Ricostruire la domanda

La puntata speciale di ieri sera di Agorà dedicata a Steve Jobs, in prima serata, ha fatto il 4,15 di share, dato molto basso: ieri sera solo una cosa su Retequattro ha fatto poco meno, e su Raitre nessuna prima serata aveva fatto così poco da settimane. Io sono stato ospite in collegamento da Milano per metà della serata, ma non attribuirei a questo il debole risultato, su cui ho invece un’idea.

Io penso che una serie di fattori, riconducibili tutti alle responsabilità di chi ha potere nelle scelte culturali ed editoriali in Italia (ovvero molte persone: da Silvio Berlusconi in giù), abbiano spappolato la domanda di informazione di qualità in questo paese (a qualcuno in rete non è piaciuta la trasmissione di ieri sera, che aveva qualche limite: ma non si era mai vista in prima serata Rai una cosa su un tema di tanta contemporaneità e con tanti ospiti qualificati) rendendo drammaticamente necessaria una ricostruzione della domanda insieme a quella dell’offerta. Io sono convinto che se oggi il maggiore programma di approfondimento giornalistico della prima rete pubblica nazionale – un prodotto di una povertà e arretratezza televisiva, qualitativa, giornalistica da primato – fosse rimpiazzato da un’altra idea più moderna, che racconti la realtà vera, che abbia un progetto televisivo intelligente e inventivo, farebbe dei numeri molto più bassi di Porta a porta, per molto molto tempo, e avrebbe infine successo tra tre anni, o cinque, o dieci, una volta rieducato il suo pubblico e coinvolto e ampliato uno nuovo e interessato.

Non è solo che la qualità è sempre “alta” e le cose di nicchia sono inevitabilmente di nicchia: sto parlando di fare le cose anche popolari e contemporanee, ma farle bene (a meno di non giudicare troppo di nicchia il giornalismo in quanto tale, e archiviarlo). Steve Jobs era la notizia principale in mezzo mondo ieri, e su ogni mezzo di comunicazione: e in rete le cose di Steve Jobs hanno moltiplicato i numeri dei siti di news. L’idea di Raitre era sensata, non snob: e molte tv del resto dell’Occidente ieri sera parlavano di Jobs e tendo a immaginare con seguiti maggiori, magari non da primato, ma soddisfacenti.

Il problema rientra nella famosa onnipresente questione italiana dell’incapacità di fare progetti a lungo respiro, che ricostruiscano quello che è stato distrutto o non coltivato in questi anni, e abbiano bisogno di tempo per fruttare. Se lo speciale di Agorà non fosse stato una tantum, il programma sarebbe stato già chiuso, in Rai: mentre dedicandolo ogni settimana a temi giornalistici moderni e internazionali, a ospiti competenti e rinnovati, pensandolo meglio e meno in corsa, crescerebbe senz’altro, un po’ alla volta, e concorrerebbe alla creazione di una cultura e di un’attenzione al mondo e a questi tempi che oggi è molto limitata, creando mercato per nuovi prodotti di qualità e informazione. Vale per la tv, per i giornali, per i media, per l’editoria, per ogni prodotto informativo e culturale; ma vale per la scuola, anche, e per molte cose che facciamo. Sta nella responsabilità di piccoli e grandi poteri italiani e di tutte le classi dirigenti: di chi in politica lavora – attivamente e anche solo col proprio esempio – per l’impoverimento culturale e intellettuale degli italiani, di chi nei media e nell’industria culturale asseconda la debolezza della domanda abbassando la qualità dei propri prodotti, di chi tra i possibili investitori nell’innovazione e nella buona informazione, nella pedagogia e nelle cose fatte bene, ha paura, non le capisce, investe in sciocchezze o autopromozioni.

Se si può invertire questa tendenza non lo so: credo si debba, credo ci voglia del tempo, e credo si debba lo stesso.

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).