La debolezza del ministro Saccomanni

Fa quasi tenerezza, il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni che racconta i suoi travagli al Corriere della sera. Saccomanni lamenta le pressioni dei partiti, più attenti all’andamento dei loro consensi che a quello dei conti pubblici. A dire il vero pareva che verso quelle pressioni Saccomanni avesse avuto fin qui un atteggiamento quasi notarile. Lo sforamento dei conti avviene con la sua firma di ministro dell’Economia: anziché opporsi al partito della spesa, sino ad ora ne ha accomodato come ha potuto le istanze.

Viene quasi il dubbio che il ministro, persona ammodo e civil servant di lungo corso, non si sia ben accorto di quanto stava facendo, quando ha accettato di trasferirsi in via XX settembre. In un governo di grande coalizione, destra e sinistra tirano ciascuna la sua estremità della fune. È normale: la “pacificazione” è al massimo temporanea, e tutti sanno che, presto o tardi, si riapriranno le ostilità. Essere riusciti a preservare gli interessi dei propri gruppi di riferimento, anche quando si governava con “gli altri”, si tradurrà presumibilmente in un vantaggio, alla prova elettorale.

L’intervista di Saccomanni racconta di più della debolezza del ministro, che è un eccellente funzionario di carriera. Racconta l’assurda idea che sia opportuno nominare, nel ruolo chiave di qualsiasi governo, un “non-politico”. In molte parti del mondo si ritiene che il ministro dell’economia debba essere un tecnico, nel senso di una persona che ha una competenza tecnica nelle materie del suo dicastero. Ma da nessuna parte si ritene, come invece da noi, che debba essere un tecnico nel senso di essere estraneo a ogni indirizzo politico. Il ministro del Tesoro non è un pallottoliere in forma umana.

Viviamo in una socialdemocrazia a elevata tassazione, la spesa pubblica vale la metà del prodotto interno lordo: qualsiasi decisione di politica economica ha effetti redistributivi. Questo non significa che non ci siano decisioni migliori o peggiori, rispetto agli obiettivi che si intende perseguire. Ma gli effetti che possono sortire – si tratti di provare ad attrarre imprese e capitali, di ottenere una più uniforme distribuzione dei redditi, di dare impulso all’attività economica – rientrano in un disegno “politico”. Da poche persone mi sento più lontano che da Giulio Tremonti. Eppure, paragonato ai suoi successori, Tremonti aveva due pregi: il pessimo carattere, che lo rendeva impermeabile alle pressioni dei colleghi ministri, e chiare ambizioni politiche (andate poi frustrate), che alimentavano la sua determinazione. Il ministro dell’Economia deve interpretare una linea di politica economica: i ministri “tecnici” rinunciano ad averla, nascondendosi dietro il dito delle “necessità” imposteci dall’appartenenza al club europeo.

Quelle “necessità” sono fatte per essere interpretate. Bruxelles potrà considerare equivalente che si alzino le imposte o si taglino le spese (e che si taglino in questo o in quell’ambito), ma certamente le due cose non si equivalgono, a seconda dell’idea che abbiamo del futuro di questo Paese. Il ministro dell’Economia dovrebbe resistere alle pressioni del partito della spesa giorno dopo giorno, e non solo nelle interviste ai giornali, ma soprattutto dovrebbe farlo in nome di una visione alternativa. Non è detto che le idee di riforma debbano per forza essere patrimonio di pochi. Ma se un’idea non c’è, come si fa a costruirci attorno un consenso?

Alberto Mingardi

Alberto Mingardi (1981) è stato fra i fondatori ed è attualmente direttore dell’Istituto Bruno Leoni, think tank che promuove idee per il libero mercato. È adjunct scholar del Cato Institute di Washington DC. Oggi collabora con The Wall Street Journal Europe e con il supplemento domenicale del Sole 24 Ore. Ha scritto L'intelligenza del denaro. Perché il mercato ha ragione anche quando ha torto (Marsilio, 2013). Twitter: @amingardi.