Gli Smartphone di Riley e di Carpenter

Il cellulare ha cambiato la vita di tutti noi, ma in modo particolare quella di Timothy Carpenter e di David Leon Riley; i loro nomi saranno per molto tempo legati a quello straordinario oggetto tecnologico che ci si è appiccicato addosso diventando in pochi anni una protesi indispensabile del nostro corpo.

Timothy Carpenter faceva saltuariamente il rapinatore; una di quelle attività che la tecnologia ha reso più complesse e rischiose di un tempo. Tra l’Ohio e il Michigan depredava con alcuni compaesani proprio gli smartphone dai negozi della T-Mobile, ma grazie ai metadati del suo, di smartphone, si è beccato più di 100 anni di galera (per inciso: sei rapine in Italia fanno molto meno – sotto i 10 anni – il che dimostra, stando ai tassi di delinquenza degli USA, che le pene alte non servono come deterrente, ma questa è un’altra storia).

David Leon Riley invece era membro di una di quelle gang di strada californiane che vediamo nei film, tutte droga e pistole e, con la stupidità che connota gran parte dei delinquenti, si è fatto beccare per una banale infrazione stradale. Aveva delle armi illegali e il poliziotto che l’ha fermato ha pensato bene di sequestrargli il telefonino. Le immagini, i video e i contatti presenti sul suo smartphone hanno procurato a Riley la condanna per un omicidio tra gang avvenuto mesi prima.

Fin qui nulla di straordinario: la tecnologia modifica, azzera e genera posti di lavoro in ogni settore, anche nel crimine. A fronte di nuove redditizie forme di delinquenza (scam, ramsonware e cyber-crime vari), molti classici “lavori” del settore sono diventati oggi quasi impossibili. Tra le rapine, per esempio, quelle in banca sono quasi scomparse, e sì che avevano un loro fascino letterario.

Ciò che però rende memorabili i nomi di Carpenter e Riley e li rende indissolubilmente legati alla storia dello smartphone non sono le loro gesta delinquenziali ma la loro vicenda giudiziaria che arriva in entrambi i casi sino alla Corte Suprema americana in una battaglia che non è la pretesa della loro innocenza ma la difesa di nuovi diritti digitali legati all’uso del cellulare.

Viste da qua, dall’Europa, Riley vs California (2014) e la recentissima Carpenter vs United States (2018) sono due sentenze bellissime della Corte Suprema americana in tema di riservatezza e privacy.

Riley, che era stato legittimamente arrestato per le pistole, ha l’ardire di sostenere davanti ai supremi giudici statunitensi che il poliziotto non poteva prendergli lo smartphone e accedervi senza il mandato di un Giudice, senza il famoso search and warrant previsto dal IV emendamento della Costituzione americana a tutela della vita privata dei cittadini. La Corte Suprema gli dà ragione: lo smartphone, afferma la Corte, non è un oggetto qualsiasi che in caso di arresto può esser sequestrato senza una preventiva garanzia giurisdizionale. È una roba diversa: gli smartphone fanno così parte della nostra vita che, scrivono i giudici americani, il proverbiale marziano in visita sulla terra potrebbe ritenerli una parte fondamentale dell’anatomia umana.

[smartphone] are now such a pervasive and insistent part of daily life that the proverbial visitor from Mars might conclude they were an important feature of human anatomy.

Sono l’oggetto connesso più diffuso ed invasivo (almeno sino a quando una qualche diavoleria biodigitale si innesterà davvero nelle nostre membra) e negli smartphone c’è la nostra vita in formato machine readable: quei dispositivi sono il supporto fisico del nostro corpo digitale e generano dati che consentono un monitoraggio costante e di alta precisione.

