Sotto il vestito, Kondo

Da un lato c’è Marie Kondo. Avete presente, quella che dice che per mettere in ordine in realtà dovete buttare via tutto tranne che le tre o quattro cose che vi danno felicità, che poi per sistemarle ci mettete cinque minuti. Ecco, lei è su Netflix oltre che in libreria  (e se non mi viene l’ulcera ogni volta che la vedo poco ci manca: il pensiero magico del riordino… brrr) ma, al di là della considerazione che l’occidente sta prendendo le filosofie asiatiche sul riordino nella versione del misticismo finto-zen “metti la cera, togli la cera” di Karate Kid, è anche vero che a quanto pare in California ed altre parti degli Usa i mercatini delle pulci e i robivecchi non sono mai stati così strapieni di cose.

Now that the entire world seems to know about Kondo’s “only keep things that spark joy” method, Bay Area thrift stores are struggling to deal with the amount of un-joyful donations they have received. One such store, the Hospice Thrift Shoppe, has begun limiting when people can drop off items, as well as how much they can donate.

Più che effetto Marie Kondo, è l’idea che si possa vivere leggeri. Come dice un meme attribuito al Buddha: “Se vuoi volare rinuncia a tutto ciò che ti pesa”.

Dall’altro lato c’è Uniqlo, l’altra catena di abbigliamento e oggettistica giapponese super-economica dopo Muji che alla fine dell’anno sbarca in Italia (a Milano). Uniqlo è l’ultima mania negli Usa, e ha sostituito nel cuore dei millennial e dei digitali sia Gap che le varie H&M e Zara (che hanno ispirato, nel nostro piccolo italiano, ad esempio l’attuale Oviesse). Ma in generale il settore, sia negli Usa che nel resto del mondo, è saturo e in calo. Voglio dire, per uno come me che è venuto su negli anni Ottanta e ha visto esplodere i marchi di abbigliamento soprattutto americani (Levi’s, Nike) e poi lo streetwear (che tra parentesi è una cosa diversa dall’urbanwear) e quindi l’abbigliamento tecnico per la città come Eastpack, Patagonia e The North Face, oggi non c’è più storia. Non è utilitarismo o minimalismo: è che alla gente dei marchi sui vestiti comincia a fregargliene sempre meno. Eppure il narcisismo impera. Cosa succede?

Ecco il tarlo che mi gira nel cervello: stiamo lasciando la gratificazione personale che deriva dagli oggetti che ci fanno riconoscere e la stiamo portando suo social. La stiamo trasformando, virtualizzando, digitalizzando attraverso i like, le condivisioni e la customizzazione degli ambienti virtuali (lo sfondo e lo status di WhatsApp, il wallpaper del Pc, le icone e gli sfondi del telefonino). Il nostro bisogno di rappresentarci e di esprimerci adesso è soddisfatto dalla plastilina digitale e non c’è più bisogno di calcare la mano con i vestiti, indossando marchi o – soprattutto – comprandone a ripetizione, magari spendendoci pure un sacco di soldi.

((Questo è un estratto della mia newsletter [Mostly, I Write ~ Newsletter] a sua volta figlia del mio canale Telegram di notizie e segnalazioni: Mostly, I Write.))

Antonio Dini

Giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Scrive di tecnologia e ama volare, se deve anche in economica. Ha un blog dal 2002: Il Posto di Antonio