Resistenza, bocce e coronavirus

Sono belle zone le valli bergamasche dove è esplosa l’epidemia. Le conosco bene fin da piccolo perché il mio babbo ci aveva fatto il partigiano e, ogni estate, tornavamo lassù, da Firenze, per una settimana a ritrovare i suoi vecchi compagni e a fare lunghe passeggiate su sentieri diventati tranquilli.

L’8 settembre del 1943 il capitano Cataluccio, dopo un’esperienza di guerra in Grecia e Albania, fuggì in bicicletta e con altri mezzi di fortuna da Milano, con un manipolo di amici, per non dover partire a combattere in Russia. Giunti a Bergamo si diressero verso le montagne ma si fermarono in un posto dal buffo nome che a quel golosone sarà sembrato un invito: Cenate. Facendo base lì, il babbo, divenuto rapidamente comunista, fu a capo di un piccolo gruppo partigiano, affiliato alla 53esima Brigata Garibaldi «Tredici martiri».

Quella tra Cenate, Trescore e Bergamo non fu una zona di battaglie particolarmente cruenta. Riuscirono però a catturare un ufficiale tedesco, dopo aver ucciso i quattro soldati che erano con lui. Lo condannarono a morte. Il babbo, che, dal 1930 al 1932, aveva studiato a Berlino, passò l’ultima notte a parlare con lui di Goethe. Alla fine si salutarono e mio padre andò a comandare il plotone di esecuzione.

La maggior parte del tempo stavano nascosti e la passavano a giocare a bocce: «Due stanze e un ampio cortile costituiscono le bocce, il salotto di Cenate. Nei giorni di lavoro hanno il silenzio del vicino convento delle suore e sui tavoli un malinconico quartino, alla luce sbiadita, sembra una natura morta di un pittore senza fantasia. Di domenica, chiazze di vino sulle sedie per terra e sui muri, denso odore di acciughe, violente risate e tempestosi battibecchi. Mezza Cenate va e viene, s’incontra, si festeggia, discute e beve. Poco dopo mezzogiorno giungono i raffinati del gioco delle bocce, quelli che non amano troppo i curiosi intorno e brigheggiano su ogni tiro e non cedono facilmente sul guadagno di un punto».

In quel luogo avvenne l’episodio forse più drammatico. Un fascista, forse per un vecchio rancore, infilò una bomba a mano nella tasca della giacca, appesa a una finestra dell’adiacente bar, del muratore calabrese Parisi. Lo arrestarono, lo torturano e la mattina, all’alba lo fucilarono (la drammatica vicenda, assieme all’apologia della bocciofila, fu poi raccontata dal babbo in un libretto di ricordi, pubblicato, a sue spese, a Firenze, nel 1946, col titolo amaro: Domani sarà diverso a Cenate).

Il gioco delle bocce da quelle parti è lo sport più amato e la forma di socializzazione e passatempo maggiormente praticata, soprattutto tra gli anziani, con accompagnamento di molti bicchieri di vino e soprattutto di grappa (fatta in casa: la celebre “Acqua di Gaverina”), partite a scopone e a tressette. Quella gente delle valli sono grandi lavoratori (allora eran quasi tutti contadini, oggi operai) e hanno carattere tosto e modi un po’ rudi, molto religiosi. Il babbo, che era un siciliano malinconico e orso, superata la reciproca diffidenza iniziale, si trovò benissimo con loro e alcuni di essi (Giuanin, Giudì, Frosca e il Beppo) sono stati forse i suoi amici più veri. E poi, a bocce, il Professore, come lo chiamavano, era imbattibile. Aveva un occhio particolare e, nonostante fosse un omone, la capacità di stare armoniosamente in equilibrio su una gamba sola, come una ballerina, prima del lancio ben calibrato della boccia.

Un grande giocatore di bocce è stato Roberto Nespoli, Presidente della sezione bergamasca della Federazione italiana bocce (un milione di giocatori e 90.000 tesserati). Racconta di centinaia di contagi e almeno 250 morti tra i bocciofili: «Una strage. Come altro potrei chiamarla? Qui a Bergamo ho mandato messaggi di cordoglio alle famiglie di 35 soci morti di virus in poche settimane. Avevano dai 60 ai 75 anni e frequentavano regolarmente i nostri campi in una provincia dove le bocce, mi creda, sono religione. Giocavano, si divertivano, si impegnavano nel volontariato perché il nostro piccolo grande sport è soprattutto quello. A un certo punto ho smesso di contare gli amici scomparsi perché ho dovuto lottare per la mia, di vita. Sono rimasto contagiato, ho passato 15 giorni che non augurerei al peggior nemico».

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).