Lo sa bene Carpenter, l’altro protagonista, che subisce il più frequente e classico dei bachi dell’algoritmo del crimine, ovvero il tradimento del compagno di rapine. Il complice confessa e fornisce il cellulare dei correi alla polizia. A quel punto vengono acquisiti i metadati degli ultimi 127 giorni di comunicazioni di Carpenter, ottenendo 12.898 punti di geolocalizzazione (101 data points per day) e il nostro, nel giorno e nell’ora delle rapine alla T-Molibe, era proprio lì. Un riscontro sufficiente per i 100 anni di carcere.

Carpenter,come Riley, arriva sino alla Corte Suprema con il supporto di molte associazioni per i diritti civili (fatto per noi impensabile:mica ci si sporca le mani difendendo dei rapinatori), sostenendo che per acquisire i dati di geo-localizzazione dalle celle telefoniche fosse necessario un mandato del Giudice, non un semplice ordine di acquisizione da parte degli inquirenti. E anche questa volta la Corte dà ragione al delinquente.

Le motivazioni della sentenza Carpenter sono piuttosto complesse (c’entra il “test di Katz” di cui avevo parlato qui; una buona sintesi tecnica della sentenza la trovate qui) e sono motivazioni in parte differenti dalla sentenza Riley ma il principio di fondo è lo stesso: il rispetto della vita privata dei cittadini americani non consente a qualsivoglia pubblica autorità di accedere ai dispositivi elettronici ed ai dati da essi generati senza stringenti garanzie giurisdizionali.
I metadati delle comunicazioni – che è bene ricordarlo, non sono i contenuti delle conversazioni – forniscono granulari informazioni su chiunque possegga un cellulare e la Corte Suprema definisce quelle informazioni “dettagliate, enciclopediche ed efficientemente strutturate”, tali da consentire una pervasiva sorveglianza di massa.

Di fatto la Corte Suprema statunitense difende con coraggio – sacrificando la legittima pretesa punitiva dello stato verso due delinquenti certamente colpevoli – quel diritto alla protezione dei dati e alla riservatezza che qui da noi, in Europa, è diventato da tempo una bandiera; una bandiera che purtroppo sventola spesso più per giustificare battaglie commerciali contro i colossi americani del web piuttosto che come efficace baluardo alle indebite ingerenze della pubblica autorità nelle nostre vite.

Sentenze come quelle di Riley e di Carpenter per ora qui ce le sogniamo. In Europa sbraitiamo e tuoniamo contro Facebook, Google e contro gli Stati Uniti che non offrirebbero adeguate garanzie di tutela del dato e della riservatezza, ma la verità è che nonostante il tanto legiferare sui dati con il mitico GDPR, i nostri governi si tengono le mani libere. Per il nostro codice di procedura penale i nostri smartphone e i nostri dati sono a disposizione delle Procure, senza adeguate garanzie. Anzi, ora vogliono anche convincerci che è meglio se noi cittadini i dati li teniamo in Europa e non oltre oceano, ché così, mi vien da pensare, è più facile per le varie agenzie accedervi.

Il fatto che in Europa non ci sia (ancora) stato uno Snowden non vuol dire che non vi siano inaccettabili interferenze dei governi nella vita privata dei cittadini; il fatto che i dati di mezzo mondo siano nelle mani delle Tech company statunitensi pone più di un problema, ma nella complessità dei diversi sistemi giuridici affermare che in quel paese vi siano minori garanzie in tema di riservatezza e tutela della vita privata può esser errato e fuorviante.

Sul tema dei dati la guerra tra Stati Uniti ed Europa è appena iniziata, ma temo sia una guerra tutta commerciale e di potere, piuttosto che una guerra a difesa dei diritti fondamentali dei cittadini. Per ora, in tema di smartphone e metadati delle comunicazioni a fini di indagine siamo due a zero per loro, grazie ad un rapinatore e ad un gangster.

Carlo Blengino

Avvocato penalista, affronta nelle aule giudiziarie il diritto delle nuove tecnologie, le questioni di copyright e di data protection. È fellow del NEXA Center for Internet & Society del Politecnico di Torino. @CBlengio su Twitter