Un polverone inutile sulla Consob

Quanti paroloni sprecati, quanta drammatizzazione, quanti commenti meritevoli di ben altra causa, suvvia: va bene che la memoria di solito è corta; va bene che siamo in campagna elettorale permanente e ci si schiera su ogni cosa; va bene che in questo Governo di tanti annunci e pochi fatti la confusione regna sovrana. Ma da qui a voler far passare le dimissioni di Mario Nava da presidente della Consob come inevitabile epilogo di un assedio del fronte gialloverde, come titolava venerdì Repubblica, oppure come «un gravissimo salto di qualità nella logica illiberale del populismo al potere» come scriveva in un editoriale sabato Andrea Bonanni sullo stesso quotidiano, mi sembra davvero un’esagerazione. Così come mi sembrano evidenti forzature alcune affermazioni, sempre di Bonanni nell’editoriale di sabato, su cui mi soffermerò più avanti.

E proprio Repubblica dovrebbe saperlo visto che al “caso Nava” ha dedicato in passato ampio spazio critico (e ha fatto bene), a cominciare da un paio di lunghi articoli a firma del suo caporedattore politico Claudio Tito (il 9 febbraio, a pag. 13 e il 30 marzo, a pag. 24) su cui ritornerò tra un momento.

Cosa è successo è noto: Mario Nava si è dimesso giovedì 12 settembre da presidente della Consob perché, come ha scritto in un lungo comunicato, «la richiesta di dimissioni per “sensibilità istituzionale” da parte dei quattro capigruppo di Camera e Senato dei due partiti di maggioranza sono un segnale chiaro e inequivocabile di totale non gradimento politico». E poiché il non gradimento politico, dice ancora Nava, limita l’azione della Consob in quanto la isola, ecco allora che, aggiunge, «responsabilmente, senza alcuna vena polemica, e avendo come unico obiettivo l’interesse più alto dell’Italia, rimetto con dispiacere le mie dimissioni da presidente Consob…certo che il mio sacrificio personale rasserenerà gli animi».

Di questo stralcio del comunicato ci sono almeno un paio di affermazioni di Nava che non mi convincono: quando parla di avere come unico obiettivo l’interesse più alto dell’Italia; quando accenna a un suo sacrificio personale. E spiego subito il perché non prima però di aver ripercorso velocemente le tappe che hanno portato Nava a diventare presidente dell’Autorità.

Il 22 dicembre scorso il Governo Gentiloni designa a capo della Consob Mario Nava, allora alto funzionario della Commissione europea con il ruolo di direttore per il monitoraggio del sistema finanziario e gestione delle crisi presso la direzione generale dedicata ai servizi finanziari. Il 17 gennaio 2018, poi, il Parlamento esprime parere favorevole alla sua nomina.

Manca però, per completare la procedura di nomina, un apposito decreto del Presidente della Repubblica che tarda ad arrivare. Perché? Ecco come Claudio Tito il 9 febbraio ne spiega le ragioni:

«E’ in corso ormai da giorni un vero e proprio braccio di ferro tra il presidente in pectore e l’amministrazione di Palazzo Chigi. Il motivo? Come trasferirsi dal punto di vista amministrativo da Bruxelles a Milano…E la disfida si concentra su due parole: aspettativa o distacco. Le autorità italiane hanno fatto capire al nuovo presidente che la soluzione preferibile, anche per rispondere al requisito di indipendenza della Consob, sarebbe quella dell’aspettativa. Una formula che garantisce una separazione netta tra i due incarichi. Nava invece ha insistito fin dall’inizio per il distacco. Una strada che assicurerebbe qualche vantaggio in più dal punto di vista della carriera. Con il distacco tutti gli scatti di carriera interni alla Commissione europea non verrebbero persi nel periodo (il mandato dura sette anni) trascorso in Italia. Nel Governo e in Consob hanno anche valutato che mantenere lo status di funzionario comunitario comporta qualche vantaggio fiscale. Il tetto di 240mila euro di stipendio previsto dalla legge italiana verrebbe comunque osservato e sarebbe in ogni caso l’organismo italiano a pagarlo ma con una tassazione più bassa rispetto alla nostra (i funzionari europei godono di una tassazione agevolata). Alla fine Nava ha ricevuto la garanzia di poter usufruire dell’ipotesi preferita, quella appunto del distacco».

