Le gemelle di Federer

Ad assistere alla finale di Wimbledon, una delle più belle di sempre – o almeno una delle più belle degli ultimi 50 anni a voler fare i pignoli e cioè non dando per scontato che le due cose coincidano – c’erano le due figlie gemelle, di anni 5, di Roger Federer. (Un paio di mesi fa, Mirka Vavrinec e Roger Federer hanno avuto altri due gemelli, stavolta maschi).

Per oltre quattro ore, il match è durato 3h e 56min ma ci sono poi riscaldamento e premiazione, sono rimaste a guardare la partita. E io non ho potuto fare a meno di pensare, ogni singola volta che la regia le inquadrava, quale sforzo immane stesse compiendo la madre per tenerle lì, in silenzio, sedute, senza neanche un passatempo. Il tempo di tre visioni consecutive di Cenerentola senza fiatare durante gli scambi, senza alzarsi, bisticciare o fare capricci. Quando altrove, per passare venti minuti tranquilli al ristorante, sei costretto a portarti dietro carte da gioco e tablet oppure a frequentare cucine pessime solo perché ti danno la tovaglietta di carta su cui tuo figlio può disegnare con dei pastelli a cera consunti o perché, a un certo punto, una tata annoiata li viene a prendere per farli giocare dieci minuti – di pace, finalmente – in un sottoscala con la moquette della pista di motociclismo Ikea.

Chissà, in una dimensione parallela, in uno di quegli universi di Fringe, il pubblico si rende conto che per tenere due bambine di cinque anni lì, tranquille, ci vuole un’abilità diversa ma per nulla inferiore a quella necessaria per colpire una bella volée bassa di rovescio. E durante la premiazione non solo Federer, ma anche Mirka sia andata al centro del campo e il duca e la duchessa di Kent abbiano elogiato anche lei e le abbiano fatto una domanda di rito sul suo segreto e lei abbia risposto da sportiva, ci vuole tanto impegno, soprattutto. E tutti gli altri genitori e tennisti della domenica abbiano pensato ecco cosa mi manca per non essere lì a giocare la finale di Wimbledon mentre i miei figli mi guardano e restano seduti imperterriti senza farmi vergognare, l’impegno.

Ma la gemelle hanno assistito a una partita memorabile di cui probabilmente non ricorderanno il fatto che il padre ha lottato, ha combattuto, è stato dato per sconfitto tre volte e per tre volte s’è ripreso. E non ricorderanno neanche che papà aveva chiesto la loro presenza sostenendo che alcune sue sconfitte erano dipese dalla loro lontananza. La cosa che resterà loro impressa è che papà ha perso. E mentre tutti guardavano l’altro, Nole, che si stendeva sull’erba per la gioia della vittoria loro guardavano lui, lo sconfitto.

Una volta, avrò avuto otto anni, ero andato a pranzo fuori con la famiglia di un amico, e altri loro amici. C’erano tre gruppi familiari, uno senza figli, e tre buoni padre di famiglia che vedendo un kartodromo aperto al pubblico, il primo da quelle parti, avevano deciso di provare, e fare una garetta. Dopo neanche tre giri il padre del mio amico era stato doppiato. Era lentissimo rispetto agli altri, e il mio amico s’era messo in disparte a raccogliere sassolini da terra. Provava a lanciarli contro il padre. (Ma la pista era lontana). Non sopportava che perdesse e in maniera così plateale. S’era calmato solo ore dopo quando gli avevano lasciato credere che il kart finito in sorte al padre fosse rotto.

Forse 5 anni è presto per capire che tuo papà può essere scarso sui kart o che è il più forte tennista di ogni epoca, o il più vincente almeno. Forse, ripensando a quell’universo parallelo ideale, due minuti prima della fine della partita, dopo il break decisivo, Mirka avrebbe dovuto prendere le bambine per mano e portarle fuori. Per una pipì. Ma non devo farla. Fa niente, così non ti scappa dopo. E tornare a partita finita. Dalla premiazione, coccolato com’è da organizzatori e nobiltà inglese, non avrebbero notato la differenza fra vincente e perdente. E sarebbero tornate a casa col loro papà RF invitto come deve essere. Per batterlo, ma loro, non altri, Freud insegna, ci sarebbe stato tempo.

Arnaldo Greco

(1979) Ho pubblicato un paio di libri per Fandango. E, ogni tanto, scrivo per qualche rivista. Ma vivo e ho due bambini grazie al fatto che il mio nome scorre nei titoli di un programma tv.