Cosa sono le biotecnologie?

Cosa sono le biotecnologie? Perché uno strumento nato dalle riflessioni ecologiste e usato per migliorare la qualità delle piante e dei prodotti (e indurre resistenze contro patogeni e contro stress e altro) è così inviso? A causa delle multinazionali? Ma se a usare questo strumento è la ricerca pubblica? Se sono le nostre cultivar a essere interessate? Due chiacchiere con le ricercatrici Angela Ricci e Silvia Sabbadini (Università di Ancona).

Ciao, presentatevi.
Sono Angela Ricci, sto quasi finendo il Dottorato di Ricerca in Biotecnologie Agrarie qui ad Ancona.
Silvia Sabbadini, 35 anni da un mese, Mantovana, ma Anconetana di adozione ormai da 11 anni. In questa città ho scoperto la fotografia, soprattutto quella analogica, dove devi maneggiare rullini e soluzioni di sviluppo in camera oscura, e ottenere la tua creatura unica, quasi impossibile da replicare.

Ah, questa è una buona metafora del metodo scientifico…
In effetti, è molto diverso da quanto facciamo in laboratorio: qui si punta al dato ripetibile e consolidato, ma in realtà spesso si diventa “artisti” anche in laboratorio, ad esempio, per chi come noi lavora con piante in vitro e ingegneria genetica è molto difficile trovare “la ricetta” giusta per ottenere un risultato di successo, e come un bravo cuoco spesso si prova a inserire l’ingrediente segreto che cambia tutto, e a quel punto si gioisce.

Allora, quando frequentavo agraria (35 anni fa ormai) ero attratto dalla genetica e dalle tecniche di miglioramento, solo perché allora i prof più progressisti vedevano nel miglioramento genetico una possibilità concreta per abbassare le dosi di agrofarmaci, i conservatori, invece, ignoravano questo aspetto e spingevano sulla chimica. Ma sono passati molti anni, e voi come ci siete finite qui?
Angela Ricci: prima di intraprendere questo percorso, ho lavorato come tecnico di laboratorio cercando di sfruttare la mia laurea in Biologia. Ormai tre anni fa, terminata la mia precedente esperienza lavorativa, ho deciso di partecipare al concorso di Dottorato bandito dall’Università di Agraria e ho vinto una delle borse di studio.

Cosa stai studiando?
Angela Ricci: mi è stato assegnato un progetto di ricerca (cofinanziato dall’Università e da New Plant s.r.l. di Forlì) che ha come obiettivo l’induzione di resistenza a Sharka in pesco sfruttando l’ingegneria genetica.
Silvia Sabbadini: dopo il diploma (al liceo linguistico nella mia città natale) ho iniziato a fare la pendolare a Verona per studiare biotecnologie. In realtà non avevo ancora le idee chiare quando ho scelto quel percorso di studi, ma su una cosa ero certa, sentivo di avere un maggior trasporto per le materie scientifiche e quindi ho abbandonato quelle umanistiche. Dopo il primo anno a biotecnologie capii che non avrei di certo lasciato questo settore, e convinta da un mio professore mi decisi a proseguire gli studi con un dottorato di ricerca. All’epoca mi disse: «di tempo per lavorare in un’azienda avrai forse tutta la vita, ma se vuoi approfondire ciò che ami, o lo fai ora o avrai perso un’opportunità».

Ok, e allora?
Silvia Sabbadini: finito il quinquennio universitario tentai di ottenere una borsa di dottorato alla Facoltà di Scienze Agrarie di Ancona (ricercavano un profilo da biotecnologo da inserire nel loro team). Ora sono ricercatrice e speriamo che prosegua tutto per il meglio… la carriera accademica è un po’ come andare sulle montagne russe, ma è sicuramente una grande scuola di vita, ti rende forte.

E ora di che ti occupi?
Silvia Sabbadini: miglioramento genetico di specie da frutto, attraverso quelle che chiamano “Nuove Biotecnologie di breeding (NBTs)”. Lavoro principalmente con vite, fragola e pesco, e in particolare quest’ultima è il nostro obiettivo fisso da anni, perché il pesco è tra le specie più difficili da ingegnerizzare. Da un po’ di anni ci siamo focalizzati sull’indurre resistenze a diversi tipi di patogeni in queste tre specie, sfruttando le tecniche NBTs, in particolare quella dell’RNA interferente (RNAi). Tentiamo di offrire un’alternativa al massiccio uso di agrofarmaci.

Ecco, vedi… il passato che torna. Spiega RNAi per in non addetti alle sigle, diciamo così.
Silvia Sabbadini: l’RNAi viene attivato da molecole di RNA a doppio filamento (dsRNA), e negli ultimi anni alcuni gruppi di ricerca in varie parti del mondo hanno dimostrato che anche la sola applicazione esogena di queste molecole sulla pianta può indurre una difesa contro diversi tipi di patogeni (funghi, virus e insetti), in modo sequenza specifico.

Una specie di induzione alla resistenza naturale…
Silvia Sabbadini: questa tecnica è rivoluzionaria, la chiamano SIGS (Spray-induced gene silencing), ora ci sono moltissimi studi a riguardo, soprattutto per prolungare la durata dell’effetto di resistenza indotto da queste molecole, che di per se si degradano molto facilmente nell’ambiente, è quindi necessario sviluppare dei formulati appropriati.

Ok, vi trascrivo un commento a una mia precedente intervista:

Ma c’è un motivo per cui in questa serie di articoli ascoltiamo solamente voci a favore delle biotecnologie, dell’utilizzo (seppur moderato e legato al biocontrollo) di agrofarmaci/pesticidi ecc…?

Sottolineo che sono persone che hanno la pazienza e la curiosità di leggere cose intorno all’agricoltura che quindi ringrazio. Però mi chiedo: come mai un metodo così pieno di potenzialità (che apre nuove frontiere, appunto) è ancora inviso al grande pubblico? C’è stato secondo voi qualcosa di sbagliato nella comunicazione? Ve lo chiedo perché siete ricercatrici pubbliche e vi occupate di culture agrarie, diciamo così, nostrane.
Angela Ricci: Ciò che non si conosce fa sempre paura e nel nostro settore in particolare si toccano argomenti molto importanti come cibo, salute per il consumatore e attenzione per l’ambiente che ci circonda. Ascoltando i dibattiti in televisione o leggendo su internet, mi sembra di vedere una tendenza a sottolineare più i contro che i pro di queste nuove tecnologie in campo agrario. Ci sono molti studi che ne evidenziano le grandi potenzialità, dove vengono presentati dati solidi, revisionati dai massimi esperti del settore e quindi affidabili. Purtroppo, si tratta di lavori molto complessi rivolti ad un’audience di nicchia, accademica.
Quello che voglio dire è che al pubblico vanno spiegati, con un linguaggio semplice, chiaro e diretto, anche i grandi benefici che queste nuove tecniche in agricoltura apporterebbero, per esempio, all’economia del nostro paese oppure in ambito di sostenibilità ambientale.
Silvia Sabbadini: Condivido appieno. Aggiungo solamente, che in futuro saranno sempre più importanti e indispensabili una comunicazione e divulgazione scientifica corrette attuate parallelamente allo sviluppo di nuove tecnologie in ambito agronomico, ma non solo.

Sono stati fatti molti errori e alcune multinazionali avevano pessimi uffici stampa, ma anche il settore pubblico non scherzava.
Sì. L’importante è che non si rischi, come in passato, una sbagliata interpretazione di alcune strategie utilizzate ad esempio in ambito di miglioramento genico (l’esempio più noto è sicuramente quello che riguarda gli organismi geneticamente modificati, o OGM), che ha portato ad una loro demonizzazione. Abbiamo la possibilità di sfruttare svariate metodiche che potranno avere un impatto positivo sull’agricoltura del nostro paese e non solo. E’ importante inoltre far capire che ogni strategia adottata va valutata caso per caso, e che una tecnologia non deve per forza escluderne un’altra, ma possono spesso lavorare in modo integrato per adattarsi alle necessità del territorio/ambiente in cui esse vengono applicate.

Allora, partendo dal vostro lavoro, provate a spiegare con linguaggio chiaro alcuni vantaggi, magari concentrandovi sulle nostre care colture agrarie?
Angela Ricci: Secondo l’ultimo report del 2017, in natura ci sono circa 1400 virus diversi in grado di attaccare specie selvatiche e specie coltivate.

Ok, quali sono i più letali?
Angela Ricci: uno di questi è il virus della Sharka, responsabile della cosiddetta Vaiolatura delle Drupacee così definita a causa delle caratteristiche maculature presenti sulla superficie dei frutti infetti: di fatto sono invendibili ed immangiabili. Non ci sono rimedi efficaci, fatta eccezione per la massiva eradicazione di tutti gli esemplari infetti con conseguenti perdite economiche elevatissime per l’intero settore.

Eh sì, rimedi?
Angela Ricci: qui all’Università di Ancona, stiamo proprio cercando di indurre resistenza genetica a Sharka in pesco sfruttando appunto le NBTs.
Ho appena ricordato quella che è la mia esperienza da tre anni a questa parte per focalizzare l’attenzione sul primo dei vantaggi che mi viene in mente circa l’utilizzo di queste nuove tecnologie in campo agricolo: sto parlando dell’induzione in pianta di resistenza a patogeni diminuendo così l’uso di pesticidi e combattendo infezioni difficili da controllare con i mezzi chimici.

Quindi l’induzione di resistenze è uno dei focus delle biotecnologie?
Angela Ricci: così come si può lavorare sulla resistenza ai patogeni di diverse specie da frutto, in altri laboratori si sta lavorando all’introduzione in pianta di altri tipi di “resistenze” quali ad esempio la resistenza a determinati stress di tipo ambientale (ad esempio tolleranza alla siccità e al freddo), caratteristiche fondamentali per proteggere le colture da repentini mutamenti climatici e/o per estenderle a terre “marginali” attualmente non in uso.

Silvia tu che mi dici?
Silvia Sabbadini: Le nuove biotecnologie di breeding rappresentano uno strumento utile da integrarsi alle metodiche tradizionali di miglioramento genetico classico.

Perché?
Silvia Sabbadini: perché riescono ad accorciare di molto i tempi per l’ottenimento di una varietà con un nuovo tratto di interesse, soprattutto per quanto riguarda le specie da frutto.
Ad esempio per introdurre in una varietà commerciale una resistenza ad una malattia attraverso incrocio classico ci vogliono circa fra gli 8 e i 20 anni di incroci e re-incroci, che portano spesso anche all’inserimento di tratti indesiderati insieme a quello di interesse (linkage drug effect), rappresentati anche da allergeni o molecole prodotte dalla pianta stessa che se presenti in dosi eccessive diventano tossiche per l’uomo.

Esempio?
Silvia Sabbadini: cito il lavoro di Zitnak e Johnson, 1970, in cui si dimostrò che il rilascio di una nuova varietà di patata a seguito di un programma di breeding risultò avere una quantità doppia del massimo consentito di glicoalcaloidi tossici.

Ok, e invece con biotecnologie?
Silvia Sabbadini: mediamente un programma di miglioramento genetico attuato attraverso l’uso di strumenti biotecnologici può accorciare di molto i tempi, ci vogliono circa da 4 a 6 anni per raggiungere lo stesso risultato.

Va bene, induzione di resistenze e tempi accorciati, altro?
Silvia Sabbadini: siamo sempre più interessati, sia nel settore pubblico che privato, a trovare tecnologie a basso impatto ambientale. Le contaminazioni del suolo e delle acque sotterranee rappresentano un grave problema sociale, soprattutto a causa della persistenza di princìpi attivi obsoleti, altamente tossici e non più approvati a livello legislativo. Purtroppo, anche i prodotti “naturali” utilizzati attraverso alcune strategie oggi applicate in ambito agronomico, non riescono ad abolire del tutto l’uso di Prodotti per la Protezione delle Piante (PPP), o non riescono a garantire una totale difesa della pianta da certe malattie.

