Aerotropolis – Parte I

Vi è mai capitato di perdervi con la flemma del pendolare in uno di quegli straordinari “non-luoghi” che sono gli aeroporti? E sentirvi sempre più a vostro agio immersi nell’acciaio e nel cristallo di un titanico concourse straniero? Trovarlo bellissimo, sognando di viverci dentro, di abitare a pochi minuti di macchina per poterlo frequentare più comodamente? Benvenuti a Aerotropolis, la città-aeroporto del futuro…

In principio erano dei campi, delle distese più o meno piatte, meglio se senza alberi, prive comunque di ostacoli, nel complesso abbastanza noiose. Ad esempio, quello da cui i fratelli Wright fecero il primo volo controllato della storia, il 17 dicembre 1903, era un fondale sabbioso nei pressi di Kill Devil Hills, una serie di dune nella Carolina del Nord.

Oppure quello di San Francisco: Crissy Field. Era una lunga e stretta banchina a margine della baia, costruita nei secoli a partire da una primordiale palude d’acqua salata dove gli indiani raccoglievano le cozze, poi bonificata dagli spagnoli e che, al termine della Panama–Pacific International Exposition (meglio conosciuta come Esposizione Universale di San Francisco del 1915), venne destinato al ruolo di prima stazione per la difesa aerea della costa del Pacifico.

Decollando tra le case la comodità maggiore è la possibilità di sorvolare i tetti della città in men che non si dica: in questo caso la vista è da San Gervasio, quartiere fiorentino limitrofo al Campo di Marte

Invece a Firenze, negli anni Venti, per un po’ di tempo c’era quello molto centrale del Campo di Marte: si usò uno spiazzo accanto a dove oggi c’è lo stadio comunale e le altre strutture sportive della città. Era tutto terreno pressato, suolo “duro” progettato nel 1812 da Luigi de Cambray Digny per far marciare l’esercito toscano (da cui il riferimento a Marte, dio della guerra) e poco usato dopo l’Unità d’Italia. Così, all’epoca, si atterrava e si decollava fra i tetti delle case.

 

Gli aeroporti delle origini erano cose fatte a questa maniera: posti dove gli intrepidi eroi del volo rischiavano ogni volta il disastro. E dove si volava prevalentemente di giorno, se possibile con il bel tempo, per certo con grandi occhialoni e caldi giubbotti di pelle imbottiti di pelliccia perché in quota fa sempre freddo: ogni cento metri di quota la temperatura dell’aria si abbassa di circa un grado, è il gradiente termico verticale e dipende dal fatto che all’atmosfera il calore viene fornito prevalentemente dal suolo. Ma quale che sia la legge fisica, a volare scoperti il freddo viene amplificato dal vento e diventa pungente, e presto taglia la carne.

Gli aeroporti delle origini erano campi, distese, pianure, qualsiasi posto avesse sufficiente lunghezza e non desse la sensazione di avere un suo valore commerciale. Altrimenti, si soprassedeva e ben più lucrose attività prendevano il posto del tentativo di aeroporto. Che non ci fossero ostacoli o che risultasse “comodo” erano considerazioni ulteriori e decisamente secondarie.

L’aeroporto di Miami, ad esempio, oggi è un colosso che gestisce più di 35 milioni di passeggeri l’anno e che può accomodare 250 aerei. Nel 1928, quando nacque come “Pan American Field”, era davvero un campo o poco più. E stava ben lontano dalla città.
Esistono, in buona sintesi, tre tipologie di aeroporti riguardo la loro genesi.

1) Ci sono quelli che nacquero per volontà di appassionati e gruppi di sperimentatori, spesso in collaborazione con imprenditori delle nascenti aziende produttrici di aerei e parti meccaniche rilevanti (come i motori);
2) Ci sono poi quelli che nacquero per scopi militari e che vennero abbandonati dall’aviazione e lasciati ai civili;
3) Ci sono infine quelli sempre fondati dai militari ma che poi si aprirono anche al volo civile.

Tra gli altri, a Rimini vola anche Air Vallée. La piccola compagnia italiana ha tre aerei: qui la vista dal finestrino del suo Fairchild Dornier 328JET

Tra quelli del secondo tipo, che vennero creati dai militari e poi abbandonati dall’aviazione diventando civili, c’è l’aeroporto di Rimini-Miramare “Federico Fellini” (RMI), che nacque nel 1929 come “campo di fortuna” e divenne base militare a pieno titolo nel 1956. La struttura militare, comprensiva di bunker e sistemi di difesa (Rimini era la prima linea della Nato verso l’Est) venne poi smantellata a metà anni Novanta, mentre la riviera romagnola diventava la destinazione da sogno per i turisti Russi in cerca di svago nel Belpaese.

Tra quegli aeroporti del terzo tipo – più rari – in cui si avviò una convivenza tra militari e civili, c’è Pisa-San Giusto “Galileo Galilei” (PSA), che accanto a cinque milioni di passeggeri in transito offre anche quartiere alla 46ª Brigata aerea, la più decorata della nostra aviazione perché unico reparto italiano dedicato al trasporto che di conseguenza ha sempre preso parte a tutte le nostre missioni, in patria e all’estero.

Tuttavia, a prescindere da come nacquero, è interessante capire come si sono sviluppati gli aeroporti. Nel nostro Paese poco e male: i due grandi scali nazionali sono a Roma (Fiumicino, FCO) e a Milano (Malpensa, MXP). C’è stata polemica, contrasti, conflitti; di mezzo c’è andata la politica, si sono scontrate progettualità molto diverse per il futuro del Paese, c’è stato (e c’è ancora) il grosso nodo di Alitalia: insomma, non me ne voglio occupare. Tanto è inutile: su Malpensa e Fiumicino tutti hanno un’opinione e, cosa che personalmente considererei un fatto straordinario se non fossimo in Italia, non se ne trovano mai due uguali.

Invece, è interessante un altro tipo di considerazione. A lungo gli aeroporti sono stati dei piacevoli luoghi di passaggio. Dei veri e propri terminal per qualcosa d’altro. Solo la grandiosa volontà di pochissime, geniali compagnie aeree è riuscita a infondere vita e identità a luoghi che altrimenti avevano solo funzione e struttura, poco decoro e nessun gusto. Così come non avevano decoro e gusto le banchine da cui partivano i transatlantici e la maggior parte delle stazioni ferroviarie ottocentesche e del primo novecento. Erano queste ultime espressione di una cultura orientata alla tecnologia, frutto del lavoro di ingegneri che cercavano di produrre opere ben più grandi e complesse (il sistema ferroviario) di cui le stazioni e le loro banchine, con tutte le attrezzature visibili e invisibili dal pubblico viaggiante, erano solo una componente e neanche la più importante.

I grandi degli anni d’oro dell’aviazione civile statunitense iniziano a fare investimenti importanti anche sulla partenza. Un po’ come fanno le aziende che, oltre a realizzare i prodotti e venderli, investono anche sui negozi monomarca. All’epoca non c’era guru del marketing strapagati che teorizzavano che “l’esperienza dell’acquisto comincia nel negozio”, ma bastava un po’ di buon senso per capire che un terminal bello è meglio di un terminal brutto. Soprattutto quando la clientela è fatta in prevalenza di benestanti. Il viaggio comincia sulla porta di casa, se il terminal è brutto, la qualità del viaggio decade.

Tutto allora veniva organizzato per il comfort del passeggero pagante. A partire dalle poltroncine e dai salottini, dai decori raffinati, dalle moquette rasate e foriere di comodità ulteriori. Inoltre, dal punto di vista commerciale della compagnia aerea, un bel terminal imponente era anche un modo per comunicare alla clientela, ai dipendenti e ai concorrenti che si era diventati assai potenti. La Pan Am e la TWA all’epoca volevano scolpire nel cervello delle persone che erano diventate dei colossi come mai nessuno prima, neanche le Ford e le General Electric, neanche i Rockefeller e i Vanderbilt. Ci riuscirono brillantemente.

Oggi il terminal 3, ex World Port di Pan Am, è diventato di Delta Air Lines. Si intravede sulla sinistra il castello di uscita dall'AirTrain, mentre a destra poco fuori dall'inquadratura c'è l'altro terminal di Delta, il T2.

La Pan American World Airways si dedicò fondamentalmente a poche ma notabili opere. In particolare, il World Port all’aeroporto di New York (JFK), che è un edificio straordinario, in cui non solo le forme architettoniche sono eleganti ma c’è anche dell’innovazione vera. A partire dall’introduzione dei primi esemplari di quello che noi in Italia chiamiamo “finger” ma che negli Usa si chiama “Jetway” o meglio “Jet bridge”: il tunnel retrattile che collega il portale di partenza all’interno del terminal (il famoso “gate”) con la porta o le porte sulla fiancata sinistra dell’aereo. L’ovvio vantaggio è che non si deve più raggiungere il velivolo camminando lungo la pista e arrampicandosi sulla scaletta.

Il jet bridge è retrattile e viene mosso da un operatore con una piccola console proprio nell’ultimo tratto: è un pannello di controllo elementare, con un joystick che, quando si sta salendo a bordo, verrebbe voglia di provare. Sconsiglio di farlo.

Il terminal della Pan Am, il World Port, oggi è diventato il terminal 3 della Delta. La Delta Air Lines (il nome si scrive così, con le parole staccate) opera anche il limitrofo Terminal 2, che è stato costruito nel 1962 per ospitare i passeggeri della Braniff, della Northeast e della Northwest. I due terminal sono collegati da un lungo corridoio coperto che offre una bella vista di un buon numero di aerei di Delta per il lungo raggio (Il T3 è usato per gli intercontinentali di Delta) nell’area di parcheggio, ma volendo è possibile anche uscire e farsi due passi a piedi per passare da una struttura all’altra. Certo, poi bisogna rifare i soliti controlli di sicurezza (e si rischia di rimanere bloccati per un bel po’ di tempo in coda) ma in questo caso se è una bella giornata si respira l’aria della Jamaica del Queens e si vede la struttura dal di fuori. La copertura del vecchio World Port è molto bella: con una forma a sottocoppa da 16mila metri quadri, rimane sospesa sulla struttura grazie a 32 colonne e tiranti di acciaio.

Tuttavia, da un punto di vista squisitamente architettonico, Pan Am è famosa soprattutto per il grattacielo nel centro di New York, proprio dietro il Grand Central, in piena Midtown. Oggi si chiama MetLife Building, all’epoca si chiamava Pan Am Building e venne completato nel 1962. Era la più grande struttura ad uffici del mondo, all’epoca, e Pan Am aveva a disposizione ben 15 piani. Praticamente un palazzo nel palazzo. Dal tetto si accedeva a un servizio di elicotteri per andare rapidamente in aeroporto (ci furono anche un famoso incidente e un caso di suicidio) e la forma della struttura, che è stata realizzata da un pool di architetti internazionali tra cui Walter Gropius l’emigrato italiano in America Pietro Belluschi, richiama fortemente quella del Pirellone di Milano.

Lo guardi e pensi: sono a Sydney, quella è l'Opera House. E invece no, è l'aeroporto di New York e quella è solo l'opera struggente di un simpatico genio: il Trans World Flight Center di Eero Saarinen.

Se la Pan Am ha nel suo scrigno dei ricordi due monumenti, per così dire, non niente rispetto a quel che è riuscita a fare TWA. La “grande seconda” dell’aviazione civile americana (perché Pan Am era sempre la prima) è la creatrice del Trans World Flight Center, cioè la struttura del Terminal 5 creata da Eero Saarinen e oggi di proprietà di JetBlue. L’idea era di catturare lo “spirito del volo”, e la struttura, con le sue vele bianche, ricorda vagamente l’Opera House di Sydney. Per fortuna Saarinen, finlandese, non era fuori di testa come Jørn Utzon, l’architetto danese che ha realizzato il teatro di Sydney. Un aneddoto curioso è la leggenda secondo la quale fu proprio Saarinen, tra gli incaricati a scegliere i progetti migliori in una montagna di 233 proposte da 32 paesi differenti che partecipavano al concorso per l’Opera di Sydney, a ripescare il progetto di Utzon, che era stato scartato. Eravamo negli anni Cinquanta e l’idea decisamente espressionista di una struttura a gusci sovrapposti vinse alla grande, anche se poi nessuno sapeva come fare a realizzare in concreto la struttura e ci vollero 14 tormentati anni per riuscire a portare a compimento l’opera.

A differenza dell’espressionista Utzon e della sua Opera House, Saarinen era un modernista con i piedi ben piantati per terra e la sua idea di terminal aeroportuale conciliava perfettamente la dimensione filosofica e idealista con la funzione più pragmatica. E le conciliava senza grandi drammi spirituali o metafisici. Ma non per questo in modo banale: anzi. Bisogna infatti dire che il T5 è un’opera che si ricorda. Per la cronaca, tra questo terminal e il precedente terminal 3 (progettato dal pool di architetti della Ives, Turano & Gardner Associated Architects e da Walther Prokosch dello studio Tippets-Abbett-McCarthy-Stratton), c’è un’altra struttura: l’anonimo T4, in realtà anche questo con una storia interessante.

Prima, in quella porzione del ring di JFK, c’era l’International Arrivals Building (IAB), che era stato aperto nel 1957. Poi, in tempi recenti, si decise di realizzare una struttura pensata sempre per i voli internazionali ma che potesse accomodare anche i colossali A380, piuttosto scomodi da piazzare in una struttura convenzionale a causa dell’eccessiva apertura alare e del doppio livello da servire con le jet way. La nuova struttura venne completata nel 2001, è stata la prima ad essere operata da un gestore non americano sul suolo statunitense (gli olandesi di Schiphol) e ancora oggi si lavora alacremente alla sua espansione per far spazio a nuovi operatori. È un terminal molto efficiente, peccato però che come struttura architettonica sia piuttosto banale.

Questo è il vero problema. Passata l’epoca d’oro del jet, quando negli anni sessanta si aprì il trasporto nei cieli per tutti i benestanti e (negli Usa) anche per le classi medie, l’aviazione civile ha continuato a crescere. E a crescere. E a crescere. Tanto che sorgono come funghi nuovi aeroporti. Se adesso in Cina stanno costruendo un totale di 100 nuovi aeroporti entro il 2020, una cosa simile era successa negli Usa e poi in Europa. Non così spettacolare, perché il territorio americano ed europeo  è molto diverso per livelli di antropizzazione e di sfruttamento urbanistico. E anche perché la scala degli spostamenti delle persone dalla campagna alle città è stata di un ordine di grandezza inferiore. Tuttavia, il precedente esiste: il volo civile non sta esplodendo da oggi grazie ai Paesi emergenti, anche se giocano come fattore di accelerazione molto importante, ma era già ben consolidato negli anni precedenti. Tutto a scapito del glamour e delle promesse di esclusività che il viaggio in aereo portava con sé nel dopoguerra, checché ne dicano i guru del marketing.

Un esempio eclatante è Londra, con quella vecchia signora che è Heathrow (LHR), incubo e gioia dei passeggeri di mezzo mondo. Su quell’aeroporto pesano le ambizioni della compagnia di bandiera britannica, la British Airways, che ha sempre avuto mire espansioniste e coloniali. Per conseguenza LHR ha accumulato negli anni strutture ed espansioni, raccordi e viadotti, variazioni e superfetazioni, crescendo in maniera piuttosto disordinata. Eppure, è una delle vecchie signore europee assieme al Charles De Gaulle di Roissy-Parigi (CDG), il Rhein-Main-Flughafen di Francoforte (FRA) e probabilmente il Tempelhof di Berlino (THF) ora chiuso. Questi aeroporti sono legati a grandi metropoli di cui sono satelliti. Fanno parte di un sistema: ogni metropoli europea ha più di un aeroporto che nel tempo ha avuto ruoli differenti.

Lo vediamo nella seconda parte.

Antonio Dini

Giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Scrive di tecnologia e ama volare, se deve anche in economica. Ha un blog dal 2002: Il Posto di Antonio