Privatizzazioni e finanziamento pubblico: “roba loro”, per i partiti

Finanziamento pubblico ai partiti e privatizzazioni: sono due partite in cui il governo Letta gioca contro la sua maggioranza. Luca Ricolfi ha scritto sulla Stampa un articolo impeccabile, spiegando come in realtà il meccanismo del 2 per mille non chiuda affatto i rubinetti alle forze politiche. Piuttosto, cambia le modalità con le quali i fondi verranno ripartiti. Solo su un punto Ricolfi è forse ingeneroso: col 2 per mille, il ruolo del singolo contribuente nel decidere chi finanziare sarebbe decisamente più rilevante, e non è poco. Per questo, la “commedia” sul finanziamento pubblico vede i tesorieri dei partiti denunciare con tutto il fiato che hanno in corpo qualsiasi cambiamento. Ciò che conta, dal loro punto di vista, è il controllo dei flussi. Una cosa è dovere convincere i singoli a finanziarti – direttamente (come sarebbe in assenza di denaro pubblico), o accordandoti una piccola percentuale delle imposte che già hanno pagato. Altra è disporre di risorse incanalate senza sforzo nella direzione dei partiti.

Sulle privatizzazioni, lo scontro è stato più aspro e, tristemente, risolutivo. L’intervista di Bloomberg al Ministro Saccomanni (vedi qui a partire dal minuto 3:35) non era per nulla ambigua. Al G20 Saccomanni ha fatto riferimento a un nuovo piano di dismissioni, non solo immobiliari. Destra e sinistra gli sono saltate alla giugulare utilizzando grosso modo due argomenti. Il primo è che dismettendo oggi le partecipazioni dello Stato si incasserebbe “poco”. Il secondo è che Eni, Enel, Finmeccanica (ma immagino allora anche: Ferrovie dello Stato, Rai, Inail…) servono a fare “politica industriale”.

Rispetto ai valori che sarebbe possibile “spuntare” con le privatizzazioni, per le quotate è più facile fare ipotesi, per le altre partecipate meno, ma in generale perché si abbia un prezzo bisogna che un certo bene in primo luogo venga offerto. Lo Stato italiano avrebbe incassato più quattrini se avesse privatizzato, poniamo, nel 2003 o nel 2004? Può darsi, ma non risulta però che i nostri governanti abbiano a disposizione una macchina del tempo.
Inoltre, se si privatizza per incamerare risorse, è bene che non si privatizzi soltanto per incamerare risorse. Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle per esempio invitano a non vendere in blocco, per perseguire forme di azionariato più frastagliato e plurale delle imprese ex pubbliche, anche rinunciando a un po’ di gettito.

Una critica comune a certe privatizzazioni del passato (per esempio, quella delle Autostrade) è che le necessità di cassa prevalsero sulla volontà di assicurare una buona governance del settore privatizzato (è quello che si intende dire col popolare slogan “prima le liberalizzazioni, poi le privatizzazioni”). Una privatizzazione ha effetti sulla natura del mercato “occupato” dall’impresa “privatizzanda”: deve creare benefici per l’italiano-contribuente ma anche per l’italiano-consumatore.

Circa la politica industriale, chi scrive ritiene che meno se ne fa e meglio è. E tuttavia, gli strumenti a disposizione dei contemporanei “Stati regolatori” sono tali e tanti che onestamente è difficile sostenere che uno Stato non più proprietario sia uno Stato disarmato, rispetto alle sue ambizioni d’indirizzo dell’economia.
Molto semplicemente, l’attacco al vaporoso piano di privatizzazioni del governo si spiega nello stesso modo con cui si spiega l’arrocco sul finanziamento pubblico. I partiti difendono qualcosa che sentono come “roba loro”: roba loro i quattrini che gli assegna la legge, roba loro imprese nelle quali hanno accesso diretto ai piani alti del management, nominano gli organi più significativi, “scambiano” con essi favori grandi e minuti.

Si dice spesso che in Italia i partiti non esistono più: non sono un filtro di selezione della classe dirigente, sono pressoché completamente destrutturati sul piano delle idee e delle proposte, sembrano mandrie senza pastore che brucano denari del contribuente. E tuttavia la “partitocrazia” ancora esiste, e reclama gelosamente la sua “roba”. Quattrini per organizzarsi, un certo grado di occupazione dell’economia per radicare il proprio consenso. L’emergenza economica e la devastante crisi di legittimità delle istituzioni dovrebbe consigliare loro una strategia diversa, meno rigidamente conservatrice? Attenzione, proprio la crisi di legittimità delle istituzioni fa della partitocrazia un animale ferito. Un animale ferito che non pensa ad altro che guadagnarsi un altro respiro.

Alberto Mingardi

Alberto Mingardi (1981) è stato fra i fondatori ed è attualmente direttore dell’Istituto Bruno Leoni, think tank che promuove idee per il libero mercato. È adjunct scholar del Cato Institute di Washington DC. Oggi collabora con The Wall Street Journal Europe e con il supplemento domenicale del Sole 24 Ore. Ha scritto L'intelligenza del denaro. Perché il mercato ha ragione anche quando ha torto (Marsilio, 2013). Twitter: @amingardi.