Si può rifiutare il progresso?

Luigi Caricato è un appassionato e competente oleologo, nonché scrittore e giornalista, ideatore e direttore dal 2012 a tutt’oggi, del più grande e autorevole happening al mondo dedicato ai condimenti: Olio Officina Festival. Caricato è anche editore e pubblica libri e riviste dedicati perlopiù all’olivo e all’olio in chiave popolare e divulgativa. Abbiamo fatto due chiacchiere.

 Mi racconti quali sono le potenzialità della nostra olivicoltura?
La sola espressione “potenzialità” rappresenta in sé un puro atto di violenza, quanto meno in Italia.

Ahia! Spiega
Anche se per molti versi sarebbe una salutare provocazione associare una parola così promettente di futuro ad un’altra tanto desueta quanto poco in uso tra la gente comune, qual è appunto la voce “olivicoltura”. Dire potenzialità è un po’ come mettere il dito nella piaga, girandolo e rigirandolo con forza, mentre si chiede al malcapitato se avverte un poco di dolore, ignorando volutamente urla, smorfie e spasimi per la sofferenza.

Cioè, dici che il settore è vittima del bel tempo che fu?
Ogni volta che partecipo a convegni sul tema penso sempre a quanto ho letto sui giornali di settore nei decenni passati. Si parlava ieri come oggi, e come se ne parlerà domani, di potenzialità ignorando il significato e il senso profondo di un’altra parola: “responsabilità”. L’Italia ignora le proprie colpe per non aver riconosciuto quelle potenzialità che avrebbero fatto dell’Italia olivicola e olearia quel grande Paese che è stato in passato, tra fine Ottocento e prima metà del Novecento.

Che è successo dopo?
Ultimo scatto di orgoglio subito dopo il secondo dopoguerra, poi si è assistito a una lenta decadenza, finora inarrestabile.

Come mai?
L’alto tasso di abbandono degli oliveti, il fallimento sul piano economico perché non si è accettata l’idea di innovare, il rifiuto ostinato della modernità nel contrapporre una olivicoltura vetusta ritenuta inviolabile a una olivicoltura moderna e razionale, con oliveti ad alta densità e pertanto più efficienti ed economicamente sostenibili, ci consegnano un’Italia che non riconosce il significato e la portata di una parola così ricca di prospettive qual è “potenzialità”. Permettimi un aneddoto.

Vai.
Qualche anno fa – la mia memoria non trattiene le date, non ricordo con esattezza quando – andai in missione in Catalogna, unico giornalista insieme con tanti accademici italiani membri del SOI, la Società di Ortofrutticoltura Italiana, a visitare alcune realtà produttive, tra cui il vivaio più importante al mondo in tema di olivi, oltre ad alcuni enti di ricerca, tutti all’avanguardia. Erano come bambini colti dallo stupore tipico infantile che si traduce in quella radiosa bocca aperta con cui si esprime il senso di meraviglia per qualcosa di mai visto prima.

Avevate visto la luce?
Ricordo che la sera in albergo ci raccontavamo le nostre impressioni, e tutti erano consapevoli della pesante arretratezza del settore olivicolo italiano. Io facevo da motivatore: suvvia, rialziamoci, eravamo i primi della classe, la tecnologia in campo per gli olivi ad alta densità l’abbiamo ideata noi, loro l’hanno solo messa in atto, possiamo farcela, andiamo dal ministro e parliamone, dobbiamo reagire. Non si fece nulla, inascoltato. Perché alla parola potenzialità oggi si contrappone quella forse più seducente di “tradizione”, inclini a rincorrere l’immagine dell’olivo come era una volta, ignorando il fatto che nel frattempo tutti ci evolviamo, abbiamo lo smartphone al seguito, e ogni altra tecnologia utile al nostro benessere, ma rifiutiamo il progresso in olivicoltura. E intanto abbiamo chiuso i centri di ricerca di olivicoltura, troppo stanchi per reggere il peso delle tante glorie di un passato che non c’è più.