Certo, anche nel Bio si usano agrofarmaci, purtroppo le piante e i prodotti delle piante piacciono a noi e pure ai patogeni. Si può dire che le biotecnologie sono una parte significativa di una nuova cassetta degli attrezzi?
Silvia Sabbadini: abbiamo a disposizione nuovi strumenti in grado di rendere una pianta resistente a un patogeno o insetto in modo stabile, utilizzando strumenti come l’RNAi o il gene editing, ma anche attraverso l’applicazione esogena di molecole già presenti in natura (ricordo che l’RNAi è un meccanismo che si è evoluto nelle piante come strumento di difesa), che agiscono in maniera sequenza-specifica contro uno target preciso, evitando così qualsiasi modifica ereditabile nel genoma dell’ospite. Tutto ciò sarà utile soprattutto per preservare le varietà locali, aiutando l’economia del territorio, ma soprattutto per garantire la sicurezza ambientale.

Ok, dunque, per concludere, toglietemi una curiosità: una delle accuse che si fanno all’agricoltura moderna (accusa viziata da bias in verità) e che i prodotti non sanno di niente, colpa, appunto dell’agricoltura intensiva dall’esasperazione di alcuni modelli produttivi ecc. Bene, quanto c’è di vero? Soprattutto oltre alla protezione delle piante, si potrà lavorare sulla qualità dei prodotti? Mi fate qualche esempio? Potete anche complicare la questione, ovvio.
Silvia Sabbadini: per quanto riguarda la qualità dei prodotti, si può e si deve lavorare anche su questo. Nel nostro gruppo di ricerca si lavora moltissimo anche su questo aspetto, al momento principalmente attraverso breeding tradizionale.

Non so, una specie agraria di cui vuoi parlare?
Silvia Sabbadini: parliamo di fragola ad esempio, una specie che produce frutti ricchi di composti bioattivi come antociani, acidi fenolici e vitamine. Anche in questo caso sarebbe possibile velocizzare l’ottenimento di una cultivar con aspetti qualitativi migliorati attraverso l’uso delle biotecnologie.

Come facciamo?
Silvia Sabbadini: andando ad identificare quelle sequenze geniche chiave che regolano vie metaboliche specifiche, per ottenere un prodotto cosiddetto “biofortificato”. Un po’ come è successo con il Golden rice, una varietà di riso geneticamente trasformata per biosintetizzare il beta-carotene, precursore della vitamina A. Il Golden rice ha introdotto questa vitamina nella dieta di popolazioni che non aveva accesso a prodotti che naturalmente contengono vitamina A. Lo stesso obiettivo è stato raggiunto in una varietà di banana con il progetto “Banana21” iniziato nel 2005.

E una pianta?
Silvia Sabbadini: parlando di qualità di una pianta, non penso solo all’aroma o alla presenza di composti bioattivi, ma anche alla presenza (o meglio non-presenza) di allergeni o molecole tossiche. La tecnologia dell’RNAi di cui parlavamo poco fa, o anche il gene editing, possono essere utilizzati per spegnere in modo mirato e sequenza-specifico, quei geni responsabili della produzione di proteine allergeniche, come è stato fatto per l’allergene Mal d 1 della mela, o come il grano “gluten free” ottenuto attraverso gene editing.

E sì, però…
Tuttavia, in Europa queste piante sono classificate come OGM, in quanto il metodo con cui le si è ottenute si basa su tecnologie del DNA ricombinante, quindi non si guarda tanto al prodotto ottenuto (product-based), ma come lo si è ottenuto (processed-based). Lo stesso vale anche nel caso di piante “cisgeniche”, in cui il nuovo tratto inserito è costituito da sequenze geniche che provengono da specie geneticamente compatibili, un po’ come si fa con il breeding classico, ma con tempi più brevi e senza alterare lo standard qualitativo della specie d’interesse.

Angela chiudi tu?
Angela Ricci: Silvia è stata molto chiara ed esauriente! Nei laboratori si continua a lavorare su più fronti con grande passione e determinazione. Speriamo solo che questi sforzi, questi brillanti risultati non rimangano confinati negli istituti di ricerca; tutti dovrebbero beneficiarne, ovviamente in totale sicurezza.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.