Eravamo quindi ai primi di febbraio e ancora il vertice della Consob rimaneva vacante perché bisognava trovare il modo per accogliere le richieste di Nava. Passa un altro mese abbondante ma la matassa non si sbroglia, al punto che lo stesso Tito interviene nuovamente, il 30 marzo, per denunciare lo stallo:

«La nomina del nuovo presidente della Consob, Mario Nava, sta assumendo dei caratteri sempre più nebulosi…dopo oltre tre mesi ancora non è entrato formalmente in carica…Il motivo? La richiesta di Nava di essere messo in distacco e non in aspettativa dalla Commissione europea…La sua istanza proprio in questi giorni è stata accolta dall’amministrazione di Bruxelles. Con una piccola ma significativa postilla: il distacco è stato concesso per soli tre anni. Il mandato alla Consob per legge, dura invece sette anni…Le attenzioni allora si stanno concentrando sulla compatibilità del distacco triennale con i sette anni di mandato fissato dalla normativa. Anche perché lo stesso Statuto dei funzionari della Commissione europea prevede una netta distinzione tra distacco e aspettativa. Il rapporto di “dipendenza” viene infatti in larga parte mantenuto proprio per il distacco, la formula scelta da Nava. L’articolo 39 ad esempio stabilisce che il funzionario “durante il periodo di comando, conserva il diritto all’avanzamento di scatto”».

Finalmente ad aprile ci siamo: ogni questione legale relativa alla posizione amministrativa di Nava viene appianata con l’adozione dell’istituto del “distacco”, opzione che gli consente di ricevere futuri incarichi alla Commissione europea, di preservare gli scatti di carriera e ottenere un abbattimento dell’aliquota fiscale del 7 per cento (contro il 40 per cento in Italia) sui 240mila euro di compenso annuo. Così Nava diventa presidente pienamente operativo della Consob. Ruolo che mantiene fino a giovedì quando, nell’imminenza della scadenza del termine che il suo contratto comunitario gli consente per rientrare alla Commissione a ricoprire il posto che aveva lasciato, decide di lasciare perché, come ha scritto, i capigruppo dei partiti di maggioranza ne chiedono le dimissioni.

Ricapitolati i fatti che hanno portato alla nomina di Nava spiego adesso perché un paio di affermazioni contenute nello stralcio della sua lettera di dimissioni sopra ripreso mi lasciano molto perplesso.

Se Nava scrive nel comunicato di avere «come unico obiettivo l’interesse più alto dell’Italia» mi chiedo perché il 23 dicembre 2017, giorno successivo, come ricostruito da  Claudio Tito, alla proposta del Governo Gentiloni di affidargli la presidenza della Consob, non si precipita in Italia, con quella gioia ed entusiasmo di cui parla in altra parte nella lettera di dimissioni, per servire il Paese alla guida di un’Autorità così prestigiosa? Essere chiamati a ricoprire un simile incarico è un onore per chiunque, anche per i professionisti più competenti, prestigiosi, preparati e davvero permette di servire il Paese avendo «come unico obiettivo quello più alto dell’Italia». Tutto il resto dovrebbe passare immediatamente in second’ordine. Compresa la propria futura carriera. Invece Nava apre una trattativa lunga cinque mesi per ottenere condizioni particolarmente vantaggiose per accettare l’incarico. Non è forse anche questa una mancanza di «sensibilità istituzionale»? Va peraltro ricordato che andavano nel frattempo accumulandosi tutta una serie di provvedimenti urgenti da prendere che già a febbraio formavano una lunga lista.

Seconda questione: Nava parla di dimissioni come sacrificio personale.

Sarà un mio limite ma non riesco proprio a scorgere questo “sacrificio” se le dimissioni arrivano giusto in tempo per rientrare a Bruxelles per tornare a ricoprire il prestigioso incarico che aveva prima di approdare alla Consob e per il quale tanto si era battuto affinché riuscisse ad ottenere dalla Commissione europea un “distacco” e non l’aspettativa, con tutte le garanzie che ciò, come sopra spiegato, comportava. Potrei capire il “sacrificio” se si fosse dimesso dopo la scadenza di tale termine, ma prima proprio no. E poi, per dirla tutta, sarebbe opportuno usare la parola sacrificio con molta più accortezza, per questioni molto più importanti e gravose di questa. I veri sacrifici sono decisamente altri.

In realtà ci sarebbe anche una terza perplessità, di ordine più che altro di stile linguistico se vogliamo, che però racchiude una sostanza. Nava scrive sempre nel comunicato di dimissioni: «Sono stato chiamato a presiedere la Consob in quanto esperto autorevole delle norme e dei regolamenti finanziari europei che disciplinano il mercato italiano».

Ora Nava sarà anche un bravo professionista, nessuno lo mette in dubbio. Ma quell’autodefinirsi “autorevole” stona. Lascia che siano gli altri a usare quell’aggettivo così altisonante, verrebbe da dirgli, dì che sei un esperto di lungo corso, dì quello che vuoi ma autorevole no. Così invece traspare una sorta di autoreferenzialità di cui si farebbe volentieri a meno.

Di simili, chiamiamole così, incongruenze, su Repubblica in questi giorni non c’è quasi traccia (tranne un paio di righe venerdì, in un articolo di Andrea Greco a pag. 4, dove si definisce “contropiede” quello di Nava di dimettersi pochi giorni prima della scadenza dei termini per esercitare l’opzione per rientrare a Bruxelles con lo stesso incarico ante-Consob e pasticcio la nomina “in comando” dalla Ue. E poi un altro paio di righe sabato, sempre in un articolo di Andrea Greco a pag. 5, dove si riconosce che Nava si era reso «attaccabile per aver scelto il “comando” anziché l’aspettativa dal precedente incarico nella Commissione Ue, dove tornerà»).

Appena pochi mesi fa il quotidiano tuonava contro i ritardi che si stavano accumulando per la nomina del presidente della Consob, in un frangente peraltro molto delicato nel quale urgeva a tutti costi voltar pagina dopo la ben poco “autorevole” presidenza Vegas. Adesso, pur di attaccare il Governo (che di ragioni fondate per farlo ne offre ogni giorno a iosa) tutto passa in sordina. Non va bene.

Accennavo inoltre in apertura ad alcune forzature che ho ritrovato nell’editoriale di sabato di Andrea Bonanni intitolato niente meno che “L’indipendenza è il peccato”.

Due, nello specifico, quelle a mio avviso, più palesi. Una forzatura per eccesso e una per difetto.

La prima forzatura, quella per eccesso, quando scrive che Di Maio compie uno sfregio ai principi democratici quando, tra le altre cose, dichiara di voler nominare al vertice della Consob «un servitore dello Stato e non della finanza internazionale», perché la suddetta nomina spetta al presidente della Repubblica e non al Governo. Uno sfregio? Che parola grossa, spropositata, eccessiva.

E’ vero che il Capo dello Stato con un apposito decreto formalmente nomina il presidente della Consob ma è anche vero che è il Governo che si attiva per sceglierlo, come ha fatto il Governo Gentiloni con Nava e come ha ben ricostruito il 9 febbraio Claudio Tito: «La designazione di entrambi (Mario Nava alla presidenza e Paolo Ciocca commissario, ndr) da parte del Governo è avvenuta lo scorso 22 dicembre. Il 17 gennaio scorso il Parlamento ha espresso il parere favorevole. Per completare la procedura il consiglio dei ministri dovrebbe procedere alla formulazione della proposta di nomina ufficiale da portare al Quirinale per il decreto presidenziale che spetta al Capo dello Stato».

Allora anche Tito fa in qualche modo uno “sfregio” ai principi democratici dimostrando di ignorare quale sia la procedura di nomina del presidente della Consob?

Inoltre, se non fosse stato anche il Governo attivo protagonista della nomina del presidente, perché Nava avrebbe dovuto ringraziare in coda alla sua lettera di dimissioni, insieme al Capo dello Stato Mattarella anche il Ministro Padoan e il Presidente Gentiloni per la fiducia riposta in lui?

La seconda è una forzatura che definirei invece per “difetto” vista la nonchalance con cui viene liquidata una questione enorme, anzi la questione centrale come quella del “distacco” di Nava dalla Commissione europea: «Formalmente il M5S ha sollevato la questione della sua compatibilità nell’incarico perché l’alto dirigente è stato semplicemente distaccato dalla Commissione europea e non si è dimesso dall’organico dell’esecutivo comunitario. La motivazione è chiaramente pretestuosa».

Semplicemente? Ma si, un nonnulla, una motivazione chiaramente pretestuosa. E meno male che, come ricordato poco fa, almeno su questo punto Repubblica nello stesso giorno, con Andrea Greco, ha avuto il coraggio di riconoscere che Nava si era reso attaccabile da solo per aver scelto il “comando” e non l’aspettativa.

In coda all’articolo di Bonanni, sempre nella stessa pagina (25) c’è un comunicato del cdr di Repubblica in cui si paventano tagli. A un certo punto si legge: «Nel momento in cui Repubblica è sotto attacco da parte della maggioranza di governo, i giornalisti esigono dall’azienda che si mettano in campo tutti gli strumenti e i comportamenti necessari per difendere il giornale, per proteggerne l’autorevolezza e la libertà, per tutelare la comunità dei lettori».

Personalmente ritengo che l’autorevolezza si protegga innanzitutto con l’obiettività e la completezza di informazione. Le stesse che, francamente, nel modo in cui sono state trattate le dimissioni del presidente della Consob, ho fatto parecchia fatica a ravvisare.

 

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com