Mein Kampf è un vecchio libraccio noioso

Quando ero ragazzo – non so dire, sarà stato verso la fine del liceo – trovai una volta nella biblioteca di mio nonno (un coltissimo grecista, un gran nonno, e un democristiano progressista come si poteva esserlo allora) una copia di “La mia battaglia” di Adolf Hitler. Ovvero quello che quasi tutti – anch’io allora – conoscono come “il Mein Kampf” senza saperne niente, e neanche cosa voglia dire, in molti casi: per alcuni il mio campo, mi è capitato di intuire. Siccome allora ero nella medesima condizione di ignoranza in cui le superficiali informazioni prevalenti ci mantengono tutt’ora, non sapevo niente di cosa ci fosse effettivamente scritto dentro: quel libro era una sorta di tabù che evocava contenuti demoniaci e chissà quali conseguenze per chi lo leggesse. Dapprima mi meravigliai che mio nonno ne possedesse una copia – un’edizione Bompiani del 1938, lire quindici – poi ricordai il suo periodo di insegnamento a Heidelberg e i suoi interessi per la lingua e la cultura tedesca: e la scoperta che appunto un uomo così mite e colto avesse quel libro, iniziò a normalizzare il libro stesso nelle mie vaghe impressioni. Ma non abbastanza da azzardarmi a chiederglielo in prestito, svelando una curiosità come poteva esserla quella per un filmino porno, e così mi limitai a prenderlo e portarmelo a casa senza dirlo a nessuno: ce l’ho nelle mie librerie e successivi traslochi da più di trent’anni, e non credo mio nonno abbia mai notato la sua scomparsa.

Comunque, cominciai a leggerlo. C’erano alcune cose interessanti per le mie curiosità storiche – ci si raccontano dei fatti, pur mediati dalla lettura esaltata dell’autore – ma più che altro enfasi ubriache, retoriche anacronistiche e un trionfo di vanità infantile che diventavano rapidamente ripetitive e noiose, e nella gran parte dei casi ridicole e quasi parodia di se stesse. Sfogliai un po’, e mi stufai (a giudicare dalla solidità della rilegatura tutt’ora, neanche mio nonno doveva averlo molto approfondito).
Da allora confesso di prendere con grande leggerezza le cicliche agitazioni intorno alle eventuali e reali pubblicazione del famigerato “Mein Kampf”: naturalmente capisco e rispetto tutte le sensibilità che coinvolge, e non credo in effetti ci ci sia alcuna ragione per pubblicarlo – è una montagna di fesserie a cui sono preferibili almeno un altro migliaio di letture possibili – se non quella di sfruttare le sensibilità suddette e la costruzione del tabù per portare a casa quattro soldi o far parlare di sé. E questo è anche il caso di cui si parla in questi giorni, e al Giornale si staranno fregando le mani che il gioco abbia funzionato.
Però penso anche che non ci siano rischi a pubblicarlo (nè necessità di “contestualizzazioni” o accessori esplicativi:) c’è solo il disprezzo verso chi ne viene offeso, e questo è quello che dovrebbe trattenere da questi piccoli e meschini commerci.

Ma non è un pensiero che formulo solo sulla base di un’esperienza sbrigativa e personale di trent’anni fa: mentre me ne faccio domande mi chiedo infatti se non sia una riflessione simile a quella che stiamo facendo nelle ultime settimane con Gomorra, la serie, per esempio. Gli argomenti che abbiamo usato per assolvere Gomorra – parliamo di una serie che si presenta come verosimile, e che attinge esplicitamente a fatti avvenuti e realtà esistenti – da responsabilità diseducative, non dovrebbero valere anche per Mein Kampf? Non sono le intenzioni degli autori a influire sui potenziali risultati e conseguenze dei modelli esposti, né la qualità letteraria delle opere, e si rischiano due pesi e due misure a dire che è giusto mostrare la realtà – distorta dalla visuale dei protagonisti, visuale che è essa stessa realtà – in Gomorra, e sbagliato mostrarla in Mein Kampf, distorta dalla visuale dell’autore, che è essa stessa realtà.

E infatti insisto che non credo che debbano invocarsi censure né per l’uno né per l’altro, malgrado siano più ripugnanti e insincere le intenzioni dei promotori di uno dei due prodotti. E quando mi obietto “però tu hai detto che di Gomorra non possiamo fingere che non possa essere un modello negativo”, mi rispondo che gli ambiti influenzabili da Gomorra – ovvero i potenziali coinvolti dal degrado criminale meridionale e dalle mafie, le vite simili a quelle raccontate – e quelli influenzabili dal Mein Kampf – nazisti dell’Illinois e macchiette simili, che pure esistono e ogni tanto fanno stragi – hanno dimensioni enormemente diverse.
Concludo – con la solita fragilità di certezze che irrita molti lettori: “dipende” – pensando che sia giusto che si pubblichi qualunque cosa, se si ha la coscienza a posto sull’educazione critica del pubblico (se lo Stato di Israele facesse leggere Mein Kampf a scuola, difficilmente i giovani lettori ne verrebbero influenzati negativamente). Roberto Saviano sulla camorra lo fa da anni, spero che il Giornale – che non leggo abbastanza – possa dire la stessa cosa sui rischi di razzismi e fascismi.

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).