Alcune cose riguardo Milano

Siccome Lucia Tozzi – studiosa e critica della città e dell’architettura – da anni scrive di Milano e non solo, le ho chiesto alcune cose riguardo Milano (e non solo)…

Cominciamo con un’osservazione comune (o banale non so). Un’opinione che va di moda. Milano è cambiata dopo EXPO. Bene, ti volevo chiedere: a) se è vero, b) come era prima di Expo e di conseguenza c) quali sono i cambiamenti…
Sì, EXPO ha cambiato Milano, perché le ha consentito di costruire un’immagine che non aveva mai avuto. Fino a quel momento la bellezza di Milano era una cosa da intenditori, da persone con lo sguardo educato a cogliere i segni di una certa qualità dell’architettura, o di certe eleganze, al limite era la manifestazione di un gusto un po’ eccentrico, alternativo.

Per il resto?
Per il resto dell’universo era più bruttina rispetto alle città italiane ed europee, sempre connotata dal grigiore e dall’efficienza, persino negli anni ’80 della Milano da bere. Invece, il monopolio mediatico esercitato grazie al grande evento è riuscito finalmente a convincere la popolazione italiana e mondiale che Milano, grazie ai nuovi grattacieli, ai buoni ristoranti e bar, alla fondazione Prada, all’HangarBicocca e al vernacolo dei Navigli, è un place-to-be, una città vibrante e multiculturale dove vivere esperienze lussuose.

E di conseguenza…
Di conseguenza, grazie a questo vocabolario uscito dai manuali di marketing oggi ufficialmente Milano è bella e gli abitanti che hanno i mezzi per godersela sono finalmente orgogliosi, dopo anni di frustrazione. Gli altri rosicano e votano Salvini, o sono troppo occupati a mettere insieme i soldi per l’affitto.

Ok, e fuori dal suddetto vocabolario, tu come la vedi?
La questione estetica non mi tocca molto, trovo orrendi molti dei nuovi spazi mercificati – piazza Gae Aulenti, il centro commerciale di Citylife, piazza “Apple” o il pensiero di progettare una specie di outlet in mezzo a Piazzale Loreto – ma penso che Milano sia ancora una città bellissima. Anche se è relativamente piccola non si finisce mai di girarla. Però mi ha stupito il provincialismo estremo con cui una fetta considerevole di milanesi, quelli che si sentono poi i migliori, i progressisti, si è entusiasmata per un’immagine così pacchiana, fondata su un ossimorico lusso green e smart. Lo trovo patetico ma anche frutto di una grottesca perdita di intelligenza, perché le nuove disuguaglianze sono sotto gli occhi di tutti.

In effetti i progressisti su alcune cose sono conservatori. Comunque, parliamo delle nuove diseguaglianze
Le disuguaglianze sono descritte sempre dagli stessi fenomeni, solo che la retorica del Modello Milano tenta in tutti i modi di nasconderle. Anche qua, decine di migliaia di famiglie sono da anni in lista per le case popolari, le file per un pasto caldo si allungano ogni mese che passa, e oltre ai veri indigenti se la passa malissimo anche tutto quell’ambiente di lavoratori dell’arte e della cultura che in teoria dovrebbe costituire l’anima creativa della città. Non solo la grande ricchezza, ma anche il lavoro normalmente pagato è concentrato nelle mani di pochi: gli altri sono working poors che fanno stage o lavoretti o passano il tempo a compilare faticosi bandi o aspettano esigui pagamenti a sei mesi, e chi non ha il supporto delle famiglie non riesce a pagare affitti sempre più alti. Per questo, per esempio, il paragone con la Milano da bere non regge, allora l’euforia piaccia o meno poggiava su una popolazione più ricca, i soldi circolavano.

Ci sono nuovi o vecchi strumenti per affrontare le suddette questioni?
Lo strumento più efficace è la lingua: dal Marco D’Eramo di Dominio a Walter Siti di Contro l’impegno, dal Mark Fisher di Realismo Capitalista alla sempre più nutrita schiera di sociologi italiani e stranieri che studiano preoccupati la privatizzazione del welfare attraverso la proliferazione dei cosiddetti “knowledge brand”. Moltissimi intellettuali mettono in rilievo l’importanza della critica della “neolingua”, dello svelamento degli eufemismi utilizzati per veicolare l’ideologia neoliberista. La quale, notoriamente, produce e diffonde concentrazione della ricchezza, altro che trickle down.

E Milano…
Ecco, Milano – insieme a Torino, ma in modo più esplicito e potente – è la fabbrica della neolingua italiana, in tutti i campi.

Spiega
Regina del greenwashing, continua a cancellare giardini e aree verdi per costruire uffici e case di lusso – solo negli ultimi anni ha mandato le ruspe o progettato di farlo a parco Bassini, alla Goccia della Bovisa, a Piazza d’Armi, nelle aree di San Siro tra stadio e ippodromo e in decine di altri punti – ma a forza di programmi come RiforestaMi e Green Week si presenta come avanguardia della sostenibilità.

Difatti, se si fa il classico gioco delle associazioni se dici Green ti viene in mente Milano…
Oppure, per attenuare la percezione della distanza tra centro e periferia, la giunta ha deciso di lanciare la campagna marketing dei quartieri, partita con il video “Milano è sempre quella, perché non è mai la stessa”: secondo loro, sostituendo alla parola periferia l’idea egualitaria di quartieri dotati ciascuno di una propria identità appiccicata da qualche disperato team di pubblicitari, si riesce a coprire l’abisso tra i fondi spesi nella zona centrale e quelli allocati nelle aree di contorno

Contro la neolingua? Soluzioni?
È importantissimo anche il lavoro della ricostruzione e dell’aggregazione dei dati, portato avanti in maniera straordinaria soprattutto dagli attivisti. A Milano, il collettivo Off topic ha per esempio elaborato sistemi ingegnosissimi per rilevare dati non ufficiali e diffusi sulla qualità dell’aria, Inside airbnb ha rivelato la consistenza del patrimonio di case e appartamenti sottratti al mercato dell’affitto a lungo termine o all’abitazione per essere destinati alle alte rendite dell’airbnb (17000 nel 2019), Acta ha indagato il reddito medio dei lavoratori dell’editoria (meno di 15000 euro lordi nel 2019) e solo i sindacati della casa riescono a restituire un’immagine affidabile dello stato dell’edilizia popolare e della necessità abitativa.

Senti Lucia, Colin Ward sosteneva (ma vado a memoria) che oggi gli elementi fondativi del pensiero utopistico sono la città, i bambini e le macchine, dunque spiegava: per chi e come costruiamo la città, uno sguardo ai bambini che le abiteranno, e le auto, come fare a non prenderle mai più. Ma mi chiedo, ripensare a una città e cioè orientarne lo sviluppo (nel nostro caso Milano) è possibile? Visto i soldi che girano, considerate alcune contraddizioni, da una parte vogliamo più Stato (ma solo quando lo Stato stanzia i fondi) dall’altra parte meno Stato perché detestiamo la burocrazia, visto soprattutto le moltitudini che abitano le città, ognuno con i suoi desideri, ognuno con le sue lotte private e pubbliche, le frustrazioni e le ambizioni, insomma controllare tutto fa uscire pazzi, mi chiedo se è possibile almeno dare orientamenti?
Identificare la burocrazia con lo stato non ha più molto senso, il privato produce un tasso di burocrazia superiore e più respingente del pubblico. Chiunque abbia tentato di carpire informazioni tramite un servizio clienti vodafone, o abbia lottato con le regole barocche di Ryanair, o adempito correttamente ai formulari host di airbnb, sa cosa voglio dire. David Graeber o lo stesso Mark Fisher descrivono molto bene il crescendo di misurazioni, valutazioni, formulari, controlli che la privatizzazione dei servizi fa gravare sulle nostre vite. Eppure, le regole imposte dal privato vengono percepite come più legittime, producono meno insofferenza.

