Riscrivere la forma della città

Quando ero bambino, di notte, da un punto panoramico, sulle spalle di mio padre osservavo Caserta. Primi anni ’70, dall’alto vedevo una città semplice, poche luci che definivano il territorio, poi il buio, cioè la campagna, poi le luci di Napoli. Da grande ho portato mio figlio piccolo sullo stesso punto, sempre di notte e lì mi sono accorto che la città era cambiata, c’erano luci fino a Napoli, le zone buie erano scomparse. Caserta non è la sola città medio piccola a soffrire di un eccesso di luci. Dunque, ho fatto quattro chiacchiere con Beniamino Servino, architetto, che da anni ragiona e lavora sull’idea di riscrittura di limite e di forma (della città).

Uno parla sempre di città, ma mi puoi dare una definizione di città?
La città occidentale nasce da un nucleo, un accampamento fondativo/generativo, che si struttura in un impianto, con parti funzionali riconoscibili: dormire/lavorare/pregare, circoscritto e protetto. Ci sono tre principali tipi di città occidentali.

Quali sono?
Quella greca, la polis. Poi la civitas romana e la città di fondazione. La prima è un sistema chiuso che difende e protegge la stirpe, ed è una città murata. L’altra è un sistema urbano che cresce accogliendo (la civitas accoglie a condizione che siano rispettate le regole della città che accoglie); un sistema in movimento, un organismo pulsante che tende a espandersi, mostra le parti che la compongono, ben riconoscibili: le aggiunte, gli innesti, le sovrapposizioni.

Avevano funzioni diverse queste due città?
Il sistema greco della polis è stato esportato per colonizzare: si imprimeva su un territorio nuovo un disegno di crescita, di sviluppo attraverso una griglia di riferimento, la griglia ippodamea, funzionale alla strategia colonialista attraverso la replicazione. In questa griglia cresceva la città, in un sistema sempre uguale a sé stesso, con leggeri adattamenti topografici.

La civitas invece?
L’impianto urbano romano è stato strumento di governo di territori aggregati attraverso l’introduzione di segni simbolici [luoghi e funzioni] non con il trapianto di organi [sostituzione] ma con la co-esistenza. È un sistema aperto, inclusivo. Ha una dimensione non-finita.

Rimane la terza, la città di fondazione.
Sì, quella disegnata tutta insieme. Un’aberrazione di senso, anche etimologico.

Perché?

Perché nega la dimensione più importante, la quarta dimensione, quella del tempo. Caserta ha rischiato di essere una città di fondazione, e da qui che dobbiamo partire.

Cioè?
Intorno al sistema Reggia, Palazzo e Parco, c’era un’idea di città compiuta il cui baricentro era il Palazzo. Un impianto estraneo, senza alcuna relazione con il luogo, calato su un territorio [con pochi insignificanti insediamenti], non tanto e non solo per ragioni di sicurezza della sede amministrativa del Regno, ma anche e soprattutto per tracciare una linea di sviluppo verso nord, un senso di crescita della Capitale. Un po’ com’è accaduto nelle ricostruzioni post-belliche per i quartieri popolari, veri e propri avamposti per la crescita urbana.

Che è accaduto?
Si costruivano gli assi viari, strutturati con i servizi: un sistema vascolare utile a irrorare nuove parti di territorio preparandole alla occupazione.

Ma Caserta poi non è proprio una città di fondazione.
Dopo la caduta dei Borbone, Caserta è cresciuta secondo uno schema semplificato, sbilanciato verso nord e est rispetto al nucleo della Reggia. La città borghese ottocentesca  e quella delle opere pubbliche della prima metà del Novecento. Poi i quartieri popolari degli anni Cinquanta e Sessanta, gli impianti industriali, fino alle speculazioni edilizie di fine secolo. E ogni parte di città ha una forma riconoscibile, un apparato di segni riconducibile alla forza politica che l’ha generata.

Cioè?
Glottologia e semiologia sono legate tra loro come in una equazione. La lingua [la cultura] di chi costruisce [abita] un luogo ne produce la forma. La lingua parlata e il linguaggio architettonico si confondono, l’uno si sovrappone all’altro, l’uno è generato dall’altra. Una lingua povera/ridotta/gutturale/sintomatica/interrotta/ripetitiva/generica produce un linguaggio architettonico derivato.

