Il giustificato motivo del burka

Vietare il burka è di destra, di sinistra, di centro e di buon senso. Il problema è chi lo propone: la volontà politica, nel nostro Paese, è ancora troppo imperniata sul rovesciamento di quella altrui. Vuoi abolire il burka? Allora io no; oppure sì, ma il problema è un altro, oppure «non è una priorità» come ha detto Bersani.
La proposta parlamentare della parlamentare del Pdl Suad Sbar, un paio d’anni fa, fatta vigorosamente propria anche dalla Lega, in Francia per esempio era diventata una bandiera femminista: da noi no, da noi una parte residuale dell’opposizione parla di intolleranza, di «diritti religiosi violati» oppure presenta una legge – alla commissione Affari costituzionali del Senato – che ammette il burka «a condizione che il volto sia riconoscibile», con ciò dimenticando che, nel caso, non sarebbe più un burka ma uno hijab, al amira, shayla, chador: tutta roba cui nessuno si oppone. Il burka è un’altra cosa, è un’opprimente prigione ambulante – di colore blu, se tipicamente afghano – che copre tutto il corpo e annulla ogni percezione di forma. Un fantasma.

La legge per vietarlo ci sarebbe già, ma l’interpretazione l’ha superata: la n. 152 del 1975, norma anti-terrorismo secondo la quale è vietato comparire mascherati in un luogo pubblico, viene definita inapplicabile giusto nei casi delle musulmane che abbiano «giustificato motivo». È il giustificato motivo a fare la differenza: un tizio che passeggi con un casco integrale in testa, oggi, è considerato un cretino e un fuorilegge, mentre una donna musulmana che indossi il burka o il nikab ha invece il «giustificato motivo», i motivi religiosi o culturali cioè li ha ufficialmente tutti. La giurisprudenza, più volte, ha sollecitato una precisa legge in materia: ma non si è mai fatta.
Tempo fa si proposero due soli articoli che modificassero la legge del 1975: il «giustificato motivo» verrebbe in sostanza eliminato e si ipotizza l’arresto per flagranza, due anni di carcere e multe varie. La radicale Emma Bonino aveva applaudito («burka e nikab violano il concetto della piena assunzione della responsabilità individuale») mentre Donatella Ferranti del Partito democratico aveva sostenuto che una norma del genere lederebbe la libertà religiosa, come detto. E qui sta il primo, clamoroso equivoco culturale. La religione islamica, infatti, non prevede nessuna copertura tipo burka: quella cristiana, paradossalmente, sì.

La storia è interessante. Era l’inizio del 1900 quando Habubullah Khan, grande emiro dell’Afghanistan, impose alle duecento donne del suo harem una speciale copertura che scongiurasse ogni tentazione maschile che non fosse la sua. Più in generale, fuori dalla residenza reale, le donne dell’emiro non dovevano neppure essere guardate: e nacque il burka, inquietante copertura che da principio contraddistinse le donne di alto ceto. Ma di religioso, appunto, non c’era nulla. Il Corano non ne parla, anzi, quando genericamente affronta l’argomento – al verso 59 della sura XXXIII – dice che le donne devono essere riconosciute, come è possibile fare con tutte le coperture islamiche tranne una, o una e mezza: col burka, appunto, e assai spesso col niqab, che serve a velare il volto lasciando scoperti solo gli occhi. Nel tempo, tuttavia, il burka si diffuse in tutto l’Afghanistan: e mentre i ceti elevati lo abbandonavano, quelli poveri lo facevano loro.
Sembrava dovesse sparire nel 1961, in Afghanistan, che una legge ne aveva vietato l’uso alle dipendenti pubbliche: ma poi ci fu la guerra civile e il regime teocratico dei talebani giunse progressivamente a vietare a ogni donna di mostrare il volto. Il burka divenne una regola che oggi resta discretamente rispettata anche in Iran, in parte della Palestina, del Libano, della Georgia, dello Yemen, dell’Arabia Saudita – nell’entroterra meno acculturato – e in generale dove ci sono musulmani sciiti. Difficilmente vedrete un burka in Egitto, Turchia, Emirati Arabi, Kuwait, Indonesia o India.

Se uno stesse fedelmente al Vangelo, invece, potrebbe rifarsi alla Prima lettera di San Paolo ai Corinzi: «Ogni donna che prega senza velo sul capo manca di riguardo al proprio capo… Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza». Va da sè, tuttavia, che una differenza tra islamismo e cattolicesimo sta proprio nel come le due religioni si rapportano ai testi sacri. L’Islam è sdraiato su un’interpretazione fedele del Corano da 1300 anni – ma nel Corano, come visto, di burka neppure si parla – mentre il cattolicesimo si è invece evoluto tra concili ed encicliche e secolarizzazioni varie. Il risultato è che la Chiesa cattolica su questo non discrimina tra uomini e donne (oggi) e che la veletta in testa (oggi) al limite la mette vostra nonna, se è meridionale.
Un certo Islam, invece, tra burka e niqab, è una macchina del tempo puntata sul Medioevo che ora si pretende di importare in Occidente, simbolo più appariscente di altre e più nascoste segregazioni femminili. Anche per questo il burka va vietato: perché è l’aspetto più allucinante di una separatezza culturale che è solo il travestimento di una separatezza delle regole, quelle che gravano su tutti gli altri, quelle che si è costretti a rispettare e che talvolta si è addirittura orgogliosi di avere.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera