Cosa sappiamo della vita prima dell’agricoltura?

Gilberto Corbellini è professore ordinario di storia della medicina e ha scritto molti bei libri: gli ultimi ragionano del rapporto tra mercato, scienza e democrazia ed analizzano la natura umana attraverso gli strumenti della biologia evolutiva. Due chiacchiere sul nostro passato remoto, quello recente (agricolo) e qualche spunto su come andrà a finire.

Siccome si parla spesso dei cacciatori-raccoglitori e una volta sono i buoni selvaggi un’altra volta degli sfortunati affamati, mi chiedevo, allo stato dell’arte, ci sono studi solidi che ci dicono come si viveva prima dell’agricoltura?
I cacciatori-raccoglitori sono una comoda semplificazione, che isola alcuni aspetti delle attività e dell’organizzazione di bande e tribù umane sin da tempi molto remoti. Biologi, ma soprattutto psicologi politicamente corretti, criticano l’idea di usarli nella spiegazione dei nostri comportamenti, perché pensano che servano a giustificare i nostri difetti o a difendere visioni politiche conservatrici (tipo ruoli maschili e femminili, guerre, etc).  Come ogni semplificazione a volte genera macchiette, ma anche le macchiette possono far capire alcune cose, forse più che i dettagli, dove diciamo che si nasconde il diavolo.

Cioè?
Cioè, va detto subito che si tratta di un topos letterario persistente, usato sin dall’antichità, ma reso celeberrimo dalla metafora dello “stato di natura” come termine di paragone per dedurre dei diritti naturali, introdotta da Hobbes e continuata da Locke, Rousseau, Nozick, etc. In queste settimane è stato pubblicato, ed è molto discusso, un libro dell’antropologo attivista David Graeber e dell’archeologo David Wengrow, The Dawn of Everything: A New History of Humanity, che ripropone, con argomenti più politici che empirici, un’idea dell’evoluzione politica dell’uomo come affatto non lineare o leggibile secondo la narrativa teleologica del genere di quelle praticate da Harari o Diamod. Insomma è un tema complicato e scivoloso.

Allora complichiamo le cose, dai.
Premesso che non sono un antropologo, avendo letto abbastanza ho capito che la caccia e raccolta come pratica di sopravvivenza, che imponeva vincoli all’evoluzione biologica e sociale in generale, si affermò nel genere Homo circa due milioni di anni fa almeno, in Africa. Prima i nostri antenati erano in prevalenza vegetariani, ma poi con un’alimentazione per il 65% a base di carne e pesce da cercare hanno fornito al cervello più sfide cognitive ed energia, rendendo più dinamica la vita sociale. La nostra specie, sappiamo da studi di genomica evoluzionistica che discende da una popolazione di meno di 10mila individui che viveva in Africa circa 2-300mila anni fa, quindi siamo usciti da un collo di bottiglia evolutivo in qualche modo e siamo geneticamente tutti identici. Non esistono le razze, ma siamo comunque razzisti di base perché era adattativo sospettare di stranieri diversi da noi e sui quali abbiamo raccolto pregiudizi.

Restiamo un po’ su questo punto?
Non ci si pensa, ma prima di noi, oggi, ci sono state almeno 10-15mila generazioni della specie e all’alba della transizione agricola sul pianeta circolavano solo circa 5 milioni di umani. Questo dice che quegli individui furono sottoposti a pressioni selettive importanti e poterono evolvere quelle capacità cognitive ed emotive, ovvero abilità sociali su cui si è poi costruito, senza che fosse scritto o prevedibile, il successo demografico e culturale.

Cosa sappiamo della vita prima dell’agricoltura? E come lo sappiamo, soprattutto.
Sappiamo qualcosa di come si viveva prima dell’agricoltura perché abbiamo potuto studiare popolazioni che vivono di caccia e raccolta ai nostri tempi e abbiamo trovato numerosi reperti ossei e tracce di vita quotidiana (di caccia o sementi lavorate e ovviamente molti manufatti). Inoltre, antropologi e psicologi evoluzionisti fanno inferenze a partire da alcuni nostri tratti innati, per esempio la maturazione e i comportamenti riproduttivi (il sesso!), la gestione sociale delle emozioni, i bias cognitivi, etc. che portano a immaginare appunto come si poteva vivere prima della transizione agricola. Chi pensa che il nostro comportamento è plasmato dall’ambiente o cultura in cui viviamo ha dei dubbi su questo approccio.

E allora, com’eravamo?
Diciamo che sono crollati sia il mito del buon selvaggio, di Rousseau, sia quello della miseria e brutalità dello stato di natura di cui parlava Hobbes. Le tracce sulle ossa dimostrano che se le suonavano di santa ragione, ovvero erano aggressivi e vendicativi fra gruppi, ma non all’interno del gruppo.

E l’alimentazione?
Si alimentavano in modo congruente col loro metabolismo senza di regola subire le carestie. Anche perché erano nomadi e quando scarseggiava il cibo si spostavano. Vivevano più a lungo e più in salute rispetto ai primi agricoltori, perché comunque facevano una vita “sana”. Ma si portavano anche appresso difetti tragici, come la rischiosità del parto e di nascere immaturi, e numerose predisposizioni ad ammalarsi per altri “errori” evolutivi.

E qualcosa riguardo ai benefici, magari pure quelli tragici?
Diciamo che attraverso la lavorazione dei manufatti litici e la complessità delle interazioni sociali fu premiato un cervello potentissimo nel ragionamento causale astratto e nella teoria della mente (oggi i neuroscienziati chiamano “bayesiano” il nostro cervello, perché si pensa che produca modelli interni probabilistici del mondo e li aggiorni sulla base di input in modi analoghi alla statistica bayesiana). Astrazione e mentalizzazione sono due tratti alla base delle innovazioni tecnologiche e poi della scienza, nonché degli autoinganni o capacità manipolatorie che organizzano le dinamiche sociali e politiche.

Altri aspetti da raccontare?
I cacciatori-raccoglitori incuriosiscono molto per l’alimentazione e la qualità della vita in natura, ma anche la loro vita sociale e politica così come le malattie con cui si dovevano confrontare sono aspetti interessanti, che forse spiegano alcune fragilità delle nostre straordinarie società liberali e fondate sulla conoscenza, di fronte a certe minacce impreviste come è il caso delle epidemie e pandemie.

Poi a quest’aspetto ci arriviamo, ti volevo chiedere di questo famoso passaggio, la rivoluzione agricola, prima di tutto, ma come è successo, perché se raccolgo frutti e mangio selvaggina poi mi interesso alla coltivazione del farro? Che è successo? Sappiamo qualcosa, o abbiamo più ipotesi che teorie?
Nel dettaglio nessuno lo sa. Tuttavia, si pensa che il riscaldamento del pianeta e una crisi ecologica che comportò la scomparsa della megafauna, abbiano favorito popolazioni più stanziali, che già avevano osservato che sementi lasciate all’aperto potevano crescere e diventare quelle stesse piante che si andavano a cercare e raccogliere. Comunque, il processo di transizione deve essere durato migliaia di anni.

Le prime tracce di coltivazioni sono abbastanza recenti, vero?
Le tracce delle prime coltivazioni agricole risalgono a circa 12mila anni fa in Medioriente, il che non significa che quello fosse il momento e che in futuro non ne troveremo di più antiche. Comunque, in tempi diversi l’agricoltura è stata adottata anche in Asia e Sudamerica. Nel frattempo, a partire da circa 8-9mila anni fa in alcune regioni, quelle temperate, si cominciarono ad addomesticare animali (inizialmente pecore, capre e maiali), cosa che con il cane si faceva da circa 30mila anni. Insomma, si può immaginare che bande o tribù distribuite un po’ ovunque, in tempi diversi e anche per scambio culturale abbiano iniziato a diventare orticoltori, agricoltori e allevatori. Siccome nel mondo vivente il successo è sempre successo riproduttivo, in ultima istanza, quei primi agricoltori facevano più figli, la fertilità femminile aumentava grazie all’ecosistema socio-economico, e quindi le società si espandevano, sostituendo o inglobando i cacciatori-raccoglitori che credevano di migliorare le loro condizioni diventando agricoltori.

Alcuni pensano che non sia stata una scelta, ma una specie di trappola.
Diversi antropologi pensano che i nostri antenati siano diventati agricoltori non per scelta, dato che la nuova condizione economico-sociale ebbe come conseguenza un peggioramento dell’alimentazione, un aumento dei rischi infettivi o tossici (dovuti agli animali domestici, ai roditori che rovistavano nei rifiuti e agli insetti vettori di patogeni che usavano l’acqua per riprodursi) e la perdita di quella parziale libertà individuale apprezzata dai componenti delle bande di cacciatori-raccoglitori. Le società collettiviste e totalitarie nascono con l’agricoltura perché erano funzionali a far lavorare le persone in modo continuo e non solo quando serviva per il cibo. E probabilmente i nuovi patogeni che cominciarono ad assediare le comunità agricole hanno reso per millenni preferibili le società chiuse, così come non è un caso che le società aperte siano un prodotto della diffusione della scienza e delle sue innovazioni.

A questo proposito ci sono prove delle diverse e peggiorative condizioni di vita?
L’esame delle ossa dimostra che i primi agricoltori diminuirono di altezza e avevano un’aspettativa di vita inferiore fino a 10 anni rispetto ai cacciatori-raccoglitori. Le donne in particolare, a causa della inadeguata alimentazione e del lavoro agricolo gravoso, soffrivano di norma di anemia non potendo ripristinare le perdite di emoglobina dovute a mestruazioni (che forse diventavano anche più frequenti se si pensa che l’amenorrea da allattamento poteva essere ridotta) e ai parti.

Quindi, nella sostanza, l’agricoltura è una pratica non naturale, per così dire.
Noi abbiamo un’idea curiosa di cosa sia naturale, ma di certo non possiamo dire che l’agricoltura fosse naturale. È stata una straordinaria innovazione tecnologico-culturale, che ci è però estranea dal punto di vista della nostra storia evolutiva.

Cioè?
Il nostro metabolismo non è tarato naturalmente per alimentarsi in prevalenza di cereali, latte e derivati (parliamo di intolleranza al lattosio come se fosse un difetto, ma era la condizione metabolica naturale prima dell’agricoltura), prodotti della fermentazione alcoolica, carne di allevamento ricca di grassi omega-6, cibi raffinati, etc. Né le piante crescono naturalmente per diventare inadatte a crescere in natura. Infatti, fino a quando l’agricoltura non è diventata, grazie a tecnologia e scienza, efficiente sul piano produttivo, selezionando varietà con rese significative, rendendo i terreni più ricchi con fertilizzanti che favoriscono la crescita e meccanizzando la lavorazione dei terreni, le carestie erano la regola e le persone potevano essere sottonutrite o malnutrite anche nel mondo occidentale e in età moderna.

Siamo passati dai Pinocchio a Masterchef. Dalla fame all’abbondanza, e nel giro di 70 anni appena.
Da un secolo almeno, l’agricoltura e le preparazioni industriali di cibo inondano il mondo di calorie sempre più a buon mercato e in un contesto di vita sedentaria e abbondanza la popolazione mondiale non solo è esplosa – da un miliardo all’alba della rivoluzione industriale a 8 miliardi oggi – ma si ammala anche e ovunque di disturbi metabolici/cardiovascolari e obesità. Del resto, la selezione naturale ha eliminato solo le vulnerabilità che si manifestavano di regola prima di 30/40 anni, mentre ci ha lasciato tutti i difetti genetici che per esempio favoriscono il cancro e non siamo protetti dai danni dell’infiammazione o dalle demenze in tarda età. Stiamo meglio perché in occidente le donne non muoiono di parto e i bambini di infezioni, abbiamo l’istruzione, i farmaci, gli ospedali, le 40 ore lavorative, le vacanze, etc., insomma ci aspettiamo di vivere fino a 80 anni e sempre più in salute con la medicina scientifica. Qualcuno, come sai, pratica però la dieta simil-paleolitica, cercando così di ridurre l’impatto del mismatch alimentare. Anche le malattie mentali forse sono diventate più diffuse, dato che diversi sbilanciamenti emotivi che erano probabilmente funzionali nel mondo pleistocenico, come ansia, panico o ossessioni, diventano meno gestibili quando sono o sono giudicati del tutto disfunzionali.

Riassumendo che specie siamo?
Siamo rimasti quella specie aggressiva, indottrinabile, manipolatrice, cooperativa, curiosa e individualista, che aveva trovato un suo equilibrio naturale – che prevedeva 30 anni in media di aspettativa di vita, 60% di mortalità infantile, traumi e infezioni di norma – organizzata in bande costituire da un numero di Dunbar di individui (circa 150) e che poi ha visto cambiare tutto con la rivoluzione agricola. Una specie che non sapeva cosa fossero le epidemie e pandemie prima di creare città da decine o centinaia di migliaia di abitanti, e da quando ci cascano addosso a causa della transizione agricola abbiamo sempre annaspato e aspettato di immunizzarci naturalmente. Oggi la scienza fornisce i vaccini e le case sono riscaldate e ben fornite per starci chiusi dentro, ma l’atteggiamento psicologico non è molto cambiato e tendiamo a farci governare dalla paura.

Quindi alla fine…
Alla fine, una specie che è riuscita a creare una condizione più che accettabile di salute, libertà e convivenza civile quando e dove la divisione del lavoro ha consentito il capitalismo e il mercato basato su scambi a somma non zero, quando la scienza ha gettato le basi per spiegare come governare i fenomeni e risolvere ogni genere di problema ed è stato inventato lo stato di diritto, che ha spersonalizzato il potere.

Il ruolo della scienza?
La scienza ci ha consentito di controllare i bias cognitivi e anche emotivi, le euristiche che ci avevano fatto sopravvivere nel mondo preagricolo, che abbiamo usato fino al Seicento e nel nostro quotidiano ancora usiamo. Ma con quelle non capiamo la gravitazione né costruiamo un computer. La scienza e soprattutto l’istruzione scientifica diffusa e obbligatoria consentono di far funzionare un sistema economico profondamente innaturale e un sistema politico fondato sul primato della legge e non delle persone (anche questo non naturale per la psicologia umana innata che per millenni seguiva qualche capo). È singolare il fatto che non ci si renda conto che siamo andati a stare meglio quando abbiamo preso atto che dovevamo mettere sotto controllo quello che ci viene più naturale e potenziare quello che abbiamo, la capacità unica di fare se non giudichiamo e decidiamo impulsivamente, ma non ci viene del tutto spontaneo usare. Parlo della razionalità.

E allora, a proposito di questo ultimo concetto, domande conclusive: ma secondo te, questo mondo è frutto dei nostri sogni migliori (un mondo dove, per usare solo due parametri, la mortalità infantile è bassissima quasi ovunque e l’aspettativa di vita alta) oppure è un incubo, come dicono alcune correnti ecologiste, un mondo dove non è possibile sognare (ci avete rubato i sogni)? Insomma, ora si dice: se continuiamo così andremo a sbattere (probabile) ma se fossimo rimasti a un livello preagricolo, oppure a un livello preindustriale, chi ci garantisce che la popolazione, senza le scoperte del XX secolo, non sarebbe prima o poi collassata? Epidemie, fame, guerre?
A questa domanda non so rispondere. Siamo vittime del bias della retrospezione rosea, cioè che noi umani crediamo di norma che il passato fosse meglio del presente. La storia dimostra che il passato era peggio – sempre – e la neuropsicologia che procediamo nella costruzione del cosiddetto futuro, tenendo lo sguardo fisso nello specchietto retrovisore. Che come sempre è deformante. La storia, le narrazioni, etc. Sono utilissime e gratificanti, ma sono placebo. Scienza, libero mercato e sistemi politici con costituzioni liberali hanno lo straordinario potenziale di trovare, in modi più o meno spontanei, attraverso tentativi e correzioni degli errori le soluzioni dei problemi. I paesi dove la scienza, il mercato e la democrazia funzionano sulla base di un principio di libertà in senso moderno si vanno però riducendo (lo dice Freedom House che vede la democrazia liberale “sotto assedio”) di numero nel mondo e malgrado le ondate di democrazia descritte da Huntington non sono mai stati maggioranza. Di una cosa sono abbastanza convinto, che se andremo a sbattere sarà a causa di un ritorno del nostro passato, cioè del prevalere dell’idea che ci si salva la vita o il reddito o si proteggono meglio i propri casi affidandoci all’autoritarismo e al paternalismo, invece che usando libertà e responsabilità individuali. Comunque, penso che nessuno decida o che prevalga, in queste dinamiche, una posizione perché è quella giusta. Ognuno fa quel che può o crede. Poi, attraverso attività spontanee, scaturisce un ordine provvisorio delle cose, cioè accade ciò quel che deve.

Secondo te, come finirà? Abbiamo studi in proposito, proiezioni realistiche?
Non me lo riesco proprio a immaginare e le proiezioni finora non ci hanno mai azzeccato. Come sai, chi scrive o studia la fantascienza discute spesso se questa letteratura abbia mai in qualche modo predetto o possa predire il futuro tecnologico e sociale. Qualcuno, come Arthur C. Clarke ne era convinto, anche se secondo lui non si poteva andare oltre i dieci anni di previsione.

A volte l’immaginazione di alcuni scrittori vede meglio degli analisti, a volte…
Diciamo che scrittori sono meglio consapevoli di chi fa proiezioni basandosi su big data che ogni scenario immaginato è condizionato dal passato (quello che riflette lo specchietto retrovisore) e via via che si avanza e includono variabili il racconto diventa sempre più incerto e fantasioso. Ti confesso che mi interessa poco come finirà, sia perché l’entropia sul lunghissimo periodo avrà la meglio, sia perché tra circa un decennio o poco di più il mio cervello smetterà di tenere in piedi l’illusione che esista un io o una coscienza che ha il controllo e decide quel che penso e faccio. Sapere che a un certo punto lo schermo diventerà nero per sempre mi rende distaccato rispetto alle previsioni e proiezioni. La specie troverà le soluzioni per la sopravvivenza, che possono essere le più diverse. Abbiamo abbandonato prima la foresta e poi la savana. Quindi le brutte esperienze di un modo agricolo arretrato. Questo grazie all’organizzazione spontanea di cervelli che hanno creato e diffuso innovazioni funzionali alla soluzione di problemi circoscritti, come potevano essere le amigdale bifacciali o oggi gli algoritmi di deep learning, che implicano comunque l’acquisizione di capacità cognitive e l’uso di metodi generalizzabili nel ragionamento che impongono l’esplorazione di nuove strade all’evoluzione umana. Come finirà non riesco neppure a immaginarlo, ma dà soddisfazione aver capito un po’ in quali modi avvengono e cambiano le cose.

 

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.