Uno bravo con la polvere

Roberto Alajmo deve avere un malo carattere. Me ne sono accorto una volta che ero dentro al cinema Aurora e guardavo un documentario sulla gestualità dei siciliani. Sulle poltrone accanto alla mia c’era tutta questa gente che rideva e si compiaceva per come venivamo fuori da quel film, e vabbè, pure io ridevo. Mi specchiavo dentro a uno schermo che come un parrino mi assolveva da tutti i miei difetti, e anzi mi diceva che non c’era manco bisogno di confessarmi, perché tanto erano difetti simpatici, stavano a significare calore, ospitalità, estroversione, e tutta una serie di minchiate che si presume sempre siano caratteristica precipua dei siciliani. O forse di tutti gli isolani. O forse, ancora più in generale, di chiunque viva in condizioni di palese arretratezza e che per tanto si suppone ancora in contatto con valori primitivi, legati a un mondo quasi estinto, sopravvissuto solo in località remote, come appunto la Sicilia.

Intorno a me si stava producendo questo idillio simbiotico tra rappresentazione e rappresentati: mano a mano che aderivamo allo stereotipo, le poltrone si adattavano meglio alla forma del sedere, diventavano sempre più morbide, sempre più comode, fino a quando a un certo punto dentro alle poltrone c’eravamo sprofondati, ci avevano inghiottito, erano diventate una tomba, un divano di Baudelaire. Le battute del film, più dolci che sapide, erano tutto un picco glicemico: rilassavano, rammollivano, inducevano a una sonnolenza satolla, di tipo postprandiale. Io pensavo che quel documentario era brutto, ma brutto assai, e oltre a essere brutto ci stava facendo indigestione, a tutti, e, come a certi pranzi di matrimonio che non finiscono mai, mi è venuta voglia di alzarmi dal tavolo e muovere le gambe.

Invece sullo schermo è comparso Roberto Alajmo e allora ho detto aspetta, dove stai andando? proprio ora che stanno servendo l’amaro e ti puoi levare questo sapore dalla bocca? rimettiti seduto. Perché pure lui era seduto. Lo intervistavano così, mentre stava un po’ in panciolle su una sdraio, con le ciabatte ai piedi, i pantaloncini corti e una maglietta che sembrava se la fosse messa addosso un attimo prima. Vederlo comparire è stato come bere la citrosidina Brioschi tutto d’un fiato e urlare arrivano i nostri con un rutto. Avendo letto L’arte di annacarsi Palermo è una cipolla, sentivo che stava per consumarsi la mia vendetta: eh, caro regista, mi dispiace, ora sono fatti tuoi, Roberto Alajmo quando parla dei luoghi comuni sulla Sicilia lo sa di cosa parla, quindi non lo so se a te – che eri in vena di oleografie – ti è convenuto andarlo a sconcicare fino a casa sua mentre si stava riposando. Quelli sono due libri che con i luoghi comuni sulla Sicilia ci fanno i conti.

Fare i conti col posto dove abiti è difficile: ti viene sempre di ritoccare le cifre per andarci a guadagno (oppure per mandare tutto a bancarotta e poi andarci a guadagno). Invece i conti di Roberto Alajmo sono a somma zero: il piacere di leggerlo non sta tanto nel vedere che risultato trova, ma nell’osservarlo mentre fa le operazioni con la matita dietro l’orecchio e la visiera da ragioniere in testa. Un’attività che deve avere a che fare con la narrativa: il lettore di Palermo è una cipolla piglia certe sbandate, si sente malsicuro, inquieto, prima ride, poi si preoccupa, poi si sente preso in giro, poi si fa domande, si chiarisce certe cose e si confonde su altre, la mafia, l’antimafia, il traffico, il caffè (che si deve bere quando è così bollente che brucia le labbra perché altrimenti significa che te l’hanno fatto male e quel bar non è buono), i tic, le idiosincrasie, le riprese dal vero di una città che si mette sempre in posa e non la puoi sorprendere manco se gli fai le foto di nascosto.

E allora valla a sbrogliare la matassa dei luoghi comuni che si raccontano sui siciliani e a cui i siciliani per primi credono. Insomma, Roberto Alajmo non lo puoi infilare dentro a quel documentario senza che lui non te lo faccia saltare dall’interno.

Ispirare simpatia con un malo carattere non deve essere facile. E infatti io penso che Roberto Alajmo sia bravo a fare sembrare una babbìata certe cose che altri non si possono neanche sognare, e che insomma possieda la sprezzatura, quella del Cortegiano.

Se oltre al malo carattere non c’hai  anche  la sprezzatura, è meglio se tenerezza e nostalgia le lasci perdere: un libro come Il primo amore non si scorda mai, anche volendo devi proprio evitare di scriverlo, altrimenti corri il rischio di sembrare Carlo Conti che legge gli sms del pubblico a I migliori anni.

Il primo amore non si scorda mai, anche volendo è più o meno il memoriale intimo di un consumatore bambino. Ogni capitolo fa un po’ storia a sé, però sempre dentro a un telaio: diciamo che è un piolo di quella scala che uno sale senza neanche accorgersene quando passa dall’infanzia all’adolescenza.

Dalla lettura mattutina che faccio di Penultim’ora, il suo blog, sospetto che Roberto Alajmo si sia aiutato con un ripasso: ha un figlio che sta per diventare adolescente, quindi magari quella fase di passaggio ce l’ha sotto agli occhi, e forse per questo è riuscito a scorrerla così bene al microscopio, e a trovare quegli snodi, quegli incroci non segnalati, di cui è impossibile indovinare la destinazione nel momento in cui li si attraversa. Come per esempio un amico tuo che un giorno trova il coraggio di scavalcare un muretto che sembra la siepe dell’Infinitoe che fino al giorno prima nessuno mai si era sentito abbastanza ardito da oltrepassare:

«La campagna oltre il muretto non è tanto che faccia paura. Un po’ sì, ma suscita soprattutto curiosità. Si dice che ci abiti una tribù di zingari, o che vadano a spartirsi il bottino dei malviventi, come li chiama il telegiornale. Quando ne parlate tra voi, c’è sempre qualcuno disposto ad aggiungere qualche dettaglio raccapricciante che l’ultima volta non c’era. Ma la verità è che di quella campagna nessuno ne sa niente. Di tanto in tanto vi ripromettete di scavalcare il muro, ma in cima è coperto da cocci di vetro che rappresentano un ottimo motivo per rinviare ogni volta. Però un giorno accade. […] Quello ricompare, scavalcando con semplicità e tornando da voi senza danni apparenti, solo pulendosi le mani sui pantaloni. Gianni Cirafici vi ha appena dato una lezione e non avete diritto a fare domande. Non subito, almeno. C’è un lungo momento durante il quale sperate che lui voglia dire qualcosa spontaneamente, risparmiandovi altre smanie. Ma niente. Nessuno sconto. Vi guarda uno per uno, e poi tutti assieme, senza aprire bocca».

Oppure un viaggio in autobus dal centro alla periferia della città per cercare (senza trovarle) un paio di scarpe della misura giusta a un compagno di giochi gigantesco:

«Il viaggio di ritorno verso via Carducci è caratterizzato da una silenziosa malinconia. Arrivati, vi salutate senza commenti. Ognuno di voi sente bruciare la delusione, ma non può ammettere di avere sprecato una giornata. E poi avete visto il famoso quartiere Zen, se non altro. Finirà che la madre di Polifemo le scarpe numero quarantanove le farà fare apposta da un calzolaio. Due paia, in crescita, ché alla vostra età non si sa mai».

Memorie come queste sono private fino a un certo punto. Così, a fare da intermezzo, Roberto Alajmo ci innesta sopra i repertori (dei giocattoli, dei giornalini e dei cartoni animati, delle robe da mangiare, del calcio e dei calciatori), cioè elenchi ragionati di tutti quei beni che concorsero a formare l’immaginario ludico-consumista della Carosello generation. Da liste di questo genere uno si aspetta sempre l’innesco per l’effetto bei tempi, e invece a scorrere queste ti accorgi che è il contrario: l’asciuttezza con cui sono compilate bilancia il tono epico-ironico degli episodi d’infanzia, e più che gli elenchi sentimentali di Fazio e Saviano vengono in mente gli inventari meticolosi di un ferramenta. Il fatto, poi, che siano suddivise per categoria merceologica sembra un tentativo di tirarne fuori l’oggettività storiografica, farne una sorta di prova testimoniale che chiami in correità il lettore e lo renda definitivamente complice. Infatti il libro è tutto in seconda persona, a volte singolare (tu) e più spesso plurale (voi ).

Roberto Alajmo la seconda persona la usa anche in altri libri. Io una volta ho tradotto un’intervista a Rick Moody (Col pianoforte ero un disastro) in cui il grande scrittore americano sosteneva che la seconda persona è un trucchetto da bottega. Sarà che a me le botteghe piacciono più degli atelier, però mi pare che il tu e il voi qua non siano un espediente, ma una specie di attrezzo gnoseologico: la birillatrice per estrarre il succo del collettivo dal biografismo del ricordo.

Sempre a proposito di botteghe, secondo me Roberto Alajmo le memorie non le tiene in soffitta, ma nel garage.

Quando ho letto 1982 memorie di un giovane vecchio, che è un po’ l’esperimento preparatorio di quest’ultimo libro, non m’è venuto di immaginarmelo come lo scrittore romantico, che in un malinconico giorno di pioggia autunnale sale in un sottotetto e soffia via la polvere da un baule pieno di cimeli, ma come uno di quei tizi che capita di vedere affaccendati dentro a un garage, dove tutto è in ordine sugli scaffali e i soppalchi, e c’è sempre una specie di bancone lungo su cui pulire, avvitare, oliare, esercitare l’arte della manutenzione. Quelli col malo carattere, se si occupano degli oggetti sopravvissuti al passato non è per crogiolarsi nella nostalgia, ma per tenerli in funzione, verificare che siano sempre pronti per l’uso. In garage non è come in soffitta: non si tratta di spolverare il desueto, ma di manutenere l’utilizzabile. La bravura con la polvere consiste più nell’evitare che si depositi che nel rimuoverla, e infatti il libro, pur parlando di anni lontani, è scritto tutto al presente indicativo: così magari il giorno del 2013 in cui guardi tuo figlio e ti sembra che in una sola notte sia diventato un’altra persona, puoi scendere in garage e tirare giù dal soppalco la giornata del 1968 che ti serve per capire questa, sicuro che niente si sia ossidato e tutti i meccanismi funzionino ancora alla perfezione.

Comunque la trasmissione di Fabio Fazio in qualche modo con questo libro qualcosa c’entra, perché quel programma lo scrisse Francesco Piccolo, e a tratti Il primo amore non si scorda mai, anche volendo sembra una specie di Momenti di trascurabile felicitàperò virato seppia e centrato sull’infanzia. Per esempio in questo punto, il mio preferito, dove le croste alle ginocchia diventano una specie di correlativo oggettivo:

«In una prima fase le studi, perché sai, ti hanno insegnato, che le croste non si toccano. Ma non dura. Rimani affascinato da quello spessore che allo stesso tempo ti appartiene e non ti appartiene. Sei tu e non sei tu. Prima o poi la crosta è destinata a cadere e perdersi, come i capelli quando vai dal barbiere o le unghie che ti tagli (quelle che ti mangi no, rimangono a mutare nel tuo stomaco e almeno in percentuale torneranno a essere parte di te) […] Se provi ti accorgi che riesci persino a infilarci sotto un’unghia o quel che rimane dopo la scorpacciata che ne hai fatto. Ma basta: l’unghietta si è insinuata. Lei sa cosa c’è sotto. E per suo tramite pure tu immagini la superficie di pelle nuova che si è formata sotto la crosta di sangue. Basta provare a muovere l’unghia per far muovere anche la crosta, che ormai è matura, pronta a staccarsi da sola. Ti viene voglia di dare una mano al corso della natura. Oltretutto quella crosta alle ginocchia è un fastidioso retaggio da bambini. I grandi mica ce le hanno. E allora fai una cosa che assolutamente la mamma proibisce: fai leva.

Francesco Piccolo non ha l’aria di uno col malo carattere, però la sua scrittura e quella di Roberto Alajmo si somigliano lo stesso. Nella prefazione che scrisse qualche anno fa per la ristampa di un suo vecchio libro (Scrivere è un tic) c’era una riga in cui definiva la sua:

«Una lingua saggistico-narrativa che vado esplorando da anni, e che è la ragione per cui scrivo».

Ecco, secondo me anche Roberto Alajmo scrive con quella stessa lingua, e tutti e due scrivono libri meticci, dove c’è sempre l’autore in persona (o un suo alter ego) coinvolto a vario titolo nella narrazione, e ogni volta che ti sembra voglia mettere a fuoco se stesso come personaggio, in realtà ti accorgi che a essere in primo piano è il contesto. Oppure viceversa. Ecco perché non sai mai se stai leggendo un romanzo che sembra un saggio o un saggio che sembra un romanzo. La conferma è che la trama quasi mai è basata su una storia nel senso tradizionale del termine: per esempio, nel caso di Roberto Alajmo, spesso è una storia successa per davvero.

Questo l’ho sentito dire a lui, una sera di settembre all’eremo di Avola antica. Lo disse di fretta perché quella sera giocava il Palermo contro l’Inter (e mi sa che lui tifava l’Inter – sempre perché ci vuole un gran malo carattere per tifare l’Inter a Palermo), la presentazione stava andando per le lunghe e lui voleva andarsi a vedere la partita. Disse che è quasi una cosa immorale inventarsi una storia, e lo è ancora di più in Sicilia, dove sono successe e succedono continuamente cose vere che meritano di essere raccontate più di quelle finte, e che la letteratura serve a riempire quel piccolo interstizio, quella fessura che sempre si forma tra l’accadimento e la sua esposizione per iscritto: ecco, se uno ci pensa bene, questo fatto di mettersi a intuppare i puttusi con la manicola e la quacina è una cosa molto umile da dire, specie per uno che ha un malo carattere. E invece lui oltre a dirlo lo fa. Però non con la manicola e la quacina, ma con la spatola e lo stucco, perché la sua è una lingua spalmata così bene che la fessura non si vede più, nemmeno ci si immagina che sia mai esistita. Oltretutto lo fa da un bel po’ di tempo, e infatti un’altra delle cose che è bravo a fare con sprezzatura è anticipare. Per esempio ha scritto Limonov un anno prima che uscisse Limonov.

Il libro si chiamava Tempo niente ed era la biografia del magistrato Luca Crescente, morto di troppa dedizione al lavoro. Come Limonov e prima di Limonov, oltre a essere la biografia di un personaggio reale, era anche un romanzo su uno scrittore che scriveva una biografia. Va bene, Eduard Veniaminovich Savenko detto Limonov è un vivente, mentre Luca Crescente purtroppo non lo è più, però è anche vero che Limonov è un fango e Luca Crescente invece era il classico bravo picciotto. Forse è per questo che quello di Alajmo un anno fa non è diventato il libro dell’anno e quello di Carrère sì: alla gente i fanghi gli piacciono più dei bravi picciotti. Com’è che invece gli scrittori col malo carattere gli piacciono meno?

Mario Fillioley

Ho tradotto libri dall'inglese in italiano. Poi ho insegnato italiano agli americani. Poi non c'ho capito più niente e mi sono messo a scrivere su un blog con un nome strano: aciribiceci.com