Allora affrontiamo qualche elemento tecnico? Prima di tutto, che cosa è un oliveto a bassa e alta intensità, che differenze?
Tutto si basa sul numero di piante presenti in un oliveto. Da qui la bassa o alta densità di olivi presenti su un ettaro, ovvero su dieci mila metri quadrati di superficie. Intanto c’è da riconoscere un prima e un dopo.

Andiamo col prima…
Il prima comprende un periodo di tempo estremamente esteso, da quando l’olivo è stato domesticato fino, all’incirca, alla prima metà del 1800. È soprattutto a partire dalla seconda metà del XIX secolo che si può parlare di olivicoltura così come la si intende oggi, ma non basta.

Perché?
Perché anche una pianta si evolve e si adatta all’ambiente, di conseguenza cambiano pure i criteri di coltivazione. Tanto per farci un’idea, ai tempi di Cartagine, nell’ultimo secolo a. C., vi erano da 25 a 64 piante per ettaro, per una distanza tra gli alberi di circa 13 metri l’uno dall’altro.

E infatti ci si passeggiava sotto.
Nel periodo romano antico questa distanza si era via via ridotta, da 12 metri fino ad arrivare a 7,5 metri. In un oliveto potevano esserci anche 120, o addirittura 170 piante, in base ai sesti di impianto adottati. Ancora oggi gli oliveti vetusti conservano le enormi distanze degli alberi di un tempo, ma si tratta perlopiù di oliveti marginali e spesso anche mal curati.

Ora siamo arrivati a un sistema più intensivo, no?
Negli ultimi decenni si è arrivati a un sistema più intensivo di coltivazione, adottando una distanza di 5 metri per 5, o di 6 x 6, per una presenza di circa 400 piante a ettaro. Ecco, da qui al super intensivo il passo è stato breve.

A quanto arriviamo?
In un ettaro ci vanno addirittura 1700 olivi.

Ok, che differenze ci sono tra i vari modelli?
L’alta densità comporta una razionalizzazione della coltivazione. I vantaggi sono tanti. Intanto una maggiore efficienza produttiva e qualitativa è garantita. Tutto ciò ha portato a un miglioramento genetico delle piante. Ora sono tutte a bassa vigoria, meno vegetazione fogliare e più frutto. Il conseguimento di tecniche colturali più sostenibili è un’altra conseguenza. Senza trascurare il fatto che un’alta meccanizzazione comporta da un lato una sensibile riduzione dei costi, dall’altro un’assenza di rischi, azzerando del tutto gli incidenti mortali e le gravi infermità che ogni anno vedono vittime tanti operatori ancora oggi. Si può rifiutare il progresso?

In agricoltura il progresso dai media generalisti non è ben accetto.
Se accettiamo lo smartphone con tutti i suoi vantaggi non possiamo rifiutare l’equivalente in agricoltura. Porto un esempio di concretezza: in due ore si raccolgono le olive di due ettari, con una macchina che scavalca le piante, mentre con uno scuotitore dei tronchi, che pure è un sistema vantaggioso, si impiegano ben 18 ore, mentre con la raccolta a mano con gli agevolatori ci vogliono giorni. Non è soltanto un guadagno in termini di tempo e di riduzione di costi e rischi, ma un guadagno in qualità.

Spiega…
L’oliva non deve proseguire nella sua piena maturazione, altrimenti si ottengono oli meno buoni. Più la buccia dell’oliva è verde, o di color violaceo ma verde nella polpa, più l’olio che si estrae è migliore per qualità sensoriale e nutrizionale. Quando facciamo una analisi chimico-fisica dell’olio – proprio come facciamo noi quando viene esaminato il nostro sangue e gli umori – se il frutto dell’olivo è sano e integro, i risultati non deludono le aspettative. Dobbiamo avere cura delle piante e adottare sistemi sempre più efficienti ed efficaci.

Quindi ritieni che c’è una sola via per una buona coltivazione?
Io non sono un paladino dell’alta densità in contrasto con l’olivicoltura tradizionale, ma ritengo che si debba adottare volta per volta, per ciascun contesto produttivo, il modello più adeguato e razionale, lasciando da parte gli atteggiamenti ideologici che negano e impediscono di accogliere il progresso scientifico.

