La Xylella e le api friulane

L’avvocato Luca Simonetti ha scritto tre libri, due dei quali (La Scienza in Tribunale 1 e La Scienza in Tribunale 2 – La vendetta, editi da Fandango) sono dedicati al complesso, e spesso malato, rapporto tra questioni scientifiche e pubblici ministeri. Ho fatto una lunga chiacchierata (ringrazio Simonetti e i lettori per la pazienza) sugli aspetti tecnici e formali di due vicende (Xylella e Api friulane) che rischiano di diventare tristemente simboliche.

Facciamo un riassunto della vicenda Xylella?
Riassumo: nel 2013 alcuni ricercatori dell’Università di Bari scoprono che degli olivi nella provincia di Lecce soffrono di una malattia (il Complesso del Disseccamento Rapido dell’Olivo o CoDiRo) che è associata al batterio Xylella Fastidiosa, e poi isolano il batterio stesso.

Cos’è questo batterio?
È un patogeno pericolosissimo, un autentico flagello, che fin da quando venne scoperto (nel 1987) è classificato dall’UE tra i patogeni da quarantena (Direttiva UE n. 2000/29): infatti non esiste alcuna cura contro il batterio, e l’unica difesa possibile è evitare che si diffonda infettando altre piante.

Ok, e poi che succede?
Immediatamente partono le comunicazioni all’UE e questa dispone misure di quarantena via via più stringenti, fino a arrivare all’ordine di sradicare e distruggere le piante infette e quelle circostanti (questo per impedire la diffusione di Xylella, che viene trasportata da un insetto vettore, la c.d. sputacchina), misure prontamente attuate dal Commissario straordinario nominato dal Governo, Giuseppe Silletti.

Ma?
Ma il problema è che sia gli olivicoltori coinvolti, sia alcune parti diciamo dell’establishment cultural-politico, sono violentemente contrari alla distruzione di quegli olivi secolari.

Prima di raccontare la vicenda giudiziaria, hai capito perché si era così contrari all’abbattimento?
Beh, da una parte c’erano ovviamente gli interessi diretti, quelli, diciamo così, più comprensibili: i proprietari degli olivi da abbattere (anche se va detto che il governo aveva promesso risarcimenti sostanziosi).

Promessi e mantenuti, il Ministero ha stanziato molti euro per i risarcimenti, comunque, dimmi.
Poi però si sono messi in moto settori mossi da ragioni puramente ideologiche: tutti i contrari alla c.d. agricoltura industriale, i sostenitori cioè di un ritorno nostalgico a un’agricoltura pre-industriale, tradizionale, senza chimica, insomma “naturale”(come se Xylella non fosse pure lei assolutamente “naturale” – che c’è di più “naturale” di un batterio? – e come poi se tagliare un albero infetto e piantare al suo posto un albero sano non fosse anch’essa una cosa perfettamente “naturale”), e ovviamente mai esistita.

E i complottisti?
Poi sono arrivati anche i complottisti.

La loro ipotesi qual era?
Che l’introduzione di Xylella in Puglia sarebbe il frutto di un intrigo, di una manovra per distruggere i secolari olivi pugliesi e mettere al loro posto chissà cosa, magari degli olivi OGM (che non esistono) oppure per scavargli sotto il TAP. Tracce abbastanza evidenti di questa visione complottista si trovano, ahimé, anche nel decreto di sequestro.

Torniamo alla vicenda processuale?
Ha inizio un fuoco di sbarramento giudiziario. Per primo si muove il TAR del Lazio, che sospende alcune delle misure di eradicazione; ma presto si comprende che queste misure altro non fanno che dare applicazione a protocolli che non si sono inventati i ricercatori pugliesi o Silletti, ma vengono richiesti dall’UE, e così si investe la Corte di Giustizia UE della decisione.

Ok, poi?
Quindi arrivano le sentenze della Corte di Giustizia che danno ragione alla Commissione e così i provvedimenti del TAR vengono revocati. Le distruzioni delle piante, perciò, dovrebbero riprendere, anche perché ai primi di dicembre 2015 la Commissione apre la procedura d’infrazione contro l’Italia, proprio per i ritardi su Xylella. Ma ecco il colpo di scena: la Procura della Repubblica di Lecce, negli ultimi giorni del 2015, mette sotto inchiesta, per diversi reati, i ricercatori che avevano scoperto il batterio in Puglia, alcuni funzionari statali e regionali e il commissario Silletti, e ordina il sequestro degli olivi già destinatari degli ordini di espianto.

