Belpietro, Porro, eccetera

Questo è un post lungo, ma Nicola Porro e Maurizio Belpietro sono due amici – anche col poliziotto dell’attentato sventato ho un discreto rapporto – e allora vorrei spiegare un paio di cose.

Cominciamo con Porro.
Cominciamo col dire che il vero scherzo probabilmente l’ha giocato Renato Arpisella – addetto ai rapporti di Confindustria con la stampa – alla sua capa Emma Marcegaglia: le ha spacciato come minaccia reale quello che appunto era palesemente uno scherzo, l’ha per farsi bello e dimostrare la sua efficienza, forse, o per attestare che era in grado di bloccare una campagna in itinere contro di lei. E’ andata così? Ufficialmente non lo sappiamo, ma è davvero difficile che una vecchia volpe come Renato Arpisella non abbia capito che uno scherzo era uno scherzo, che un cazzeggio era un cazzeggio.
Ma questa non è soltanto la storia di uno scherzo venuto male, o meglio, venuto benissimo: è uno specchio fedele di come siamo messi male a stampa e magistratura e politica in questo Paese, è il riflesso condizionato che ancor’oggi scatta automatico se il giornalista è di centrodestra. Prima il fallito attentato al direttore di Libero, che qualche collega ha definito una patacca ancor prima di comprendere che cosa sia effettivamente successo; ora questo tentativo di ghettizzare uno dei giornalisti più assennati del Giornale (Nicola Porro, che l’altra sera, a Exit, su La 7, è stato oltretutto definito «servo» da Fabio Granata) con modalità che sono tutte da ricostruire.

E allora ricostruiamole. Porro è vicedirettore de Il Giornale e ora è ridicolmente indagato per «violenza privata» sulla base di sue telefonate ed sms. È un signore che ha scritto di Confindustria e di Emma Marcegaglia una tonnellata di volte: peschiamo un suo pezzo dell’8 dicembre 2007 (criticava la quotazione del quotidiano confindustriale, il Sole24Ore) e poi un altro pezzo del 21 maggio 2009 (lamentava che la Marcegaglia aveva rotto le scatole con certi suoi discorsi) e poi un altro del successivo 24 luglio (si compiaceva che un’azienda aveva abbandonato Confindustria) dopodiché il resto del racconto lo si può leggere in data 27 settembre, e non se n’è accorto nessuno, sul suo blog personale che si chiama «Zuppa di Porro»: «Mesi fa chiesi ad un portavoce della sciura, che si lamentava dei miei attacchi, di fare un’intervista alla signora. Lui mi rispose secco: “Non possiamo perché altrimenti apparirebbe ancora più berlusconiana di quanto sia, se parlasse col Giornale il gioco diventerebbe scoperto”. Non potevo credere alle mie orecchie. Ricapitolando: prima si lamentano del trattamento riservato alla Emma, e chiedono di finirla, allora io propongo un’intervista e loro rifiutano perché lei sarebbe troppo berlusconiana».

Ma Porro secondo qualcuno ora è un ricattatore, anzi un coartatore, uno che merita perquisizioni corporali. E perché? Perché il 15 settembre scorso, dopo che la Marcegaglia aveva attaccato il governo e dopo che Porro, come visto, aveva cercato di intervistarla, lui medesimo aveva inviato un sms a Renato Arpisella, il citato addetto ai rapporti di Confindustria, così congegnato: «Ciao, domani super pezzo giudiziario sugli affari della family Marcegaglia»; poi, ancora, al telefono con lo stesso Arpisella che Porro conosce da una decina d’anni: «Per venti giorni romperemo il cazzo alla Marcegaglia… ho spostato i segugi da Montecarlo a Mantova», che è la città di riferimento della signora. Morale: siccome nelle trascrizioni telefoniche il tono scherzoso non si percepisce, gli inquirenti non hanno compreso la modalità semiseria dell’sms e della telefonata e si sono limitati a registrare le successive pressioni della Marcegaglia (su Fedele Confalonieri e poi su Vittorio Feltri) per bloccare una campagna stampa che neppure esisteva: perché era, appunto, tutto uno scherzo, una boutade. Anche perché, com’è facile appurare, nessuno al Giornale ha spostato «segugi» da Montercarlo a Mantova: è una balla, è chiaro. Ecco perché resta solo da da capire perché Emma Marcegaglia e Rinaldo Arpisella non l’abbiano inteso (subito) ciò che era semplice da intendere: «Dopo il racconto di Arpisella», ha detto infatti la presidente di Confindustria ai magistrati, «ho sicuramente percepito l’avvertimento come un rischio reale e concreto per la mia persona e per la mia immagine, tanto reale e concreto che effettivamente ci mettemmo, anzi, mi misi personalmente in contatto con Confalonieri… Il Giornale e il suo giornalista hanno tentato di costringermi a cambiare il mio atteggiamento nei confronti de Il Giornale stesso, concedendo interviste che almeno recentemente non avevo fatto». La Marcegaglia ha percepito: siamo alla follia. C’è altro da aggiungere?

