Un volgare garantista

La mia stima per Giuliano Pisapia rasenta l’omosessualità: meglio quindi che ne scriva ora, questo nella remotissima ipotesi che Libero possa sostenere la sua avversaria Letizia Moratti nelle amministrative di primavera. Anche perché più o meno tutto, viceversa, mi divide da Letizia Moratti: a parte l’aver conosciuto fugacemente sua figlia Gilda (un ciclone, ai tempi) la sindachessa nel 1995 stracciò un mio contratto appena firmato alla Rai, di cui era presidente: una faccenduola di intercettazioni Italia-Hammamet. E poi io sono milanista.
Pisapia invece è un amico, una fonte e un avvocato, per me. E’ l’unico a cui nell’estate del 2009 feci leggere un pezzo del mio libro su Di Pietro per sapere che cosa ne pensava di una certa parte giurisprudenziale. Ma in fondo sono fatti miei, fine della premessa auto-riferita.

Ciò detto, il risultato ottenuto da Giuliano Pisapia a Milano è spettacolare per almeno due ragioni. La prima è che ha vinto – a sinistra – un garantista di quelli veri, ma veri-veri: suo padre, Giandomenico, fu eminente giurista nonché presidente della commissione per la riforma del codice di procedura penale (che si chiama Codice Vassalli-Pisapia, infatti) e quindi è un testimone puntuale di tutti gli stravolgimenti cui lo stesso Codice è stato e viene sottoposto da più di vent’anni. Parentesi: Giandomenico Pisapia, intervistato dallo scrivente nel 1992, mi disse questo: «E’ il processo che è pubblico, non le indagini. Il Nuovo Codice vieta la divulgazione di atti che sono in gran parte segreti: il segreto delle indagini c’è, e serve a tutelare l’indagato che naturalmente teme che la divulgazione di notizie anticipate possa pregiudicare la sua immagine, immagine che una volta guastata non può essere ripristinata nemmeno in caso di assoluzione». Figurarsi.

Tornando a Giuliano: il suo libro In attesa di giustizia, scritto col magistrato Carlo Nordio – che di sinistra non è – resta il testo in assoluto più interessante, realista e competente uscito negli ultimi vent’anni sull’argomento. Le qualità di Pisapia sono spesso equivalse ai suoi difetti in termini di scarsa organicità al Partito Democratico: da competente, ex deputato indipendente di Rifondazione comunista, era il candidato prescelto per il ministero della Giustizia nel governo Prodi (che lo stimava) ma risultò estraneo a quel gioco di pesi e contrappesi che avrebbe reso i ministri del governo Prodi perfettamente intercambiabili tra loro: e così fu Clemente Mastella – già candidato anche alla Difesa e alle Politiche agricole: chi non è competente in niente è candidato a tutto – a soffiargli il posto. Ma non fu solo per Mastella.

L’avvocato Pisapia, da una parte, non era propriamente graditissimo a quella nomenklatura giudiziaria che nel Pd aveva e ha un certo peso; ma al tempo stesso – e qui ci si collega alla seconda spettacolare ragione per cui la candidatura di Pisapia appare salutare – le sue posizioni sulla giustizia l’hanno sempre reso insopportabile anche a certi papaveri della sinistra più estrema e forcaiola, quella che in parte sovrintende, paradossalmente, lo stesso popolo che l’ha votato nei giorni scorsi a Milano. Pisapia, per capirci, in passato si è detto favorevole alla separazione delle carriere, al divieto di appello in caso di assoluzione, a non azzerare tutte le precedenti leggi del Polo, addirittura all’abolizione dei reati di concorso esterno in associazione mafiosa: fu lui a fare una proposta di legge di un solo articolo «volta a superare l’equivocità giuridica sull’ipotesi definita concorso esterno in associazione mafiosa… una nuova figura di reato non prevista da alcuna norma di legge e in contrasto con il principio di tassatività della norma, che è uno dei cardini dello Stato di diritto». Questa norma inesistente, secondo Pisapia, ha determinato «la contestazione nei confronti di medici responsabili di aver curato persone ritenute partecipi a un’associazione mafiosa, di sacerdoti per aver prestato presenza spirituale alle medesime persone, e, addirittura, a vittime di estorsioni» (Camera, atto. n.854, 14 giugno 2001). Chissà che ne pensa, oggi, quella stessa sinistra che oggi fa finta di nulla. Del resto una sinistra garantista esiste ancora: l’abolizione del concorso esterno fu proposta nel 1996 anche dal diessino Pietro Folena: il quale, poi, malvoluto da Veltroni, lasciò i Ds nel 2005.

Per farla breve: potete immaginare quanto stia simpatico uno come Pisapia a Marco Travaglio e a tutto ciò che rappresenta: «turbogarantista» è l’espressione più gentile che gli ha rivolto il battutista di Annozero. Quando l’avvocato fu informalmente candidato a Guardasigilli da Romano Prodi, appunto, Travaglio intervenne su MicroMega per dare voce al fronte giustizialista: meglio che Pisapia e l’avvocato diessino Guido Calvi «non diventino, come si vocifera, ministro e sottosegretario alla Giustizia», intimò. «C’è un pregiudizio che genera contro di me un incomprensibile attacco ad personam», replicò Pisapia, «e questo succede non perché faccio l’avvocato ma solo perché sono un convinto garantista. Mi attaccano perché sostengo che il sistema si può riformare senza mortificare le garanzie e senza cedere alle pressioni corporative».

Insomma, per la sinistra de Il Fatto – se ne esiste una – i segnali appaiono contraddittori. Prima la caterva di lettere per protestare contro le «diffide» lanciate da Marco Travaglio all’indirizzo di Roberto Saviano – ne ha dato notizia lo stesso Fatto di domenica – reo di aver parlato solo di Giovanni Falcone, assieme a Fabio Fazio, e non di temi più politici e in altre parole berlusconiani. Ora, alle primarie milanesi, il trionfo di un volgare garantista.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera