Bene, vediamo ‘sto bavaglio

Bisogna essere dei pazzi per correre dietro al labirintico work in progress del governo in tema di intercettazioni, ma due o tre cose si possono dire subito. La prima l’avevamo già scritta: resta il rischio che la montagna partorisca un bavaglino. Ma non, attenzione, per via di un’errata alchimia di aggiustamenti, non cioè per un eccesso di compromesso che restituisca come sfibrata una norma che da principio era netta e decisa: bensì perché gli ultimi vent’anni di legislazione giudiziaria dovrebbero aver insegnato che una legge – soprattutto se a uso e consumo di magistrati e giornalisti – non deve essere giusta, non deve essere equilibrata o ben scritta o infarcita di astute «ghedinate», come le chiamano: deve essere applicabile. Deve funzionare. Non deve essere, cioè, interpretabile o aggirabile come diviene, in Italia, ogni provvedimento che non sia tagliato con l’accetta.

Ma vediamo, di questa legge,  che cosa dovrebbe rimanere. Dice: le intercettazioni saranno possibili solo per i reati puniti con più di cinque anni, corruzione compresa. Ecco, questa è facilissima da aggirare: per rendere intercettabili certi reati, infatti, basta ipotizzarli come aggravati. Del tipo: la rapina non è intercettabile, ma quella aggravata sì; l’estorsione non è intercettabile, ma quella aggravata sì. Eccetera. Per modificare un capo d’imputazione c’è sempre tempo: così, se a fine indagine il reato ipotizzato non prevedeva le intercettazioni com’era facile prevedere, tu intanto hai intercettato lo stesso.

Poi: i telefoni possono essere messi sotto controllo per 75 giorni al massimo (anche di più per i reati più gravi come mafia e terrorismo) e in caso di necessità vengono concessi altri tre giorni di volta in volta. Scommettiamo che la proroga sarà la regola?

Poi: gli atti possono essere pubblicati non tra virgolette ma con un riassunto.  Bene, che cos’è un riassunto? Un articolo non è un riassunto? E un libro che cos’è? Non basta levare le virgolette punto e basta?

Ancora: gli editori che pubblicano testualmente rischiano 300mila euro di multa o anche di più. Bene, ma chi comminerà multe del genere?

Le intercettazioni sono off limits per la stampa fino a conclusione delle indagini. E questo è sacrosanto, ineccepibile. Ancora: i giornalisti rischiano fino a 30 giorni di carcere. E questa è una sciocchezza totale. Inutile. Nessuno, come per la diffamazione, andrà in carcere. E’ prevista anche una sanzione fino a 10000 euro se pubblicano intercettazioni: non serve, c’è già la multa all’editore, e anche se servisse è troppo bassa.

Poi: se il responsabile dell’inchiesta passa alla stampa atti coperti da segreto, o peggio ne parla in tv, può essere sostituito dal capo del suo ufficio. Ma in teoria questo era possibile anche oggi, tranquillamente. Si chiama avocazione. Infine: le registrazioni carpite di nascosto sono permesse ai giornalisti professionisti e pubblicisti. Giusto.
La altre novità le vedremo più avanti.

E’ una buona legge? Se il punto fosse questo, va detto, una buona legge l’avremmo già: il Codice – articoli 114 e 329 – già lo diceva che il segreto istruttorio esiste e che le indagini sono segrete mentre il processo è pubblico; il Codice già lo dice che le intercettazioni andrebbero maneggiate con la massima prudenza e solo in presenza di gravi indizi di reato, ossia quando «assolutamente indispensabili al fine della prosecuzione delle indagini»; e la Costituzione, a esser pedanti, all’articolo 15 già lo dice che «la libertà e la segretezza di ogni forma di comunicazione sono inviolabili».

Il punto, evidentemente, è un altro. Anche perché su un paio di cose sono d’accordo tutti, a parte i casi clinici: che le intercettazioni sono troppe, che sono cresciute esponenzialmente, che costano tantissimo, che il loro uso cambia spaventosamente da un distretto giudiziario all’altro, che non c’è nessuno che non possa essere impiccato a una frase, che parlare al telefono in Italia è diventato uno stress, e soprattutto che molte indagini tendono comodamente ad appiattirsi su una prassi – le intercettazioni, appunto – che non sarebbero neppure «prove» ma mezzi di ricerca della prova, sistemi cioè per successivamente trovarne una a mezzo perquisizioni, pedinamenti, video e tante altre cose che hanno permesso, in passato, di procedere a inchieste importantissime  senza farne mai uso. Ma sono d’accordo tutti anche sul fatto che talvolta le intercettazioni servano eccome.
Detto questo, è da almeno vent’anni che magistrati e giornalisti se ne fottono di qualsiasi regola proprio perché la sanno aggirabile: del resto sono loro a interpretarla. Certe carte possono uscire tramite avvocati, cancellieri, poliziotti, ufficiali eccetera: ma escono fondamentalmente perché magistrati e giornalisti lo vogliono e ne traggono reciproca utilità. Ecco perché entrambe le categorie si oppongono a provvedimenti sbagliati ma così pure a quelli giusti, in altre parole a qualsiasi cambiamento; ecco perché mischiano di continuo le carte e confondono la libertà di stampa col diritto di sputtanare, e le notizie con la diffamazione fine a se stessa. Ed ecco perché la soluzione, gira e rigira, è una sola: limitare in qualche modo l’uso delle intercettazioni – visto che i magistrati non si regolano da soli – e di conseguenza limitare la loro pubblicazione – visto che i giornalisti tantomeno si regolano da soli. E siccome i magistrati che passano le carte non riesci a beccarli, l’unica è sanzionare chi si trincera dietro il diritto di cronaca per cercare solo di vendere più copie sputtanando il prossimo, come all’estero – sorry – semplicemente non accade.

Ciò posto, che ci sia una lobby di «giornalisti e pm» che si oppone a ogni cosa, come dice Berlusconi, è fuor di dubbio. Che Berlusconi voglia una legge alle luce delle proprie esperienze precedenti, poi, è pure vero: ma chi se ne frega. L’importante è che la legge funzioni. Funzionerà? Ogni dubbio è lecito. Ora partiranno mille ricorsi e interpretazioni giurisprudenziali. Dal 1989 a oggi hanno fatto fuori un intero Codice, sai che ci mettono a sbaragliare una legge.

Aggiornamento: qui c’è il dibattito tra me e Carlo Bonini alla trasmissione radiofonica Radio carcere trasmessa da radio radicale mercoledì sera.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera