chiedevano i grillini e come l’amico Walter aveva in parte già fatto; l’accordo fu siglato e Veltroni non ricandidarono per esempio Giovanni Paladini e Renato Cambursano e Giuseppe Giulietti: dopodiché – fantastico – Di Pietro andò da ciascuno di loro e gli offrì di candidarsi con l’Italia dei Valori. Diverranno suoi parlamentari e lui ridiscenderà nelle piazze a raccogliere firme contro i parlamentari con più di due legislature.

Detto questo, Di Pietro continuerà a vampirizzare il Pd per tutto il tempo: l’idea di Veltroni di non ossessionarsi sull’avversario – addirittura spingendosi a non nominarlo – convinse Tonino che era maturo il momento di ergersi a «unica opposizione». L’Italia dei valori, alle elezioni, beccò il 4,4 per cento alla Camera e il 4,3 al Senato, non raddoppiando l’esito del 2006 ma quasi. In Molise Di Pietro superava anche il Partito democratico. Dopo il voto, come detto, lasciò subito intendere che a confluire nel Partito democratico non ci pensava neanche. Figurarsi fare un gruppo unico: aveva subito lasciato intendere che un gruppo comune, al minimo, avrebbe dovuto avere le diciture «Italia dei Valori» e «Partito democratico» sullo stesso piano dignitario. Dirà Veltroni: «Visto che aveva i deputati per fare un gruppo da solo, Di Pietro non ha esitato a stracciare un impegno preso con gli elettori». Avere dei gruppi propri alla Camera e al Senato significava rimborsi e benefici come segreterie, portaborse, consulenti e uffici. Facevano un altro milione di euro all’anno più i soldi per assumere una ventina di persone, uno ogni tre eletti.

Anche il resto è noto. Di Pietro alle Europee arruolò una serie di vegliardi, abbandonati dal Pd, e il 4 giugno 2009 raddoppiò i voti: 7,98 per cento, il doppio o quasi rispetto alle politiche del 2008. Circa il 50 per cento dei voti risultarono smembrati dal Partito democratico. Più di recente, dettaglio non da poco, Di Pietro ha fornito il materiale umano per la transumanza di Razzi e Scilipoti nel centrodestra, confermando quanto sia facile fare shopping politico tra le sue file. Poi ci sarebbero tutte le differenze politiche tra la sinistra e l’Italia dei valori, ma non è il caso di stare a sottilizzare.

E questa è una cosa, una cosa sola: il libro ne è pieno, e per smentire due righe ogni volta ne servirebbero dieci. Accade anche con Travaglio. I suoi giudizi su Monti e e Bersani in compenso paiono scritti da Arnaldo Forlani (un prevedibile copia/incolla di chiaroscuri con personali flashback giudiziari) e così pure accade con l’amico Grillo, da cui lo demarcano «differenze profonde» in quanto «Il movimento 5 stelle intende buttare giù il palazzo, mentre l’Idv intende operare all’interno delle istituzioni per migliorarle… sono due posizioni complementari, due facce della stessa medaglia». Insomma, c’è una «diversità di approccio, Grillo vorrebbe abbattere tutto e subito» mentre Di Pietro – aggiungiamo noi – lo vorrebbe pure, ma è da vent’anni che non ci riesce.

Da citare – poi basta – la sua scandalosa versione del suicidio di Raul Gardini, che lui descrive come un tapino «suicidatosi un quarto d’ora dopo che m’ebbe telefonato il suo avvocato dicendomi che il suo assistito era disposto a collaborare». Balle, e pure sonore. Gardini – siamo nel 1993 – aveva semplicemente pensato di potersela cavare come avevano già fatto Carlo De Benedetti e Cesare Romiti: con un memoriale decoroso al momento giusto. Poi, però, venne a sapere che il Pool aveva chiesto un primo mandato d’arresto contro di lui (dapprima respinto) mentre il successivo 16 luglio, quando il mandato di cattura fu riproposto e gli rimase appeso sopra la testa, lo stesso Gardini si dichiarò disponibile a parlare di tutta la vicenda Enimont (soldi ai partiti, contabilità parallela, paradisi fiscali) e chiese un interrogatorio spontaneo mandando in avanscoperta il suo avvocato: ma andò male. Il segnale fu preciso: non volevano interrogarlo, volevano arrestarlo, o meglio, volevano interrogarlo da galeotto. Come finì è noto. Gardini di primo mattino lesse Repubblica (che riportava alcune anticipazioni che lo riguardavano) e si uccise. Di Pietro tutto questo non lo racconta. Di Pietro è troppo impegnato a scrivere, per capirci, che «non ho mai usato la cercerazione preventiva per estorcere una confessione». Scrive così. Com’era? Dalla cima del Pirellone.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera