L’evoluzione di Dio

Nel 1978, seconda media ai Salesiani, Don Tobia mi fece una strana proposta. Mi convocò, dopo l’orario scolastico, in una grande aula, una stanza piena di quadri di San Domenico Savio e Don Bosco. Aspettai un po’ – ancora mi rivedo seduto mentre mi guardavo intorno – finché arrivò, mi sorrise e mi chiese se per caso avevo la vocazione e se, sempre per caso, stavo pensando di diventare prete.
Bravo don Tobia, conservo un buon ricordo, era un missionario tornato dall’Africa e pieno di speranza di evangelizzare, ora, gli studenti casertani. Io invece nutrivo molta curiosità verso alcune questioni e per questo mi interessavo di teologia – teologia, insomma, si trattava di catechismo – facevo un sacco di domande. Le questioni essenzialmente erano due: c’è vita oltre la morte? Esistono gli ufo? Ossia c’è vita e c’è vita oltre il pianeta terra. La vita oltre la morte era un libro di Raymond Moody, che in Italia uscì nel 1977, credo, e che io comprai alla cartolibreria “Casertano” – all’epoca Caserta non aveva vere e proprie librerie.

Moody aveva studiato tutte quelle esperienze che vanno sotto il nome di premorte: tunnel con luce in fondo, fluttuazioni, senso di benessere, incontri con angeli. Aveva anche sperimentato un metodo per indurre allucinazioni e alterazioni di coscienza. Si trattava di una stanza circolare ricoperta di specchi (lui lavora in pieno Alabama, nel centro da lui fondato dedicato a John Dee) e dunque, sosteneva Moody, la visione della propria immagine ripetuta all’infinito porterebbe verso uno stadio di deprivazione sensoriale, porta d’accesso alle succitate esperienze. Ci provai anche io, in maniera artigianale e mi successero due cose. La prima: finii in un incubo – che ancora oggi mi tormenta e continuo a fare – sognai, cioè, di essere paralizzato. La seconda: una mattina non mi riconobbi più allo specchio e cominciai a gridare. Svegliando così mio padre che – siccome ero isterico – mi dette uno schiaffo e con lo schiaffo ebbe termine sia l’allucinazione sia Moody.

Gli ufo sono durati più a lungo – ancora conosco a memoria alcuni casi celebri – ma la fissazione è iniziata nel 1977 con la lettura di I dischi volanti sono atterrati, di George Adamsky – comprato sempre alla cartolibreria Casertano. Un contattista. Era andato su Venere e parlava con i Vesuviani. Va be’, ero ragazzino, però anche allora mantenevo un certo scetticismo, insomma questo Adamsky diceva che aveva incontrato Gesù su un disco volante. Un giorno a Don Tobia glielo chiesi: è possibile che Gesù si manifesti attraverso i vesuviani? Si misero tutti a ridere, ma don Tobia aveva colto la serietà della questione.

Insomma, la vita, meglio: cosa c’è oltre la vita? Beh, quella era una questione che mi appassionava. E quasi fui contento quando a 13 anni, a seguito di un’impennata in bicicletta caddi e mi ruppi il braccio sinistro – per colpa di un cretino che mi tagliò la strada. Frattura scomposta, radio e ulna. Operazione all’ospedale ortopedico di Maddaloni. Anestesia totale. Ebbene sì, contento. Mi chiedevo: avrei avuto nel buio del sonno un’esperienza premorte o qualcosa di simile? E invece: niente. Solo buio. E sofferenza al risveglio per via dell’anestesia. Fui anche (quasi) contento quando nel gennaio del 1999, a seguito di una caduta dalla moto, mi ruppi il naso – un cretino aveva lasciato una scia d’olio sulla strada. Altra anestesia totale. Magari, pensavo, spinto dalla rinata curiosità infantile: avrò un’esperienza particolare? Niente, niente di niente. Tra le mie ultime parole ai dottori: fatemi svegliare, mi raccomando e il primo volto che vidi – quello di mia madre (mi sembrò bellissimo) e invece era una sconosciuta che passava nei corridoi – ecco tra questi due eventi non c’era niente. Ero morto, artificialmente. Momentaneamente la coscienza era sedata e dunque durante la sospensione della vita non c’era niente.A don Tobia, all’epoca, comunque, risposi di no: ho la ragazzina. Che non era vero – a quei tempi a Caserta non ti fidanzavi a 12 anni – e nemmeno, mi rendo conto, costituiva un’argomentazione definitiva. Tuttavia a me sembrò chiudere la questione con Don Tobia – e con il cattolicesimo: non appena fai una domanda a un cattolico (e non solo) si mette in moto il meccanismo dell’evangelizzazione. Si chiuse (per il momento) anche la questione della vita oltre la morte. Ah e poi Moody, negli ultimi anni, cominciò ad accusare il suo vecchio editore, diceva che l’aveva costretto a togliere il capitolo finale del suo libro, un capitolo importante: lì affermava che le suddette esperienze non provano l’esistenza della vita dopo la morte. Tanta fatica per niente. Gli Ufo, quelli, spero ancora, irrazionalmente, di incontrarli.

Non è esatto. Cioè, non è che ho chiuso la questione proprio quel giorno. È solo una sintesi narrativa. Perché queste cose vanne per le lunghe. “L’uomo ha la sorgente della sua energia morale all’esterno, come quella della energia fisica (nutrimento, respirazione). Generalmente la trova: e ciò lo illude – anche nei riguardi del proprio fisico – che il suo essere porti in sé il principio della propria conservazione. Solo la privazione fa sentire il bisogno. E, in caso di privazione, non gli si può impedire di dirigersi verso qualsiasi oggetto commestibile. C’è un solo rimedio: una clorofilla che permetta di nutrirsi di luce. Mio nutrimento è fare la volontà di colui che mi manda. Non c’è bene fuori di questa capacità. La creazione è provocata dal moto discendente della pesantezza, dal moto ascendente della grazia e dal moto discendente della grazia alla seconda potenza. La grazia è la legge del moto discendente”.

Che dovrebbe essere un riassunto, a memoria, dell’ombra e la grazia di Simone Weil: che però non ho letto durante le medie ai salesiani, ci mancherebbe, allora vedevo Heidi. Difficile sottrarsi definitivamente alla suggestione – oh Lord, o my Lord, canta Nick Cave – in che modo ti ho offeso? Stringi le tue amorevoli braccia su di me.
Concetti simili li esprimeva anche Don Tobia, semplificati, voglio dire eravamo una massa di incolti, figli di contadini, artigiani e impiegati, con le tasche pieni di assegnini di carta per pagare la pizzetta durante la ricreazione. C’era la crisi petrolifera, l’inflazione e la svalutazione della lira (e da qui gli assegni di carta), le brigate rosse, e don Tobia ci diceva cose semplici: la purezza che discende su di noi. Cosa possiamo fare se non obbedire? Se obbediremo poi fluttueremo verso l’alto, alleggeriti – come nelle esperienze premorte di Moody, viatico alla vita oltre la vita? Arrendersi alla grazia o al mistero sembrava, e non solo per Don Tobia, il miglior viatico per la salvezza. La risposta ai quesiti di cui sopra già c’era. Non bisognava guardare troppo lontano. Si trattava solo di arrendersi per ricevere.

Arrendersi alla forza discendente che poi ti fa ascendere, è una legge del moto (non newtoniana), diceva la Weil – lo canta anche Lindo Ferretti, in Maciste contro tutti. La resa presupponeva o una disciplina mistica o una ricerca o un’ispirazione divina. Però, non so, mi sentivo lontano. Insomma ero sì un adolescente capellone e sbilenco e indubbiamente cercavo un equilibro, ma riuscivo a trovarlo solo sulla moto, impennando – ancora ci penso a quel cretino che si mise davanti, vabbè, stavo è vero sul marciapiede, ma a Caserta il marciapiede era di tutti, pedoni, automobilisti, bikers e motobikers.

Per il resto, nella mia vita, c’era (c’è) solo confusione, impurità, e no, certo, non mi andava bene, era causa di guai e sventure, tuttavia una cosa veniva a compensare: un certo gusto per il piacere, in senso lato. “Ricordatevi, una vita passata all’inferno non vale un minuto di piacere”, ci diceva invece don Golia, un prete molto conservatore. Ebbene la mia domanda di allora, e pure quella attuale, era: ma come si fa a farlo durare un minuto? Quello era un attimo.
E poi, a proposito del piacere, quando vidi in televisione il Faust di Marlowe, interpretato da Tino Buazzelli (1977) mi incantai all’idea di poter conoscere tutto (che piacere!), tutti i misteri – anche quello degli Ufo – conoscere è vedere (e infatti Lucifero mostrava a Faust anche Elena di Troia) e dunque non mi sono mai particolarmente spaventato quando nel finale, Buazzelli è in ginocchio e chiede perdono a Dio: “se non vuoi salvare la mia anima, per Cristo che con il sangue mi ha riscattato, fissa almeno un termine ai miei tormenti. Che Faust possa vivere all’inferno, mille anni, centomila, ma alla fine possa salvarsi. Ah, ma non c’è termine alle anime dannate”.

Il piacere aveva delle controindicazioni, vabbè, ma la diatriba tra Lucifero – piacere è inferno:ah Lucifero, darò fuoco ai miei libri! – e Dio – che purifica, quella diatriba, mi sembrava, nella mia sensibilità utilitaristica da adolescente, costruita apposta perché non eccedessimo, appunto, quel minuto di piacere che era già difficile da raggiungere. Sì, vero, ogni volta che mi imbattevo nel piacere mi sporcavo. E mi rimaneva addosso, il fango e altre bassezze e sventure. Come potevo toglierlo di mezzo? Con altro piacere, altri libri, altre domande, tutte stupide, avrei scoperto, sì basse, però, la verità? Il basso mi attirava di più dell’alto. E questa non è una ricostruzione narrativa.

La svolta è stata Sympathy for the devil. Questi andavano appresso al diavolo e vivevano pure a lungo: meno male che ci sono le statistiche, altrimenti uno a guardare Keith Richards giunge alla errata conclusione che l’eroina è un elisir della lunga vita. No, non solo, diciamo che i Rolling Stones per motivi contorti dunque sentimentali mi hanno portato a Darwin. E Darwin ai suoi oppositori. La svolta è stata questa frase: “nella teoria con cui abbiamo a che fare (quella darwinista) l’artefice è l’Ignoranza Assoluta; tant’è che possiamo enunciare come principio fondamentale dell’intero sistema che, per creare una macchina perfetta e meravigliosa, non indispensabile sapere come farla. A un attenta disamina, si troverà che questo enunciato esprime, in forma condensata, l’intento essenziale della Teoria, e formula in poche parole ciò che vuol dire il signor Darwin: il quale, per una peculiare inversione del ragionamento,sembra pensare che l’Ignoranza Assoluta possa prendere il posto in tutte le imprese di abilità creativa della Sapienza Assoluta”. (MacKenzie, the Darwinian Theory of the trasmutation of species).
Era riportata in un libro su Darwin che avevo letto e, incredibile, McKenzie avendo torto aveva visto giusto. Quella darwiniana, sì che è una rivoluzione. Mi si sfaldavano tutti i concetti di gioventù: principio primo, purezza, grazia, forza discendente o ascendente di secondo grado e Dio e lo Spirito Santo, perfezione, creazione, ecc. Venivano fuori altri elementi, tutti molto affascinanti. Due milioni di specie viventi – si stima che esistono forse tra i 10 e i 50 milioni di specie, probabilmente delle specie vissute nel passato, solo 1 su 1000 è ancora vivente. La teoria evoluzionista spiega come l’enorme diversità delle forme si sia originata da un’unica specie ancestrale.

Ricordo con meraviglia la spiegazione di un biologo. Illustrava lo studio su una classe di geni, quelli di tipo Hom che regolano la formazione di alcune strutture del corpo della Drosophila. Ebbene, questi geni si sono duplicati e hanno formato una classe di geni, Hox, nei vertebrati (disposti su quattro cromosomi, 7p, 17q, 12q e 2q), eppure, diversità a parte, la loro espressione definisce ancora le stesse strutture delle stesse regioni del corpo – si trova anche qui. Spiega anche come – a dispetto delle sue divulgazioni popolari – il processo evolutivo non implica un progresso tipo dalle specie inferiori a quelle superiori – i biologi la chiamano trappola teleologica. La convinzione che se alcune caratteristiche di un organismo compiono una funzione, questa funzione stessa è stata scelta per raggiungere uno scopo. Né possiamo nemmeno basarci sul concetto di complessità. La tendenza a dire che i batteri sono meno complessi dei mammiferi significa riportare in gioco l’idea del progresso, e non è convincente: il batterio è di per sé molto complesso.È così che funziona, ed è così anche per quelli che non sono d’accordo, anche se quello che produce la natura non ci piace, non possiamo che accettarlo: è un dato di fatto. L’evoluzione è di tipo bottom-up, ed è cieca, procede per tentativi – la creazione dovrebbe essere del tipo top-down, procedere per scopi e obiettivi. Invece funziona proprio come lo scettico MacKenzie temeva funzionasse: l’evoluzione va avanti per errori del DNA (mutazioni, duplicazioni). Appaiono nuovi tratti e questi sopravvivono e mostrano capacità riproduttiva solo se sono adattativi nei confronti dell’ambiente in cui casualmente si trovano. Non c’è un Designer, anzi, se proprio siamo in vena di similitudini narrative, il Designer qualora esistesse procederebbe per sbagli e casuali colpi di fortuna, come un ubriaco Ignorante Assoluto del suo cammino che trova un muro davanti e devia creando a sua insaputa una nuova strada o contro quel muro, al contrario, si schianta. Il Designer non ci vede, non sa come è fatta la macchina, e nemmeno può dire che è meravigliosa. Non la vede, la macchina. Né la macchina né noi.

E quindi? Noi, di grazia, noi che chiediamo agli dei la grazia, chi siamo? E ampliando la domanda: l”universo? Ha come scopo quello di creare essere senzienti? Neil Degrass Tyson esprime il suo parere in proposito. Gli astrofisici hanno punti di vista molto interessanti che è bene riassumere.
Nessuno lo sa se c’è uno scopo, e tuttavia gli unici che mostrano di sapere la risposta sono proprio alcuni credenti. Loro rivendicano un accesso alla conoscenza non basato su dati empirici. Un modo di procedere che dovremmo definire testardo, e che comunque ha impedito per molti secoli la comprensione del funzionamento dell’universo. In più: il fine dell’universo è quello di creare noi? Tutto sarebbe determinato? A partire da quell’istante ti con zero? Dalla rottura della simmetria? Solo che gli esseri umani non sono nei paraggi, almeno per il 99,9999 alla storia cosmica. Anche qui, il Designer si mostra inefficiente, ubriaco.
E se cambiassimo fine? Assumiamo che lo scopo era quello di creare la culla della vita. Tuttavia anche qui dobbiamo constatare con imbarazzo che nei 4,5 miliardi di esistenza, il nostro pianeta è stato sottoposto a un fuoco incrociato di devastazioni ambientali ad opera di vulcani, terremoti, cambiamenti climatici, tsunami e asteroidi con questa tendenza a centrare la terra e causare estinzioni di massa, tanto che risulta scomparso il 99,9% delle specie finora vissute. E se invece il fine fosse stato quello di creare essere senzienti che desiderino servire il Signore? Certo, dal nostro punto di vista, il punto di vista di un credente. Ma se fossimo uno di quei batteri che vivono nel nostro intestino? Allora desidereremo solo un caldo, anerobico ambiente fecale. E senza il desiderio di quei batteri che casualmente hanno incontrato il nostro intestino, e che da allora vivono in simbiosi con noi, non saremo qui e non potremmo chiedere chi siamo e da dove veniamo- insomma i batteri sono fondamentali per la nostra evoluzione e sopravvivenza. Dal letame nascono i fiori che noi possiamo amare e lodare, ma senza batteri il letame non fermenta.

Insomma, esclusa l’arroganza umana di ritenersi parte esclusiva di un progetto – e servirlo, lodarlo, pubblicizzarlo – per il momento osservando la storia evolutiva dobbiamo concordare sul fatto che gli eventi sono molto casuali e quelli che riteniamo avvengano per soddisfare i nostri fini, ad un’attenta analisi, risultano numerosi quanto lo tutti gli altri: tutti quegli altri che potrebbero ucciderci o attentare al progetto. Insomma l’universo è quello che è, una cieca evoluzione, ma noi preferiamo discutere non di quello che è ma di quello che piacerebbe fosse (per caratteristiche biologiche, come la tendenza a credere nell’ordine e scappare dal caos).

Non voglio nemmeno mettere in campo la questione posta da Piergiorgio Bellocchio in Ristorante sul mare (Diario, n.10, 1993). Può apparir troppo sfrontatamente cinica. Si mangia e la moglie di un imprenditore dice: dunque lei crede che tutto finisca con morte? Non c’è vita dopo la morte? E Dio? E a parte il dio cattolico, musulmano ecc, l’Essere Supremo? Il marito spezza con i denti una chela, succhia il contenuto e poi spiega: ci sono prove della vita dell’aldilà, prove scientifiche, registrazioni su nastro magnetico di messaggi di defunti. Scrive Bellocchio:
“Per me l’argomento più forte e evidente, ancorché moralistico ed emotivo, contro la fede nell’immortalità dell’anima, è fornito proprio dalla tavola cui siamo seduti. Dove in meno di un’ora otto persone hanno fatto fuori, divorandole, centinaia e forse migliaia di specie e di creature, tra gamberetti, gamberoni, calamari e scampi, polipi, seppie, soglioline e trigliette, scorfani, naselli, saraghi, cicale, cozze, vongole, arselle. E neppure per il solo piacere, ma altresì per procurarsi bruciori di stomaco, cattive digestioni, arsure, sonni agitati. Persone cosiffatte sarebbero destinate alla vita eterna? Un dio s’è fatto ammazzare per riscattarli dalla morte? Per regalare la vita eterna all’ingegnere? È concepibile?”
Se non posso più sostenere di stare cercando Dio né di desiderare una risposta alle domande nella mia pre/adolescenza, trovo alcuni atteggiamenti, quelli degli atei militanti, un po’ eccessivi per i miei gusti. Insomma, invadere lo spazio intimo altrui, non è auspicabile. Se trovo fastidiosi e invasivi i cattolici che mi inviano messaggi di buona pasqua festeggiando la resurrezione – io, sono un buon ateo, dunque penso che Gesù non sia risorto – allo stesso modo non riesco a eccitarmi quando mi propongono battaglie contro le credenze religiose.

E messo alle strette, se proprio dovessi rispondere sulla questione farei mia la posizione di Masud Khan, bene espressa in un saggio “dal masochismo al dolore fisico” (Le figure delle perversione, Bollati Boringhieri) .

“Per ciò che conosco della storia delle religioni, e specialmente delle tre religioni monoteiste, sono arrivato alla conclusione che l’onnipresenza di Dio nelle vite umane derivi proprio dal bisogno dell’uomo che il suo dolore sia testimoniato silenziosamente e senza intromissioni dall’altro”

Alla base del bisogno, dunque secondo questa ipotesi, ci sarebbe la ricerca di un testimone del nostro dolore, che sia silenzioso e non si intrometta troppo. Uno spazio intimo e riservato, presidiato da Dio. E’ uno spazio che non bisogna tenare di forzare. Un bisogno umano. Simile a quello che il traditore Gurov, nel racconto la signora con il cagnolino (del medico e scrittore laico Cechov) auspica come bene universale. Gurov (ora che ha conosciuto la verità: ama Anna Sergeevna e dunque tutto quello che per lui è vero, è anche nascosto a gli altri e tutto quello che per lui è falso è palese agli altri)cammina per le strade e pensa:

“e giudicando gli altri da se stesso non credeva a quello che vedeva e supponeva che in ogni individuo sotto una coltre di segretezza, come un velo di tenebre, si occultasse la sua vita vera, quella più interessante. Ogni esistenza individuale si mantiene nel mistero, ed è forse in parte per questo che l’uomo civile si da tanto da fare affinché venga rispettato il segreto di ognuno”

Era l’epoca pre-Facebook, ma la sostanza non cambia. Dolore o meno, testimone o meno, l’esistenza si fonda su un mistero che (laico o religioso che sia) va rispettato. E’ una questione di civiltà. Mi sembra un accordo ragionevole tra credenti o laici. C’è un mistero alla base, e ognuno in alcuni particolari momenti della sua vita sceglie di affrontarlo o arrendersi. Non ho mai pregato in ospedale e nemmeno nei momenti difficili. Ma non per questo non ho avuto bisogno di un testimone silenzioso che senza intromissioni né ansia di precipitarsi per mitigare il mio dolore, mi stesse accanto. Nemmeno mi sono stupito se altri pregavano di notte, nei letti d’ospedale, a labbra chiuse, in un mugugno, né mi sono precipitato per dargli dei creduloni. Al di fuori dello spazio privato e civile, del cerchio intimo, fuori da lì, ho però ringraziato i medici, questo sì. Non Dio. Non ho creduto che Dio avesse guidato la mano dell’anestesista o del chirurgo, se erano stati bravi il merito andava alla scienza, alla ricerca, alle procedure e ai protocolli medici resi più sicuri da anni e anni di errori e rettifiche e capacità di costruire su macerie.

Il problema, in effetti, si pone non dentro il cerchio intimo, nel rapporto tra dolore e testimone silenzioso– che ci diamo tanto da fare per difendere – ma fuori, nella ricadute, quelle, appunto, fuori dal cerchio. La religione, bisogna ammettere è cambiata. Nessun cattolico si affiderebbe nei fatti di ordinaria giurisdizione e amministrazione al Dio del vecchio testamento. Anche Dio si è evoluto. Perché si è evoluta l’intelligenza umana e la percezione del mondo è mutata. Ma è cambiata perché abbiamo indagato stanchi di risposte millenarie e tradizionali. La verità rivelata e l’essere assoluto che l’emanava a un certo punto ci deve essere apparsa insopportabile. La verità ci siamo detti, altro non è che una forma di misurazione, tutto quello che possiamo fare e raffinare gli strumenti e diminuire l’imponderabile. Come si crea una teoria? Si chiedeva Feynman:

“Per prima cosa tiriamo a indovinare… poi calcoliamo le conseguenze della nostra intuizione per vedere quali circostanze si verificherebbero se la legge che abbiamo immaginato fosse giusta; infine confrontiamo i risultati dei nostri calcoli con la Natura – con gli esperimenti, con l’esperienza, con i dati dell’osservazione – per vedere se funziona. Se non è in accordo con gli esperimenti è sbagliata. In questa piccola affermazione c’è la chiave della Scienza. Non importa quanto bella sia la tua intuizione, non importa quanto intelligente sia la persona che l’ha formulata o quale sia il suo nome: se non è in accordo con gli esperimenti è sbagliata. È tutto qui. Ora, immaginate di avere avuto una buona intuizione e di avere calcolato che tutte le conseguenze della vostra premessa sono in accordo con gli esperimenti… la teoria allora è giusta? No, semplicemente non si è potuto dimostrare che sia sbagliata, perché in futuro un numero maggiore di esperimenti potrebbe scoprire qualche discrepanza e la teoria si rivelerebbe sbagliata. Non possiamo definire nulla con assoluta precisione. Se proviamo a farlo ci coglie quella paralisi del pensiero che è tipica dei filosofi… uno dice all’altro: “Non sai di cosa sto parlando” e l’altro risponde “Che cosa intendi per parlare? che cosa intendi per sapere? che cosa intendi per cosa?”.

Il mondo sotto molti aspetti va meglio da quando alcuni assoluti sono venuti meno. Da quando la parola anima è stata sostituita con la parola vita, è dal allora che abbiamo smesso di torturare (il declino della violenza di Pinker). Cosa volete che siano tre ore di tortura? Ma dai, io ti salvo l’anima dalla dannazione eterna, che sarà mai, vuoi mettere l’immortalità? E parlare di immortalità significa parlare di Dio, di Dio che ci vorrebbe dannati o tra le sue braccia per l’eternità – e qui non mi sbaglio, anche se ho fatto catechismo ai Salesiani con i testa ai dischi volanti. La rivoluzione umanitaria, un benefico lascito laico dell’illuminismo, ci ha reso sensibili alle sofferenze altrui e meno capaci di eccitarci per le crudeltà. Il declino dell’assoluto non ci ha fatto perdere di vista la morale (il dizionario etimologico sposta l’attenzione sulle radice misurare, metro, moderato, modesto), tutt’altro, anzi, siamo più attenti alle sfumature della vita e alle dannazioni degli altri. Non accadeva nel passato, sotto il domino della certezza e della verità rivelata. Nemmeno l’utopia mi sta simpatica. Sempre di assoluto si tratta. Se uno crede che i suoi sogni siano migliori di lui, e dunque rivendica un accesso alla verità, quella persona sarà disposta a tutto e senza affanno dimostrativo alcuno per seguire la sua utopia. Invece, la ragione quando c’è fa rima con dimostrazione.

