Le cose sono complicate

Venerdì al Post abbiamo pensato di spiegare, come cerchiamo di fare ogni giorno, la notizia sul “rifinanziamento” del fondo per l’editoria – quello con cui lo Stato aiuta economicamente i giornali, sempre molto discusso, sempre in procinto di essere tagliato, mai tagliato – annunciato dal sottosegretario Peluffo: ma abbiamo deciso di attendere, come cerchiamo di fare ogni giorno, che la notizia fosse più concreta e ufficiale, e che i criteri di attribuzione dei finanziamenti fossero chiariti. C’è in ballo un piano di riprogettazione di questi criteri che incentivi il sacrosanto passaggio alla rete delle testate sostenute (quello che qui auspicai l’anno scorso), e vogliamo avere tutti gli elementi per capire.

Al tempo stesso, io ho deciso di aspettare anche a scrivere un pensiero su questa notizia. In parte per le stesse ragioni: aspettare. In parte per altre ragioni: non ho mai trovato – ne ho scritto qui spesso – una sicurezza sul fatto che questo meccanismo sia giusto o sbagliato. In estrema sintesi – non sto a rispiegarmi daccapo – penso sia giusto tutelare prodotti e servizi che aumentino l’informazione della comunità e di conseguenza la qualità della vita, il buon funzionamento della democrazia, il miglioramento del paese per tutti: si tratti di libri, giornali, scuola, cinema, tv, prodotti culturali diversi. Ma penso anche che questo approccio mostri molti fallimenti e risultati insoddisfacenti nella sua corretta applicazione: e soprattutto nel caso dei giornali. Per questo ho concluso che l’idea di ridurre drasticamente l’investimento pubblico e dedicarlo soprattutto ai costi dell’informazione online sia la soluzione più promettente.

Non ritengo quindi una buona notizia che in questo fondo siano di nuovo messi tanti soldi: ma aspetto di vedere come saranno usati. In più, ammetto anche una dose di rispettosa omertà – non corporativa, figuriamoci: solidale, amichevole – nei confronti di alcune testate che apprezzo, di cui conosco e stimo i giornalisti, o di cui mi dispiace sapere che i giornalisti possano trovarsi senza lavoro. Non farò battaglie contro di loro, per quanto questo crei delle contraddizioni.

Ma stasera il direttore de Linkiesta Jacopo Tondelli, con cui condividiamo molte riflessioni e opinioni sul cambiamento in corso e necessario nei media, è stato meno reticente di me e ha scritto una cosa che non solo condivido dalla prima all’ultima parola (salvo la rivendicazione di indipendenza dal denaro pubblico, non perché invece io ne voglia per il Post ma perché come ho detto non mi sembra una cosa disdicevole per chi lo meriti; e salvo la citazione del Fatto senza dire che le sue agevolazioni economiche le riceve) ma trovo espressa con grande buon senso e competenza, senza demagogia  e rispettosamente. E indicando qual è il primo fronte su cui i giornali dovrebbero intervenire, per poter funzionare con prodotti di qualità senza chiedere “i nostri soldi”.

Perché ne hanno bisogno, visto che vendono? Perché negli anni hanno accumulato strutture mastodontiche che i cambiamenti della tecnologia o del clima culturale hanno reso insostenibili. O perché, fin da prima, hanno largheggiato in assunzioni e remunerazioni che, senza che pagasse Pantalone, non sarebbero state immaginabili.

La ricostruzione di Tondelli (che ha anche un altro momento di grande rispettosa chiarezza quando allude al peso della “discreta moral suasion del Colle” nella scelta di salvare i giornali: e sarebbe però irrispettoso per i lettori non aggiungere almeno che l’allusione è a un giornale caro al presidente della Repubblica) parla di “un’industria che per stare sul mercato ha bisogno di ridimensionare i suoi numeri e di prendere sul serio quel luogo di informazione che si chiama Internet” (ci ha fatto un bel ragionamento persino Luciana Castellina). Non posso essere più d’accordo, e come facciamo al Post quando troviamo chiaro un articolo, invece di riscriverlo peggio, invitiamo a leggere quello.

 

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Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).