Motivazioni della Procura?
La Procura ipotizza a carico degli imputati una lunga serie di reati, da quelli più gravi come la diffusione colposa di malattie e l’inquinamento ambientale, fino a reati meno gravi come il getto colposo di cose.

Prova a spiegarlo a uno digiuno di procedure, cioè io.
Il problema è che, ipotizzando così tanti e diversi reati, la Procura finisce col rimproverare agli imputati tutto e il contrario di tutto. Per esempio, sostiene che gli imputati avrebbero assunto, con la decisione di tagliare e bruciare gli olivi, delle misure eccessivamente drastiche; ma poche pagine dopo li accusa di essersi mossi con ritardo e in modo inefficace. Ma come si fa a essere troppo drastici e insieme inefficaci e tardivi? Soprattutto, la Procura tende a equivocare i dati scientifici di base, e così finisce col capire fischi per fiaschi.

Mi fai altri esempi?
Uno fra i tanti: l’obiettivo dell’UE e del governo, e poi delle misure implementate da Silletti, non era estirpare il CoDiRo, bensì circoscrivere le piante infette e impedire che si diffondesse l’epidemia; era una misura di quarantena, nient’altro. Il CoDiRo è incurabile, l’unica soluzione è sradicare la pianta malata (che tanto morirebbe comunque); ma per impedire a Xylella di diffondersi, una soluzione invece c’è, ed è sempre quella: distruggere le piante infette e quelle che si trovano nel raggio di azione della sputacchina. Invece la Procura continua a rimproverare agli imputati di non aver fatto nulla contro il CoDiRo, che però a) non è curabile (e quindi non c’è proprio nulla da fare), e comunque b) non rientrava fra i loro compiti, che erano di impedire la diffusione di Xylella. E di equivoci, fraintendimenti, errori madornali, nel decreto di sequestro ce ne sono millanta. Il risultato è un pasticcio abbastanza impressionante, in generale e pure nei dettagli, che a questi livelli non è frequente vedere.

Quindi, nella sostanza, tutto bloccato? Che poi credo che il batterio non abbia competenze giuridiche, insomma se ne frega, pensa solo a  infestare lo xilema.
Un po’ come Covid-19, che neanche lui ha la laurea in legge! Nella sostanza, non si poteva più far nulla: non si potevano distruggere gli olivi infetti e quelli nella fascia tampone, sicché la strategia di contenimento di Xylella (già impedita dalle sospensive del TAR nel 2015) andava a farsi benedire anche per il 2016. E va notata una cosa: il sequestro venne poi revocato, su richiesta della stessa Procura di Lecce, a fine luglio 2016, ma venne revocato perché nel frattempo anche lo stato d’emergenza era stato revocato, la competenza su Xylella da Silletti era tornata alla Regione Puglia, e la Regione Puglia aveva dichiarato… che non poteva più fare le eradicazioni perché c’era stato il sequestro!

Quindi le quarantene…
Quindi, le misure di quarantena urgentissime richieste dall’UE sono state ritardate per più di un anno  perché alcuni giudici italiani, senza alcun motivo fondato, non erano d’accordo. Ovviamente Xylella nel frattempo non è stata ad aspettare i comodi dei tribunali. L’Italia si è presa una bella condanna nella procedura d’infrazione UE (nel settembre 2019) e Xylella non è stata bloccata, e anzi oggi si è diffusa anche fuori d’Italia. Un disastro.

Ma perché è successo tutto questo?
Il problema è che – come sfortunatamente accade troppo spesso – si è utilizzata l’arma dell’azione penale allo scopo di paralizzare decisioni tecnico-politiche che a certi settori della politica e della cultura italiane non piacevano.

Andiamo nel tecnico, vuoi? Tanto siamo sul Post.
Il testo del decreto di sequestro è esplicito in proposito (a leggerlo con attenzione): per esempio – ma di esempi ce ne sarebbero tanti –, quando si legge che “esistono elementi obiettivi che possono porre delle perplessità sull’efficacia della strategia adottata con il secondo Piano degli interventi del Commissario Silletti”, si capisce subito che qualcosa non va.

Perché?
Perché il compito dei giudici penali non è discutere l’ “efficacia” delle politiche adottate dall’amministrazione: devono limitarsi a perseguire i reati, e nient’altro. Nel nostro caso, i reati contestati non c’erano affatto, come hanno dimostrato sia la revoca del sequestro, sia l’archiviazione dell’azione penale (poi ne parliamo): e non solo non c’erano affatto, ma era evidente fin dal principio che ciò che veniva contestato a Silletti e agli altri imputati era puramente e semplicemente quello che l’UE prima e il governo italiano poi avevano ordinato di fare per contenere l’epidemia. Ma se le cose stanno così, allora l’unica conclusione logica è che i giudici sono intervenuti nella vicenda non già per perseguire dei reati,  bensì per condizionare la politica, indirizzandola in una certa direzione. Non a caso, nel commentare la revoca del sequestro in una intervista, il procuratore capo di Lecce ha invitato la Regione Puglia a “darsi una mossa per salvare gli ulivi” e ha aggiunto che “ci siamo troppo abituati a una magistratura con compiti di supplenza”.

La supplenza una volta era una eccezione.
C’è da chiedersi se lo sia mai stata davvero, un’eccezione… Qui, comunque, i giudici hanno agito, nemmeno tanto di nascosto, come stampelle (“supplenti”) di una politica che non ha saputo o voluto affrontare il problema Xylella assumendosi le proprie responsabilità, magari litigando con l’UE, e ha quindi cercato una sponda nel potere giudiziario, per definizione politicamente irresponsabile. Il Governo avrebbe forse potuto disinnescare l’iniziativa della Procura, promuovendo il conflitto d’attribuzione davanti alla Corte Costituzionale (come successe nel caso Di Bella): ma non ci ha neanche provato. Il che vuol dire, evidentemente, che il sequestro andava bene a tutti. Tanto, a pagare le multe dell’UE sarà qualcun altro…

Ma quindi secondo te il sequestro penale era completamente ingiustificato?Sì, e non lo dico io: a riconoscerlo è la stessa Procura di Lecce, nella richiesta (accolta dal GIP, il giudice delle indagini preliminari, nel maggio 2019) di archiviazione dell’azione penale contro i ricercatori e Silletti. Si tratta però di un provvedimento stranissimo e paradossale.

Perché?
Perché l’archiviazione si può basare (semplifico un po’) o sul fatto che un reato non è stato commesso, oppure sul fatto che non ci sono prove che a commetterlo sia stato l’imputato. Invece, i giudici di Lecce, nello stesso momento in cui archiviano l’azione penale, dicono, un po’ come Pasolini quella famosa volta: non ho le prove, anzi il reato non ci sta proprio, ma so lo stesso che gli imputati sono colpevoli! O più esattamente: so che gli imputati sono dei poco di buono, perché infatti nel decreto di archiviazione gli vengono rimproverati non tanto dei reati quanto dei peccati, dei vizi, insomma dei difetti di ordine morale, oppure di non aver “agito secondo le regole  e le prassi che sarebbe stato necessario seguire” (quali? boh), cioè tutte cose di cui i giudici non dovrebbero occuparsi affatto.

Lo scenario lo trovo inquietante.
Eccome. Per esempio, il decreto, riportando pagine e pagine di stralci di intercettazioni telefoniche tra alcuni degli imputati e che poco c’entravano con l’indagine, sostiene che ne risulterebbe un quadro di “preponderanza dell’interesse economico – ovvero la prospettiva di ottenere finanziamenti a beneficio esclusivo dell’Università di Bari – rispetto alle finalità della ricerca scientifica”. Cioè: alcuni degli imputati si sarebbero mossi non tanto per combattere Xylella, quanto per far arrivare finanziamenti alla loro Università. Sono accuse eticamente gravi, e per di più sprovviste di qualsiasi prova, ma che soprattutto esulano del tutto dalla competenza del Tribunale, che si occupa di diritto e non di morale, cioè deve dire se l’imputato ha commesso un reato, non se è una persona specchiata. Immagina la contentezza di Silletti e degli altri ex indagati, infamati dallo stesso decreto che archivia l’accusa contro di loro!

Ok, tecnicamente cosa c’è che non va in un decreto di archiviazione fatto così?
Che è paradossale, perché riesce a rinfocolare i sospetti contro gli indagati proprio mentre butta l’accusa nel secchio. Una condanna si può appellare, ma cosa si può fare davanti a un decreto di archiviazione? Niente. Rimane là, con i suoi sgradevoli apprezzamenti sul carattere o la condotta dell’accusato, a futura memoria, bell’e pronto per essere utilizzato da chiunque voglia (“Vedete? È vero, l’hanno scritto i giudici!”), e senza che ci sia possibilità di smentita, perché cosa vuoi smentire? C’è scritto proprio così… E in questo modo ovviamente l’archiviazione ha offerto, a tutte le forze politiche e mediatiche che avevano gridato al complotto contro gli olivi, l’occasione per ricominciare a starnazzare.

E infatti qualche giornale ha spinto proprio questa leva.
Specialmente sul Fatto Quotidiano (l’organo ufficioso del complottismo su Xylella) si è continuato, oltre che a insultare gli (ormai ex) indagati – sostenendo ad esempio che la Procura di Lecce avrebbe “accertato” a loro carico “molteplici aspetti di irregolarità” (invece non è stato “accertato” un bel nulla) -, a sparare scemenze complottiste. La teoria, in sostanza, è che tutta la vicenda sarebbe stata creata ad arte da qualcuno (non si sa chi né come) “per realizzare, attraverso lo stravolgimento del territorio e del paesaggio, progetti industriali di natura economico-finanziaria che nulla hanno a che vedere con l’emergenza Xylella”.

Quali sarebbero questi progetti?
Non si sa neanche questo (nemmeno la Procura si è mai sognata di andare oltre qualche allusione generica). Quindi una archiviazione che, per sua natura, dovrebbe semplicemente porre fine a un’azione penale infondata, si è trasformata in uno strumento per continuare a lanciare impunemente insinuazioni contro gli ex imputati e a ipotizzare complotti sempre più cervellotici.

La Xylella è stato un caso particolare. Un altro, uguale ma diverso, diciamo così, è quello delle api friulane. Che è successo?
Succede che, nell’aprile 2018, delle associazioni di apicoltori denunciano alcuni maiscoltori per una presunta morìa di api nei loro alveari, secondo loro dovuta all’uso di un farmaco chiamato Mesurol. Detto fatto: il PM di Udine chiede e ottiene dal GIP (febbraio 2019) il sequestro dei terreni di ben 400 maiscoltori, mettendoli sotto accusa per una miriade di reati, tra cui il disastro ambientale.

Motivazioni?
Il PM dichiara in un’intervista: “Sarebbe bene chiedersi, nel caso non si sia in grado di rispettare certe prescrizioni su un prodotto pericoloso, se non sia opportuno investire in tecniche culturali meno impattanti. Regione ed ERSA sono al corrente dell’uso intensivo del Mesurol. Dunque è indispensabile attivarsi per modificare la mentalità delle persone e, al tempo stesso, favorire pratiche meno impattanti”. E conclude: “Vogliamo che l’ambiente sia protetto e pulito. Faccio mio il detto indiano che recita che l’ambiente non ci è stato donato dai padri, ma è preso a prestito dai figli”. Insomma, qui un giudice sta proprio dicendo al potere esecutivo cosa deve fare. Sta cioè invadendo un campo non suo, perché rientrante nelle competenze di altri poteri dello Stato. E naturalmente, senza la minima protesta, anzi nel plauso dei media.

Aspetta, torniamo all’agrofarmaco.
Il Mesurol è un repellente contro gli uccelli, prodotto dalla Bayer; è assolutamente autorizzato, e la Bayer spiega chiaramente che il prodotto è destinato solo alla concia dei semi, vale a dire al trattamento preventivo dei semi, prima della semina in campo; trattamento che va effettuato esclusivamente in sistemi chiusi, cioè con attrezzature professionali specifiche, e solo in strutture specializzate. Tutti i maiscoltori accusati dalla Procura avevano fatto proprio questo, cioè comprato il seme già conciato da ditte sementiere specializzate. Perciò il problema preliminare, che il PM non affronta neanche, perché non se ne è accorto, è che nessuno degli imputati ha mai usato il Mesurol. Per fortuna, però, ci sono dei giudici a Udine…

Che fanno?
Nel marzo 2019 il Tribunale del Riesame annulla il sequestro. Intanto c’era l’equivoco iniziale, cioè aver accusato degli agricoltori di aver fatto uso del Mesurol anziché del mais conciato col Mesurol. Inoltre, gli accertamenti della Procura erano stati incredibilmente lacunosi.  Per esempio, l’esposto iniziale proveniva da un apicoltore che si diceva proprietario di ben 220 alveari: ma non si sa dove questi si trovassero. Non basta: solo 28 alveari (circa il 10% del totale) avrebbero subito la presunta morìa. Nulla si sa sui singoli fatti, sulla loro gravità, e nemmeno sulla loro data. Era stato eseguito un unico accertamento su un solo apiario, in località Martignacco.

