Paolo Villaggio, scrittore

Quando gli studenti mi chiedono di consigliare loro qualche testo che li aiuti a diventare bravi copywriter, do sempre una risposta che li delude: non perdete tempo a leggere manuali di scrittura, piuttosto leggete esempi di scrittura da manuale.
E consiglio pochi, calibratissimi, testi che hanno tutti in comune alcune caratteristiche: sono austeri, cioè sono fatti col minor numero di parole possibili, sono fulminanti, cioè vanno subito al dunque, senza perdersi in leziosità autoriali e sono estremamente efficaci, cioè ottengono con pochissimo effetti enormi.

Non è da tutti (per dire, Manzoni sbrodola con un terribile “Addio, monti” ma si riscatta con il lampo di “la sventurata rispose”), ma c’è chi brilla nell’esercizio composto eppure straordinario della parola.
Di solito consiglio tre o quattro autori: “Gli asparagi e l’immortalità dell’anima” di Achille Campanile, che è un esempio di letteratura minimale borghese che svolazza facilmente in paradiso senza sprecare un aggettivo; l’opera omnia di Marcello Marchesi, che è il padre spirituale di tutti i copy, oltre che un comico sopraffino, i romanzi hard boiled meneghini di Carletto Manzoni come “Un colpo in testa e sei più bella, angelo”, che sono una lezione permanente sul ritmo nella scrittura e poi, immancabilmente, tutti i libri di Fantozzi.

Ecco, vorrei che ci ricordassimo che il comico straordinario e spietato che piangiamo oggi (e che era davvero un grande, perfino più di Tati) era prima di tutto uno scrittore. Un autore ancora più valido dell’attore, tra i migliori della sua epoca.

Non è un caso se “Fantozzi” è uno dei libri italiani contemporanei più tradotti nel mondo: se ci pensiamo bene, la sua letteratura affrontava temi universali e lo faceva in modo altrettanto universale, senza localismi e senza ricorrere al dialetto (classica tentazione della comicità nostrana, ancora ferma al campanile).
Riletto oggi, Fantozzi sorprende per brevità e compostezza. Gli episodi che siamo abituati a vedere nei film sono aperti e chiusi in una paginetta: poche righe in cui la narrazione è affidata a poche parole, misurate col calibro.
Villaggio, da buon genovese, non spreca un aggettivo, un avverbio. Ma quando ne mette uno è pesantissimo e – nel vuoto – esplode di senso.
Gli basta piazzare in mezzo alla riga un “umiliante” e la fantasia di chi legge, ancora prima di aver visto i suoi film, deflagra.
Chi ha il dono di saper scrivere così è innamorato della parola e sa che, anche da sola, può scatenare tutti gli stati d’animo possibili.

Pensiamoci: Paolo Villaggio è stato il primo a farci ridere con le liste. Oserei dire che ha capito per primo – prima che la nostra generazione si inventasse i listicle – il potere additivo degli elenchi e lo ha usato alla perfezione.

“Abbigliamento di Filini: berrettone Sherlock Holmes con penna alla Robin Hood, poncho argentino di una sua zia ricca, scarpe da tennis con sopra galosce, carte topografiche e trombone da brigante calabrese. Fantozzi: berretto bianco alla marinara di sua figlia Mariangela, giacca penosamente normale stretta in vita da gigantesca cartucciera da mitragliatrice residuato dalla seconda guerra mondiale, fionda elastica, siero antivipera a tracolla, gabbietta con canarino da richiamo e gatto randagio da riporto subito fuggito durante le operazioni di partenza”.

In tre righe senza una principale, la comicità pura. E in quel “penosamente normale”, riferito alla giacca di Fantozzi, la tragedia e tutto un mondo.

Credo che sarebbe bello celebrare Paolo Villaggio leggendo ancora una volta la sua opera omnia, prima di goderci i suoi film (che, spiace dirlo, dopo un po’ non sono stati più all’altezza del materiale a cui si ispiravano; ve la ricordate la scena dei garofani in piazza?). È uscita qualche anno fa per Rizzoli, si trova in eBook a poco prezzo e ha un’introduzione di Bartezzaghi sulla “semiotica Fantozziana” che merita davvero.

Se non avete tempo, esiste una versione in audiobook di Fantozzi letta da Paolo Villaggio stesso. È recente e lui ha poco fiato, cosa che dà alla sua lettura un tono un po’ più dark del solito. Però è letta da lui, con quella voce lì che sapeva fare lui. Quella voce che riusciva a farti ridere e un po’ penare dicendo “mutanda ascellare aperta sul davanti e chiusa pietosamente con uno spillo da balia” con un accento inimitabile.

Oggi è morto un grande scrittore che, tra le altre cose, faceva anche l’attore ed era il migliore comico italiano di sempre. Per colpa sua, non riesco a piangere del tutto.

Enrico Sola

Dj prestato al mestiere della pubblicità e all’hobby della comunicazione online, dal 2003 cura con affezione variabile un blog che si chiama Suzukimaruti. Quello dei post chilometrici. Vive a Torino.