Il problema non è nel cerchio di intimità, privato e inviolabile. Il problema non è la fede ma la religione, se vogliamo prendere atto della semplice preghiera del teologo protestante Karl Barth: Dio dammi la fede ma liberami dalla religione. Il problema è proprio nella pervasività e nel fascino che alcune parole derivate e declinate dalla religione ancora offrono. Tutti questi guru (e tutti a sinistra, porca puttana) che si affannano per mitigare il nostro dolore con ricette semplicistiche. E parlano. Parole come l’essere e il nulla, il naturale, le origini, la purezza, la macchina tecnologica, l’apocalisse, la fine della storia, la contaminazione, la madre terra, il principio di precauzione e i saggi miti del tempo che fu a cui bisognerebbe tornare, tornare ai greci, ai romani, al medioevo, ai comuni, al romanticismo, a un mondo a misura d’uomo, puro, incontaminato e invece questi guru ci fanno restare solo sotto il gioco del feudalesimo e insomma: la paralisi del pensiero. Parole amebe, si mangiano ogni cosa, dicono tutto e niente. Guru che dicono di sapere. Sanno davvero?, si chiede Feynman. Mah? Dice: “certo è che per come raccolgono le informazioni, per come propongono gli argomenti, per tutto questo e altro io non riesco a credere che loro sappiano per davvero”. Perché non sanno cosa significa conoscere – e non è vero che sai anche senza prove- non sanno come è facile prendere abbagli e sbagliarsi, non sanno quale precauzioni e quanti controlli rigorosi vanno fatti per verificare un’ipotesi o segnare una misura sul foglio millimetrato della nostra vita. E ti viene il sospetto: loro non sanno e tutto quello che invece sanno fare è quindi intimidire la gente.

Il bisogno di assoluto è pernicioso. Non fosse altro che se cerchi, magari attraverso la scienza di rispondere alle famose domande: chi siamo, e perché siamo qui, che scopo ha l’universo, allora, facilmente rischi la delusione. La scienza non spiega tutto e il pericolo non è l’insensatezza, il pericolo è cercare risposte mistiche che avvolgono le differenze e le individualità in un unico racconto. Non capisco come uno scienziato possa accettare delle risposte mistiche, dice Feynman e comunque preferisce non argomentare (alcuni grandi biologi, come Francis Collins, si ritengono cattolici, ma non negano le leggi della biologia, pensano solo che c’è stato un istante t con 0 in cui Dio le ha create).

Feynman, appunto, in questa splendida intervista.

“ad ogni modo tutto quello che facciamo è cercare di capire un po’ di più sul mondo e se la gente mi domanda: stai cercando la legge ultima della fisica? No sto solo cercando di capire qualcosa in più sul mondo. Ad ogni modo vorrei farlo senza avere già la risposta pronta. Se si scoprisse una legge ultima, ben venga, ma se si scoprisse che siamo come cipolle, e ogni strato rimanda a un altro… ad ogni modo la natura è lì, e si manifesta per quello che è. Quindi ricapitolando, io non posso credere a quelle storie costruite per spiegare la nostra relazione con l’universo. Perchè…perché… sembrano troppo semplici, troppo comuni, troppo locali, provinciali: sulla terra, lui è venuto sulla terra. Uno degli aspetti di Dio che si è manifestato sulla terra, ma pensa te…ma guardate fuori, non c’è confronto… quando cominci a dubitare e farti domande, allora credere diventa difficile. Le mie risposte sono approssimative, le mie teorie plausibili e possiedo diversi gradi di incertezza su cose diverse, ma non sono assolutamente sicuro di niente. Non se neanche se abbia senso chiedersi perché siamo qui, ci penso un po’ e poi passo ad altro. Ma io non devo avere una risposta, non sono spaventato dal non conoscere le cose, dall’essere perso in un misterioso universo senza scopo – che è proprio così, per quello che ne so. Non mi spaventa”.

Siamo provinciali con le nostre storie, rispetto all’universo? Provinciali testardi. La conoscenza è un piacere, si difficile, ardua e complicata dai controlli empirici e comunque si è evoluta ed meno local di un tempo. Chissà, magari un giorno, probabilmente si è evolverà anche il concetto di Dio.
Ps. l’intervista a Feynman si chiude con un bel sorriso. Il suo. Non è intimo, è pubblico e mette allegria. Allegria per esserci, nonostante tutto, ciechi e sbilenchi, figli della casualità e non abbiamo diritto alla felicità, abbiamo solo il dovere dell’inquietudine, c’è piacere nella ricerca. E allora visto che ci siamo, dai, siamo rigorosi nella ricerca del suddetto piacere – hai visto mai che dura più di un minuto?- facciamo o tentiamo di fare del nostro meglio. E poi per il resto, per lo spazio intimo, come testimone c’è Nick Cave.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.