Uno solo? Come campionamento non è un granché.
Vi si erano riscontrate “delle api” (non si sa quante) morte e altre (quante?) che manifestavano “tremolii caratteristici degli avvelenamenti da farmaci neurotossici”, nonché “una scarsa presenza di api” (quante?). Niente foto, niente dati, niente rilievi. Né era stata fatta una minima ricostruzione storica: per esempio, mancava qualunque dato storico. E senza conoscere la consistenza iniziale dell’apiario, visto che il numero di api in un alveare varia normalmente, a seconda della stagione, dalle 10.000 alle 90.000, è forse un po’ eccessivo concludere che ci sia stata una moria di api, o addirittura un disastro ambientale. Dulcis in fundo, gli esami riscontravano sì la presenza del methiocarb (cioè la molecola del Mesurol), ma anche quella di altri pesticidi tossici per le api (uno era addirittura vietato); e soprattutto, il methiocarb veniva rinvenuto in un valore di soli 5 nanogrammi, mentre la soglia tossica per le api è decine di volte superiore. Queste sono già ragioni sufficienti (ce ne sono anche diverse altre) per concludere che il sequestro era privo di fondamento.

Com’ è finita?
È finita che prima la Cassazione ha confermato l’annullamento del sequestro, e poi anche la Procura, nel 2020, ha gettato la spugna e chiesto l’archiviazione del procedimento penale. Un clamoroso nulla di fatto, però accompagnato e seguito da dichiarazioni roboanti e da un chiasso mediatico veramente degno di miglior causa. Senza, ovviamente, che nessuno abbia chiesto scusa agli imputati.

Ci sono dei rimedi a questo modus operandi?
Secondo me no, o almeno non rimedi semplici, di quelli cioè che si possono adottare da un giorno all’altro. Con questo tipo di intreccio mediatico-giudiziario (“circo mediatico-giudiziario”, lo chiamano alcuni) che esiste qui e altrove, eventi del genere sono destinati a ripetersi spesso: del resto, diciamolo, dopo che i pubblici ministeri si sono visti sulle prime pagine, incensati e adorati dai media per mesi e anni, poi è dura ammettere di essersi sbagliati – e ci sono dei PM, in Italia, che si sbagliano molto spesso: quasi sempre. Il bello però è che, nonostante le batoste che prendono regolarmente in tribunale, poi questi magistrati continuano a pontificare in TV e sui giornali, come se invece avessero vinto.

Chissà poi perché l’accusa vince sempre?
Vero. C’è questa situazione stranissima per cui i giornali italiani (e anche una fetta molto ampia dell’opinione pubblica e quindi della politica italiana), mentre da un lato osannano i magistrati inquirenti (cioè quelli che arrestano, sequestrano, confiscano), dall’altro lato ignorano o criticano invece i magistrati giudicanti (cioè quelli che, ogni tanto, assolvono). Lo si vede bene, per esempio, nella storia dei maiscoltori friulani, dove la revoca del sequestro è stata criticata e derisa dagli stessi giornali che avevano applaudito il sequestro (in entrambi i casi, ovviamente, senza saperne nulla, visto che non avevano avuto accesso alle carte del processo), o nella vicenda di Ilaria Capua, dove si è arrivati al punto che L’Espresso, quando uscì la sentenza che la assolveva, pensò bene di fare un articolo in cui dell’assoluzione si dava conto in una riga e mezza, e poi si tornavano a citare stralci dell’atto di accusa per pagine intere, come se nulla fosse successo. È proprio vero che l’Italia contemporanea, come diceva Domenico Marafioti, è la Repubblica dei procuratori (della Repubblica)! E per passare da una Repubblica fondata sulle procure a una fondata veramente sul rispetto della legge e del diritto servirebbe nientemeno che una rivoluzione…

– Leggi anche: Che cos’è il TAP

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.