Sì. Come appurato, al Giornale o altrove non esistevano né esistono particolari «dossier» sulla Marcegaglia né niente del genere: : c’è Porro che si è permesso di scherzare con un amico-conoscente il quale forse ci ha marciato, come detto. Però, ecco: vien quasi voglia che dossier e inchieste esistano davvero, visto il paradosso a cui siamo giunti. Nei film americani, infatti, fanno vedere che un giornalista, la sera prima di pubblicare un articolo contro un potente, gli telefona e lo avverte: da noi, invece, dicono che volesse coartare la sua volontà. Nei film americani il potente attaccato, se vuole, rilascia una dichiarazione al giornalista che gli ha telefonato; da noi, invece, il potente telefona all’editore per bloccare l’articolo prima ancora che esca. In Italia, peggio ancora, poi intervengono i magistrati che se la prendono col giornalista, mentre le iene dattilografe già parlano di «dossieraggio».

Perché ora il giornalismo si chiama così: dossieraggio. L’archivio e le cartelline che molti aggiornano e conservano possono diventare «dossier» sulla base del semplice uso che se ne faccia. Eppure un conto è osservare che in Italia a farla da padrone, dal caso Boffo in poi, non sono più le notizie di giornata bensì le campagne create attorno a notizie d’accatto, magari vecchie, magari semplicemente archiviate in attesa di costruirci attorno qualcosa; un altro conto, però, è negare legittimità a tutto questo, deprecare o addirittura indagare che un giornale possa fare tutte le campagne che vuole, quando vuole, come vuole, contro chi vuole.

In altri termini: in Italia chi fa delle inchieste che ottengono risultati, tanto che la magistratura è costretta a inseguire, da noi è uno squadrista dell’informazione, soprattutto se di centrodestra; chi invece pubblica solo carte giudiziarie, tipo quei servi di procura che sputtanano a destra e a manca dopo che la magistratura magari ha pure assolto o archiviato, ecco, loro invece sarebbero dei giornalisti investigativi. Questo lo schema, che per fortuna abbatteremo anche ‘stavolta. A colpi di dossier, è chiaro.

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Ora due parole sull’attentato sventato a Belpietro. Non vi dico che cosa ne penso di preciso, per ora lo tengo per me. Ma su un certo strabismo nel giudicare, beh, diciamo che ho fatto una modesta ricostruzione di una vecchia faccenda.

«Sinceramente non ci ho mai creduto molto…» ha detto venerdì scorso Gerardo D’Ambrosio, già procuratore aggiunto del Pool di Milano e protagonista, il 14 aprile 1995, di un attentato che fu sventato dallo stesso caposcorta che ha difeso a pistolettate il domicilio di Maurizio Belpietro. Non ci ha mai creduto molto, il senatore del Pd D’Ambrosio: però, allora, ci credettero tutti. Persino lui. Anzi: tutti evocarono dei foschi scenari. Gli attuali dioscuri del Fatto Quotidiano ci videro l’ombra della Cia, mentre il sostituto procuratore Armando Spataro – che ora indaga sull’attentato a Belpietro – lesse un allarmatissimo comunicato. Antonio Di Pietro pure. Insomma, ai tempi dubbi non ve n’erano, non servivano.

Ma ricostruiamo anche questo. Era un venerdì e il casino politico era totale perché Silvio Berlusconi, la sera prima, aveva telefonato a Temporeale di Michele Santoro e aveva parlato del celebre invito a comparire che aveva ricevuto a Napoli nel 1994: «Mi risulta che Di Pietro», parole del Cavaliere in diretta, «non fosse così convinto di quell’atto firmato da tutto il Pool. Ma si tratta di un discorso privato tra me e lui, e quindi non lo voglio divulgare». Non lo voleva divulgare: e infatti aggiunse soltanto che Di Pietro gli aveva parlato il 18 febbraio direttamente ad Arcore, a casa sua, nella tana del lupo. La rivelazione fu paralizzante per tutti. Per la sinistra, certo. Per i tanti, a destra, che corteggiavano Tonino perché scalzasse il Cavaliere. E per chi, pure, vide solo un magistrato (in carica) che era andato a casa di un suo indagato per corruzione. D’Ambrosio, allora 66enne, era furibondo. Francesco Saverio Borrelli montò su tutte le furie: «Lo faccio buttare giù dalle scale a calci nel sedere». Di Pietro, non D’Ambrosio. Ma ogni tentativo dipietresco di districarsi dal ginepraio – che aveva creato lui – non farà che peggiorare le cose.