Prima di andare avanti, mi chiedevo, vista e considerata questa diversità di lingue che esistono e siccome nemmeno si può pensare di fare tabula rasa, sennò torniamo alla città di fondazione, tutta disegnata, senza tempo e lingue, ecco, insomma come ci si muove?

Con la riscrittura.

Spiega.
Posso farti un esempio familiare-sentimentale, prima che tecnico.

Certo.
Io vivo a Caserta, la mia famiglia è originaria del vesuviano. Una distanza di poche decine di chilometri che però separa due entità culturali prossime ma distinte.  A tavola io e mia madre parliamo usando ognuno la propria lingua, riconosciamo però molte intersezioni, lemmi comuni, che ci permettono di comprenderci: io capisco la sua lingua integralmente, lei capisce la mia solo parzialmente, anche se sufficientemente.

Quindi riscrivi tenendo presente delle lingue che ti attraversano?
Riscrittura come adattamento a me. Trasporto il testo che amo da un tempo a un altro tempo attraverso di me, attraverso l’adattamento a me. Mi porto dietro anche le cose che detesto. L’inflessione del parlato la riconosci anche quando dici cose sublimi. E questo rende le cose vere.  La riscrittura di un testo è l’unico modo possibile per appropriarsene. L’operazione semplice dell’adattamento a sé ne prepara l’utilizzazione, l’uso. Lo tiene in vita e lo trasmette a altri.

Ok, visto e considerato tutto questo come la mettiamo con Caserta e con tutte quelle città simili?
Pianificare una città come Caserta diventa operazione di astrazione, significa considerarla come entità autonoma, separata da un tessuto urbano complesso: ritagliarla da una città più grande. Circa vent’anni fa si è fatto il tentativo, politico-amministrativo, di intervenire su un insieme urbano più esteso. La conurbazione casertana, un unico ininterrotto organismo che va da Capua a Maddaloni, da ovest verso est. Era ancora una semplificazione, che non teneva conto dello sviluppo verso sud, verso Napoli, e delle sfrangiature verso est, verso il beneventano, ma era un approccio importante verso un sistema urbano complesso. Poi non se ne è fatto più nulla e siamo tornati alla città definita dal limite amministrativo comunale. L’approccio opposto è quindi quello di intervenire sui limiti, sulla definizione dei limiti.

Ok, ma prima di continuare, ancora qualche punto di orientamento per capire la geometria di Caserta?
A nord esiste un limite fisico, quello della fascia collinare e pedemontana che le fa da corona e da sola stabilisce un confine fisico. La parte orientale della città è quella più sfrangiata; qui la città si atomizza ed è molto più evidente il luogo della periferia come dispersione del tessuto urbano: si confonde con il paesaggio agricolo. A ovest e a sud la contiguità con altre realtà urbane è così inestricabile che diventa difficile andare a definire il limite.

Andiamo al concetto limite. La difficoltà di definirlo è un problema, mica solo di Caserta. Se torni in aereo e attraversi di notte, chessò, la Germania e la Francia, vedi buio e luci, cioè città e campagna, pieni e vuoti molto definiti, non appena arrivi in Italia, tutto è sfrangiato, le luci sono propaggini. Il comandante magari annuncia, siamo in Italia e tu pensi: e sì, si vede, quindi come si lavora, come si riscrive, visti i segni già esistenti, cioè quell’insieme di lingue che li ha generati?
Per contrasto, per opposizione. Per definire il limite, l’immagine che subito arriva per familiarità storica è la città murata: per assimilazione, un modo per definire in maniera netta il limite, il contorno, il confine, in modo che una massa urbana possa essere definita e distinta dalle città vicine. Definire significa, infatti, fissare i limiti.

Lo studio che stai elaborando si chiama: Caserta Città Prossima.
Prossima, nel senso di vicina, percorribile con piccoli spostamenti ma anche vicina nel senso di familiare, nota, riconoscibile come propria. Da qui l’immagine [imago urbis] di una città murata, definita, netta, dai bordi solidi, netti, una murazione che la distingua dalla campagna da un alto e dalle altre città che spingono per entrare, dagli altri. Questa città Prossima si fonda su dei paradigmi, dei modelli, che tendono alla rappresentazione della forma urbis.