Mi fai degli esempi, che intendi quando dici volta per volta?
Nei luoghi in cui vi è una olivicoltura collinare o d’alta quota, fondamentale per la manutenzione di un territorio altrimenti incoltivabile, si adottano i sistemi più confacenti, ma là dove è possibile un’alta densità occorre fare la propria parte. Non è accettabile la pretestuosa contrapposizione tra bassa e alta densità.  Un tempo vi era una olivicoltura marginale e non specializzata. Vi era la consociazione con altre piante, in modo da poter disporre di quanto necessario per nutrirsi e vivere. Vi era anche l’idea di piantare olivi in terreni poveri e scoscesi, là dove altre colture non erano possibili. L’olivo era una coltura di ripiego.

In fondo è una pianta rustica, almeno così la si definiva un tempo
Sì, ci si basava sul fatto che essendo una pianta rustica si adattava in qualsiasi contesto e comunque dava comunque i suoi frutti, talvolta pochi, talvolta tanti, senza curare la pianta, senza nutrirla, senza darle da bere. Si potava quando non si poteva fare a meno, si sopportavano pochi costi e quel che arrivava era un dono. Ci si accontentava.

Poi…?
Poi ci si è accorti che così come per la vite, per ottenere il meglio, occorre anche far qualcosa. Il miglior vino si ottiene con le migliori cure al terreno e alle piante, con investimenti appropriati, non con la casualità. È diventato pertanto necessario e fondamentale saper individuare e scegliere i migliori terreni e i contesti più favorevoli, avvalersi dell’agronomo e comunque di tecnici esperti, anche di oleologi. Perché la natura se la si lascia a se stessa ci porta indietro, all’olivo selvatico. È per questo che oggi per avere una olivicoltura che sia al passo con i tempi occorre viaggiare di pari passo con il progresso.

Va bene, perché allora è così difficile, in Italia far passare questi concetti?
In molti in Italia si arroccano invece su un concetto di tradizione perverso. La tradizione va creata e inventata di volta in volta, non si può pensare di replicare il passato all’infinito. Tutto cambia. C’è un esempio che mi sembra significativo: in Spagna la varietà Arbosana era quasi sconosciuta ai più, perché stava scomparendo in quanto ritenuta poco utile dagli olivicoltori, oggi, con una nuova e aggiornata visione olivicola, è diventata la seconda varietà più diffusa al mondo.

L’Italia ha molte cultivar…
L’Italia vanta 538 cultivar… Bene, molte di esse restano solo censite, presenti in pochi esemplari, ma non hanno una presenza attiva. Sicuramente tra tanta biodiversità ci saranno cultivar di olivi che meglio si adattano alle esigenze di una olivicoltura proiettata verso il futuro. Non possiamo rinunciare al domani inseguendo in modo anacronistico il passato.

Allora torniamo all’inizio, alle potenzialità, secondo te, quali regioni potrebbero adottare l’intensivo o il super intensivo, e ci sono cultivar promettenti, in via di sperimentazione?
La coltivazione intensiva si adatta perlopiù a quasi tutti gli ambienti, pertanto in gran parte dell’Italia. Ovviamente è bene individuare soprattutto le aree più vocate e fertili, oltre alle cultivar di olivo più idonee.

Quindi escludiamo l’osso, per dirla alla Rossi Doria…
Sì, sono da escludere senza dubbio le zone montane e quelle collinari più impervie, ma anche qui si può agire creando un modello intermedio. In ogni caso, c’è da considerare che la Puglia nonostante gli effetti nefasti della Xylella rimane comunque la regione in cui si coltiva un terzo dell’oliveto italiano. Ebbene, questa sì che rappresenterebbe il luogo ideale per coltivazioni ad alta densità. Poi, non dimentichiamo che l’80% dell’olio in Italia si produce nel sud. Vi sarebbero nuovi areali produttivi.

Quali sarebbero?
Oggi perfino a Bolzano vi sono oliveti, il clima cambia, occorre adattarsi. C’è tuttavia molto da fare, dal momento che i tre quarti dell’olivicoltura nazionale resta di tipo tradizionale, con una presenza inferiore a 200 alberi per ettaro. La ragione del declino italiano sta proprio qui. Abbiamo costi di produzione elevati, superiori a 5,7 euro per kg d’olio, con produzioni peraltro alquanto esigue, inferiori a 0,6 tonnellate per ettaro, quindi di fatto non esiste la necessaria remunerazione per chi lavora. Meno del 5% delle aziende è professionale, prevale l’impegno hobbistico. Non ci si avvale di tecnici esperti, si va a caso, per sentito dire.

Conseguenze?
Le conseguenze sono il progressivo stato di abbandono della coltivazione. Non abbiamo altra scelta, o si innova o si chiude. Si dovrà puntare perlomeno a una quota di 600 olivi per ettaro, altrimenti è la fine. Non tornano i conti. Senza un’opera di rinnovamento siamo spacciati. Tranne che non si voglia puntare a un’olivicoltura paesaggistica, ma in tal caso chi sopporterebbe i costi di una coltivazione in perdita?

Ci puoi girare dei film, la Puglia commissione li finanzia…
Si lascia tutto alla natura, senza potare, senza nutrire e abbeverare il suolo? Io non ho alcun interesse economico nel sostenere il cambio di passo, ma è evidente che non puntando a una olivicoltura da reddito si può solo mettere la parola fine. The end. Sarebbe auspicabile mirare al superintensivo, ma non inseguendo modelli esteri, studiando un sistema che tenga conto della struttura del nostro Paese.

Spiega, che significa superintensivo?
Una densità superiore a 1200 piante sarebbe un buon punto di arrivo, per le aziende professionali, ma quel che occorre più di tutto e prima di tutto è mettere in atto un cambiamento di mentalità, ma qualcosa di radicale, non servono mezze misure. Gli italiani si sono evoluti sul fronte della frutticoltura e della viticoltura, non sono incapaci.

Perché è diverso con l’olivo?
Con l’olivo proprio non riusciamo a trovare il coraggio. Tranne i pochi imprenditori virtuosi che investono con coraggio ma nello stesso tempo in silenzio, per non essere dileggiati. Perché chi coltiva olivi ad alta densità viene ritenuto un traditore dell’olivicoltura ancorata alla tradizione: l’olivo come una volta, quasi a invocare l’olivo prima della sua avvenuta domesticazione.

Motivi?
C’è una ragione, in tutto ciò, in questo ostinato rifiuto della modernità. L’olivo è sempre stato ritenuto marginale, lo si è sempre coltivato su terreni poveri e scoscesi, là dove non era possibile coltivare altro. Essendo una pianta rustica che non necessita di molte cure, è sempre piaciuta l’idea di ottenere i frutti quando la pianta è disposta a darceli. L’importante era avere l’olio per l’autoconsumo, e così ci si è lasciati andare: quel che viene viene, perché chiedere di più? Oggi gli altri Paesi, anche quelli extra mediterranei, si muovono con grande determinazione, piantano olivi ovunque. Si sta cercando di reagire, ma è troppo complicato, perché un’ondata irrazionale di sovranismo ci porta a rifiutare cultivar che non siano italiane.

Sovranismo dici?
Sì, un paradosso, a tutti gli effetti, anche perché tanti vini italianissimi sono ottenuti da vitigni internazionali: Chardonnay, Merlot, Cabernet Sauvignon… Non si comprende l’ostilità verso le varietà di olivo perlopiù spagnole, di cui abbiamo invece la certezza dei buoni esiti in campo, con l’alta densità. Non ci si può lamentare. In fondo, se per tanti decenni non abbiamo fatto nulla gli altri nel frattempo si sono mossi bene, ottenendo risultati appaganti. C’è ancora tempo per non sprofondare del tutto. Per fortuna abbiamo capito l’errore, ci stiamo muovendo per superare quanto meno lo stato di inedia in cui siamo precipitati. Si stanno studiando perfino nuove possibili varietà. Alcuni genotipi si stanno rivelando adatti. Occorre però muoversi. In fretta. Per non arrivare ultimi.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.