Mad Men, la storia di passaggio

A New York è stato difficile sfuggire all’attesa della quinta stagione di Mad Men, dopo 17 mesi di pausa. Cartelloni sugli autobus, vetrine con collezioni in stile Mad Men di Banana Republic e citazioni di Brooks Brothers, smalti per le unghie e rossetti di Estée Lauder, Barbie, sigarette, alcolici, copertine di settimanali e addirittura numeri monografici, ospitate del cast ovunque.

Sono intanto naufragate le serie televisive (Pan Am, The Playboy Club) che hanno fotocopiato, male, quegli anni (Sessanta). Mad Men ci ha sommerso con un’infinità di pre-critiche, di quadri d’epoca, di cartoline con schizzi biografici. Mi hanno colpito le donne che ne hanno scritto. Per chi ne ha parlato con la madre e con le amiche, e per chi l’ha vissuto, quel mondo è “doloroso”, non glamour come appare. Un mondo di maschi, bianchi, in cui solo pochissime donne non facevano le assistenti e le segretarie. In attesa di matrimonio. Con eccezioni, come le pochissime Peggy Olson che ce la facevano, pagando prezzi diversi, sempre alti.

Il cofanetto che ho della seconda stagione contiene due DVD in più. Uno è storia di quegli anni e l’altro è un documentario in due parti: “Nascita di una donna indipendente. Dalle casalinghe alle donne che lavorano”. Così il collegamento con la storia è chiaro a tutti, anche per chi ha faticato a trovarlo dentro la serie. Meno implicito il legame tra la messa in onda della prima stagione tra l’estate e l’autunno del 2007 e la campagna di Obama per le primarie democratiche. Oggi non sono pochi quelli che evidenziano una complementarietà delle due “discese in campo”, che si sarebbero alimentate a vicenda. Una lettura televisionista forzata che ha giovato soprattutto a Mad Men.

AMC, la rete che ospita Mad Men, era un magazzino di repliche prima della serie vincente. Ora è un magazzino di idee e prodotti che circolano per il mondo, realizzati con budget infinitamente più piccoli di quelli dei colossal di HBO, come Boardwalk Empire, con cui competono, caratterizzati da lavori maniacali sugli interni, i dettagli, la scrittura. La perfezione della ricostruzione sembra superare a tratti quella della scrittura. Ci ritroviamo a fissare la scrivania di Draper, una borsetta di Betty, le scarpe di Roger e quasi non ci importa cosa si dicono. La New York Review of Books, che distrusse lo show nell’ultima stagione, ha scritto che Mad Men ci dice molto più cosa siamo noi oggi invece di cosa furono quegli anni. Ci racconta la plastica di cui siamo foderati, il narcisismo che ci ha tolto la capacità di vedere gli altri.

La storia in Mad Men è solo sottotrama che spunta da un giornale, un televisore, una frase. Le storie esplicitamente narrate sono quelle che accadono nell’ufficio, dove si prova a costruire identità non solo professionali e a immaginare identità collettive per vendere pubblicità, l’abito che di solito veste le identità. Matthew Weiner, il creatore della serie e già scrittore-producer per i Sopranos, ha fatto dire a Faye , rivolta a Don, le parole che stanno sotto tutto il suo lavoro : «A te piacciono solo gli inizi (o i preliminari)». Una specie di dichiarazione programmatica per dire che lui è bravo a fare le cornici, a creare l’ambiente. Weiner ha chiuso la questione con «Non siamo History Channel».

Don Draper oggi avrebbe 86 anni. La serie dovrebbe coprire l’arco degli anni Sessanta, non andare oltre. Tanto Mad Men potrebbe vendersi bene per i prossimi trenta anni. Questa sera la soap, perché questo sono ormai le drama series condannate a durare molte stagioni, ci ha consegnato un inizio con una manifestazione per i diritti civili che passava per Madison Avenue. Sghignazzando i giovani Mad Men hanno gettato sacchetti d’acqua dalla finestra sugli afroamericani che sfilavano sotto. Arrivato Draper in ufficio, se la rideva pure lui. Due ore dopo, alla fine, troviamo l’agenzia piena di uomini e donne di colore che hanno risposto a un annuncio “spiritoso” per un posto di lavoro, prendendolo per vero. Così passa la storia per Madison Avenue nel 1966. La prima serata doppia, con due episodi, se n’è andata. 94 minuti più 26 di pubblicità all’interno (molta Chrysler). Una manna dal cielo per i new Mad Men al servizio degli old Mad Men.

Andrea Salvadore

Vive a New York e fa il regista. Ha un blog, Americana Tv