Risultato?
Il risultato è che le città, e in Italia soprattutto Milano, sono oggetto di pianificazione da parte dei privati, ma non delle istituzioni pubbliche, cioè quelle che ancora avrebbero il mandato di agire in nome dell’interesse dei cittadini e che in teoria potrebbero dover rispondere delle scelte sbagliate. Come sostiene Samuel Stein, autore di Capital City, abbiamo invece bisogno di pianificare collettivamente i quartieri, le città, e di pianificare insieme alla trasformazione anche la gestione, la manutenzione. Non è un processo semplice, richiede uno scarto ideologico, un nuovo quadro normativo, una nuova presa di coscienza politica che possa produrre una pressione tale da modificare i processi decisionali.

Dunque?
Dunque l’unico modo è liberarsi di alcuni luoghi comuni che sembrano immutabili, come per esempio l’idea che per costruire un parco sia inevitabile costruirci migliaia di metri cubi intorno. Se gli attivisti berlinesi hanno ottenuto di trasformare un aeroporto in un parco senza l’intervento di un privato, a Tempelhof, è perché hanno messo in atto una contro pianificazione.

Veniamo alla domanda fatidica: cosa si potrebbe fare per Milano?
Milano ha bisogno di spostare risorse e persone dal comunicare al fare cose concrete, e quindi in primissimo luogo di riorientare il proprio futuro verso la produzione (industriale e culturale, di ricerca) e fare cadere i valori immobiliari.

Non è facile…strumenti?
Bisogna definanziare uffici e progetti dedicati al marketing, alle strategie di cattura e rappresentazione del consenso e dei flussi turistici e allocare soldi e finanziamenti diretti alle istituzioni culturali qualificate, alla manutenzione dell’edilizia pubblica, alla cura e alla progettazione di uno spazio pubblico vivibile e dei servizi soprattutto ai margini della città, dedicati agli abitanti e non ai turisti. Per farlo è necessaria una profonda rivoluzione organizzativa, che interrompa l’eterno ricorso ai privati e costituisca una pubblica amministrazione in grado di costruire, gestire ed essere responsabile dei processi di trasformazione urbanistica, dei servizi e della risposta alle esigenze dei cittadini sul lungo periodo, e farla finita con il sistema della delega al terzo settore attraverso bandi sempre più poveri e complessi, che frammentano e riducono la capacità di azione degli attori sul territorio.

Diamo per scontato che il funzionario pubblico rispetti dei requisiti, vero?Per ostacolare la mercificazione totale dei marciapiedi, della cultura, degli ospedali, delle università, delle case, degli spazi liberi, è fondamentale che i politici eletti e i funzionari siano di nuovo in grado di governare la città, siano dotati dell’autorevolezza istituzionale e degli strumenti e siano messi in condizione di rispondere del proprio operato, mentre oggi l’intermediazione (costosissima per le casse pubbliche) di una miriade di consulenti, esperti, fondazioni, associazioni, sponsor, rende opachi e incerti anche i processi più banali.

Vuoi concludere con un appello?
Dobbiamo rinunciare al fatalismo neoliberale, soprattutto riguardo alla trasformazione di interi pezzi di città: possiamo lasciare San Siro com’è e dov’è, senza obbedire alla volontà di oscuri proprietari di due società calcistiche; possiamo ancora progettare gli ex-Scali ferroviari in modo diverso, con dei parchi meno disegnati e più estesi e senza inutili uffici e case di lusso; possiamo pretendere il controllo degli affitti, la tassazione degli immobili vuoti, la fine della farsa dell’housing sociale in favore delle case popolari, l’istituzione di un Osservatorio della casa; possiamo ottenere che l’università resti a Città Studi; possiamo mandare all’aria le Olimpiadi Invernali e gli eventi più insulsi e commerciali; possiamo tenerci l’Atm pubblica, i musei e teatri pubblici (quelli che ancora non sono fondazioni), le piscine pubbliche. Basta lottare.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.