Ma ecco che poi, sabato mattina, il 15 aprile, i lettori de «La Stampa» appresero che un uomo armato di fucile se n’era rimasto appostato nel giardino di una scuola materna posta proprio dietro l’abitazione di D’Ambrosio. L’asilo era chiuso per Pasqua e l’energumeno era pronto a sparare, ma un poliziotto lo scorse e chiamò D’Ambrosio dall’auto: «Non scenda». Erano le 9 del mattino e pioveva che Di Pietro la mandava. Dopo un po’ il presunto attentatore rifece capolino ed ecco che l’uomo della scorta scese dall’auto e prese a inseguirlo: una cosa da telefilm, col fucile stretto in mano, sinchè l’attentatore raggiunse un complice e sparirono a bordo di una grossa moto. Testimoni: nessuno.

Secondo il Corriere della Sera però non si trattava proprio di un fucile: il poliziotto stringeva in mano «un oggetto scuro e lungo» e non fu lui a telefonare al magistrato, ma un altro. Il 16 aprile, però, La Stampa cambiava versione: il fucile diventò «un’arma… nascosta sotto l’impermeabile grigio». Il Corriere in compenso riportò l’opinione del Questore, secondo il quale l’attentato restava solo un’ipotesi: tuttavia «E’ difficile pensare che l’obiettivo fosse un altro». Chiaro. E l’arma, il fucile? C’era, era «appoggiato contro un muro». Su La Repubblica però diventò «una carabina di precisione». Su l’Unità, «una mitraglietta». Scrisse La Stampa. «C’è l’identikit dell’uomo col fucile». Titolò Repubblica: «Non c’è ancora un identikit del killer».

L’estrema precisione delle cronache si evinse anche da altri preziosi particolari: il poliziotto era descritto elegante come un fotomodello, mentre l’arma era comparsa soltanto durante la fuga. Purtroppo non si era riuciti a prendere il numero di targa della moto, e l’unico indizio lo riportava l’Unità, che descrisse la moto come immancabilmente rossa.

La solidarietà espressa dai magistrati milanesi fu invece puntuale e precisa: in un comunicato, diffuso da Armando Spataro, si leggeva che «I sostituti procuratori si stringono idealmente attorno ai loro capi, Borrelli e D’ Ambrosio, oggetto di inauditi e ripetuti attacchi personali. A Gerardo D’ Ambrosio, che ha ancora una volta rischiato la vita, esprimono solidarietà e affetto smisurati… auspicano che le autorità rafforzino le misure di protezione che lo riguardano. Auspicano altresì che le istituzioni intervengano a tutela dell’ indipendenza della intera Magistratura». Quella non mancava mai. L’agenzia Ansa aggiunse che erano in cantiere «più incisive e clamorose iniziative» della Procura. Insomma, fecero quadrato: evidentemente, doversamente da D’Ambrosio, ci credevano anche loro.

E non solo loro, visto che l’affare fece scattare un piano di rafforzamento della sicurezza del procuratore: fu rafforzata la vigilanza e raddoppiata la scorta; oltre agli agenti di tutela fu predisposto un rafforzamento della sorveglianza attorno alla casa e fu aggiunta un’auto di scorta che in pratica scortava la scorta. «D’Ambrosio», scrissero un po’ tutti i giornali, «in passato era rimasto vittima di episodi dai contorni oscuri: una volta venne narcotizzato e rapinato in casa, successivamente ci fu un’incursione nella sua abitazione, mentre si trovava a palazzo di giustizia». Incredibile. Anzi, detto a D’Ambrosio: credibile.

Poi ci fu la conferenza stampa della Polizia: «L’attentatore si è comportato da professionista», disse il Questore Marcello Carnimeo. E l’agente, il medesimo che ha difeso Belpietro? «Ha fatto bene, ha agito con grande professionalità, un giovane molto affidabile e preparato» disse Carnimeo. Allora lo era, evidentemente. L’ipotesi che il killer volesse davvero sparare fu presa «molto sul serio», e l’attentato a D’Ambrosio fu definito «fallito per un soffio». «Un episodio simile», riportò La Stampa, «si era già verificato nei mesi scorsi ai danni di un altro esponente di Mani pulite, Francesco Greco: alcuni inquilini avevano notato una macchina sospetta parcheggiata nei pressi della sua residenza: alcuni sconosciuti scrutavano con un binocolo le finestre del giudice». Pazzesco. Ci penserà l’agenzia Ansa a essere più precisa: «Le indagini non accertarono nulla. Nemmeno che quello sconosciuto avesse davvero come obiettivo delle sue attenzioni la casa di Francesco Greco ».