Quali sono?
Primo: consumo di suolo zero. Questo non significa volume zero, cioè non edificare volume. Significa non occupare suolo vergine per l’espansione della città, ma far crescere il volume esistente, consolidarlo, farlo diventare denso quasi a formare un limite visibile e netto.

Costruisci sui bordi?
Sì. E questo è il secondo: densificazione dei bordi. E, contestualmente, terzo: la densificazione delle parti vuote all’interno dei bordi, all’interno della murazione che definisce il limite della città, ma questa volta di segno opposto, cioè le parti non costruite diventano dense ma sono trattate con alberazioni imponenti, delle foreste urbane insomma, in modo che una lettura dall’alto della città fa scorgere l’impianto come tutto pieno, e non come pieno e vuoto, tutto denso, anche le parti verde sono dense.

Quindi densifichi due volte?
Densificare i bordi significa configurare una murazione.

E poi ci sono le cave. Sempre in aereo se vuoi orientarti e capire dov’è Caserta, non cerchi il palazzo reale ma le cave, l’attività estrattiva è stata imponente in questi 40 anni, dunque Caserta è puntellata da montagne svuotate, che si fa?
Le cave sono una corona di tracce evidenti, leggibili dall’alto e dal basso, da vicino e da lontano. Se vai a Mondragone, a 40 chilometri da qui, sulla litoranea, e guardi verso Caserta le vedi.

Come le recuperi? Che fai, ci pianti degli alberelli? Provi a ricostruire il profilo originario?
Per voragini di dimensioni ciclopiche bisogna intervenire utilizzando la stessa scala. Monumentale. Questi crateri si configurano come delle piattaforme dove poter appoggiare delle strutture imponenti, enormi telescopi da cui guardare la città, la piana felix, fino al mare, fino a Capri. Dalle cave non si vedono le cave. Il modo possibile per intervenire sulle cave è occuparle. Intorno alla città, torri di una città turrita. Segnalatori a distanza. Osservatori per le grandi distanze.

Beniamino Servino

E in questi bordi densificati, in queste torri-osservatori, che ci metti? Quali funzioni?
Quello che serve. A me interessa la forma della città.

Bene, e restringendo l’obiettivo, intravedi interventi possibili su una scala ridotta? Per Caserta Città Prossima?
Uno è emblematico, molto discusso e sentito in città e andiamo al quarto punto: Macrico verde e aperto. Permeabilità dei bordi e permeabilità del suolo, volume esistente da diffuso a concentrato. Concentrato, condensato, in una meravigliosa torre criselefantina.

Aspetta, aspetta. Spiegaci che cos’è il Macrico…
Hai ragione. Il cosiddetto MA.C.RI.CO. (Magazzino centrale ricambi mezzi corazzati) è un’area centralissima di circa 33 ettari, recentemente dismessa dal Ministero della Difesa. Chiusa alla città con alti muri, occupata da blocchi e casematte che lasciano residue zone piantumate.

E ancora?
E ancora, la madre di tutte le visioni. Quinto: la quota zero.  La città in un palmo di mano, la città in un palmo della mano. Dalla quota 0 a quella + 20 cm, un palmo, giace il tessuto di connessione della città.
Questo grande piano, quasi, bidimensionale fa la differenza. Stabilisce il livello 0 della qualità della vita. È qui che si distingue il pubblico dal privato. E nella proporzione fra le parti di questo piano si coglie la matrice politica che l’ha generato.

Per finire, mi dai una definizione di bellezza?
La Bellezza è un percorso. Un percorso verso una non realizzabile (irrealizzabile) compiutezza. La Bellezza è una aspirazione, etica e politica; è un movimento per il riscatto sociale, per una nuova dialettica delle parti, per l’equilibrio delle parti della città. La Bellezza non esiste. La Bellezza è un programma. I confini della Bellezza sono il Familiare e la Meraviglia. Familiare come riconoscibile e Meraviglia come stupore. Il Riconoscibile, riconducibile a caratteri noti, è il presupposto per evitare lo spavento, la paura, l’orrore; il Bello e il Brutto si corrispondono in questa necessità. Il primo spinto verso il Piacere, il secondo verso il Disgusto.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.