Non moriremo statalisti

Leggo sul Foglio che un gruppo di democratici – bersaniani, vengono definiti – elabora un manifesto «per una sinistra cazzuta» con l’obiettivo di allineare il Pd a un rinnovato pensiero socialdemocratico europeo, del quale sarebbero alfieri Hollande ed Ed Miliband.
Ne sono contento: compito dei giovani è lanciare sfide nuove, e anche se questa non suona particolarmente nuova comunque si tratta di una sfida, che il gruppo dirigente del Pd potrà raccogliere.
Guardo poi in tv le maratone di Giulio Tremonti per la presentazione del suo libro, e scopro che François Hollande è il modello anche del nostro ineffabile ex ministro dell’economia, che porta il Ps a esempio di un partito che vuole vendicare la sovranità nazionale contro le tecnocrazie e burocrazie europee, ribaltare i rapporti di forza fra potere statuale e finanza globale, colpire i banchieri arricchiti dalla crisi alle spalle delle famiglie.
E qui mi preoccupo.
Non per la convergenza fra Tremonti e alcuni dei suoi duri oppositori (è lui che deve rispondere, oltre che di molti errori più gravi, di esser stato colonna del governo nelle premesse più liberale della storia d’Italia, alla prova dei fatti il più conservatore, corporativo e neo-statalista), bensì per l’equivoco nel quale temo possano cadere gli amici e compagni Orfini, Fassina e Orlando, e il Pd nel caso dovesse decidere di seguire la loro rotta.
So riconoscere il mainstream, e ci sono molte ottime ragioni per cui il vento che soffia dal Pacifico agli Urali sia pieno di rancore verso l’un per cento ricco, di esasperazione per i danni della finanziarizzazione dell’economia, di voglia di riscatto contro l’impalpabile crudeltà di banchieri e brokers.
Tutti sanno riconoscere queste ragioni, è il motivo per cui un’utopia come la Tobin Tax sta per entrare nei trattati europei. Ma fra la riscoperta della proposta di controllo dei flussi finanziari avanzata del vecchio maestro di Mario Monti, e l’ondata di populismo neo-nazionalista che attraversa destre e sinistre americane ed europee corre un fossato che non dobbiamo neanche sfiorare.
È un punto sul quale già ci siamo incrociati, con alcuni di questi nuovi socialdemocratici del Pd, quando (prima del governo Monti, e anche nei suoi primi tempi) la soluzione tecnica per l’Italia veniva avversata in quanto dettata dagli euroburocrati asserviti alla destra neoliberista franco-tedesca. Non è così l’Europa, non era questo il senso dell’operazione Monti, e ora ne sicuramente convengono tutti. Così come sembra finita la guerra contro l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, animate dal medesimo argomento dell’esproprio della sovranità nazionale in politica economica.
Si dice di Hollande. Io spero che vinca, e spero che non vinca in un duello con Martine Le Pen perché per farlo dovrebbe esasperare promesse elettorali già ora avventurose, sul medesimo terreno del sospetto verso l’Europa e dell’impossibile ritorno al protezionismo che tanto piace anche a Tremonti. Non siamo francesi e non siamo in campagna elettorale, possiamo tifare per il Ps senza illuderci che possa mantenere la tenuta del costoso welfare francese o le 35 ore, mentre è evidente che certi livelli di benessere europeo sono insostenibili di fronte alle economie galoppanti di popoli affamati di ricchezza.
È vero che i progressisti europei, dalla Scandinavia alla Germania, recuperano forti caratterizzazioni sociali. Ci mancherebbe altro, col mondo del lavoro strizzato dalla recessione. Ma già con Ed Miliband siamo a una versione del Labour non più blairiana, molto più vicina alle Unions, ma certo neanche old: quando toccherà a noi governare non daremo illusioni, ha detto Miliband in un discorso recente, non è pensabile che si possa tornare alla tradizionale ricetta di sinistra di una crescita gonfiata dalla spesa pubblica.
Questo è il punto: stiamo parlando di un’Europa che ha praticato e introiettato la Terza via, dove la sinistra ha guidato le rivoluzioni liberali o è sempre stata attraversata da questa vena (figuriamoci poi se il confronto si estende ai democratici americani). L’Italia, nel confronto, è un paese che sta provando solo ora, con enormi sforzi, a rendere i mercati più aperti, concorrenziali, “democratici”, intaccando rendite di posizione, corporativismi, sacche di assistenzialismo, micidiali ineguaglianze nel mercato del lavoro. A Berlino e a Londra possono porsi il problema di correggere le storture delle politiche liberiste: qui da noi siamo un giro indietro, che è anche una fortuna visto che le riforme liberali in corso, imprescindibili e sostenute in prima fila dal Pd, possono essere varate senza gli errori e le storture che oggi denunciano il Next Labour e gli eredi di Gehrard Schroeder.
Messi questi paletti, che limitano molto le speranze nelle virtù salvifiche della spesa pubblica e non contemplano alcuna paura di «finire fagocitati dalla svolta tecnocratica» (come teme Enrico Rossi, governatore della Toscana) ma all’opposto confermano il Pd nella necessità di far proprie le riforme di Monti (ciò che del resto si sta verificando), i democratici tornano comunque ad avere ambizioni maggioritarie, di egemonia sull’intero corpo sociale del paese senza appaltare nulla né al centro né a sinistra. Ottima intenzione. Non diteglielo, ma questi giovani turchi cominciano a somigliare a Veltroni.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.