L’affare comunque s’ingrossava, altro che «non ci ho mai creduto molto». Il Corriere della Sera rilevava che «Armando Spataro, numero uno dell’antimafia e bersaglio negli ultimi due mesi di due progetti di attentato, è tra i più turbati. “Sì, sono molto allarmato. Questo agguato appare indecifrabile, anche perchè cade in pieno periodo elettorale. Ripeto, per la prima volta in vita mia sono davvero preoccupato». Chissà ora, visto che indaga sul caso Belpietro. Il 16 aprile 1995, del resto, La Repubblica ci aveva aperto la prima pagina: «Un killer per D’Ambrosio. A sette giorni dalle elezioni l’uccisione del giudice avrebbe creato una gravissima tensione politica». Dall’ipotesi un attentato si era già arrivati all’uccisione del magistrato e alle possibili conseguenze politiche.

Sempre il 16 aprile, che poi era la domenica di Pasqua, su Repubblica interveniva anche Di Pietro («Auguri a D’ambrosio») che cercava di spegnere le polemiche sulla sua visita ad Arcore raccontata da Berlusconi. Un paio di giorni dopo, infine, nuovi aggiustamenti nelle cronache: il poliziotto raccontava che era stato suo cugino e ricordargli che le scuole materne rimangono chiuse per Pasqua. Ma secondo il Corriere – particolare decisivo – non era stato il cugino ad avvertirlo, ma il cognato. Sempre di mezzo.
E D’Ambrosio? Diciamo che, se «non ci credeva molto», all’epoca lo tenne ben nascosto per sè. Lo nascose quantomeno a Repubblica: «La polemica tra me e di Pietro serve solo al nemico per isolarci. E’ se è vero che c’è un uomo con un fucile puntato su di me, questo significa che siamo già isolati». Da non crederci, non molto.

Finita? Ma figurarsi. L’elaborazione definitiva dell’attentato a D’Ambrosio è stata successivamente messa al servizio (segreto) di un incredibile ricostruzione dietrologica contenuta nel libro «Mani pulite» di Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio. In orrenda sintesi: nel 1992 il Pool di Milano fu contattato da presunti emissari di «ambienti americani» che si proponevano di appoggiare i magistrati di Mani pulite e di aiutarli a scovare latitanti; il contatto e la proposta – e questo è vero, è appurato – finirono nella relazione riservata n. 58/92 che il pm Piercamillo Davigo indirizzò a Borrelli. Poi – anche questo è appurato – il Pool decise di parlarne al Capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, che però rispedì i magistrati al mittente piuttosto seccato dall’ombrosità della vicenda. Gli svolazzi dei giornalisti de Il Fatto cominciano da qui e arriveranno sino all’attentato a D’Ambrosio. I tre, infatti, a pagina 67 del loro libro, con un giro contorto ricollegano i citati contatti «americani» a un protagonista dell’inchiesta del pm Guido Salvini su Piazza Fontana, il quale tizio, a sua volta, aveva rapporti con un uomo della Cia sotto copertura della Dea (l’agenzia antidroga) che a sua volta aveva contatti con l’ambasciata Usa a Roma e con il Sisde, oltre a essere stato l’ultimo a vedere vivo il banchiere Michele Sindona prima che lo avvelenassero in carcere. Nell’inchiesta di Salvini venne fuori che quest’uomo legato alla Cia, C.R., morto nel 1996, aveva svolto anche missioni in America Latina e in Corea e soprattutto aveva brigato per organizzare un attentato a Gerardo D’Ambrosio. Ci siamo, finalmente: «D’Ambrosio sarà effettivamente al centro di un inquietante episodio», scrivono i giornalisti de Il Fatto, ossia che «il 14 aprile 1995 la sua scorta metterà in fuga un misterioso personaggio appostato, forse con un fucile in mano, nel giardino di una scuola davanti alla sua abitazione. Di piú, su questo intreccio di avvocati, inquisiti, spioni e killer, non si riuscirà a scoprire». Questo per D’Ambrosio. E per Belpietro che cosa hanno scritto?

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera