La storia italiana nei giardini di Colleferro

La verità giudiziaria sarà preziosa per chiarire a quale altezza esattamente si collochi il delitto di Colleferro nella linea che unisce due punti limitrofi e non sempre chiaramente distinguibili nella geografia della violenza: da un lato la spedizione punitiva – anche per futili motivi – ad opera di una banda costituita, riconosciuta e temuta sul territorio per i suoi legami con la criminalità specializzata nell’usura e nel traffico di droga (sul modello – in sedicesimo – di ciò che avviene a Ostia e a Roma con i clan Spada, Casamonica o Fasciani); dall’altro la rissa o l’aggressione occasionale di gruppetti di balordi adusi a menar le mani per rapina o per puntiglio – un evento peraltro sempre più consueto nell’estate italiana post-lockdown, come mostrano a titolo d’esempio i pestaggi quasi quotidiani del luglio milanese (a Pagano, a piazza Sempione, alla Stadera…), le mazzate prese da un ventenne albanese a Conegliano (20 luglio) e da due diciannovenni inermi in Corso Trieste a Roma (8 giugno), e soprattutto la selvaggia esecuzione – senz’altro aggravata dall’odio razziale – di un trentottenne tunisino un po’ alticcio nel centro di Jesolo, la notte del 1 luglio, per mano di quattro giovani del luogo.

In questa dialettica avrà valore diagnostico anzitutto il grado di omertà dei testimoni: non è dunque casuale che un forte richiamo a denunciare e a collaborare alle indagini sia venuto dal sindaco di Colleferro Pierluigi Sanna, giovane e operoso esponente del PD laziale, che tra pochi giorni si gioca la rielezione al termine di un mandato in cui tramite un paziente lavoro di recupero, di innovazione e di inclusione ha provato a ridare slancio e coesione alla cittadina, provata da decenni di chiusure industriali, di inquinamento selvaggio, di abbandono sociale (ne scrissi anni fa, quando ancora si pagavano i tentennamenti e le esitazioni delle amministrazioni destrorse dei sindaci Moffa e Cacciotti). Tanto più spero sia seria, e non legata all’emozione del momento, la proposta di Sanna di dedicare un piccolo monumento a Willy Duarte nel luogo stesso in cui è spirato: i giardinetti in fondo a corso Garibaldi non sono infatti soltanto l’unico lembo di verde urbano del centro, e il luogo dove si saluta chi parte per Roma e per il mondo sugli autobus della Cotral; sono anche il baricentro ideale della storia cittadina, che è una sorta di compendio del Novecento italiano.

Piantiamo i piedi tra i fiori e le dediche che oggi costellano l’aiuola, al punto 0: le casette dinanzi a noi, dove sorgono il famigerato “Duedipicche” e altri localini di una modesta movida, sono ancora, con modeste modifiche (lo mostra B. Coggi, Colleferro, città nuova del Novecento, StreetLib 2018), lo spaccio, i bagni pubblici e il dopolavoro edificati durante la prima fase dell’insediamento industriale (1913-18), quando questo lembo disabitato di Lazio fu prescelto da Giovanni Bombrini e Leopoldo Parodi-Delfino per insediarvi una nuova fabbrica di esplosivi (tritolo, mine, munizioni), e iniziarono a confluire qui maestranze, impiegati e ingegneri da varie regioni dell’Italia.

Voltiamoci ora di 90 gradi verso sinistra: il maestoso edificio razionalista del 1939 che fa angolo tra corso Garibaldi e via Bruno Buozzi reca l’insegna – ormai obsoleta – di “Istituto professionale industriale Paolo Parodi Delfino”, la scuola che dal 1960 fu preposta a formare gli operai specializzati utili alle diverse avventure industriali avviate dalla medesima famiglia di imprenditori (dalla chimica dei fertilizzanti al cementificio, quindi, nel Dopoguerra e con l’aiuto dello Stato, dal tessile alla meccanica); la fabbrica più importante, però, e quella con più occupati, rimase per decenni proprio quella che produceva ordigni bellici destinati alle truppe più diverse (ne sono stati ritrovati frammenti o esemplari inesplosi dal Carso al Golfo Persico, dalla linea Gustav alla Libia), e che esigeva periodicamente un corposo tributo di sangue – il più tragico degli incidenti, quello del 29 gennaio 1938, dilaniò 60 operai e ne mutilò centinaia, curati nello stesso ospedale (già “Centro Sanitario Leopoldo Parodi Delfino”) dove è morto Willy l’altra sera, un nosocomio importante ma fiaccato dai tagli, dalle chiusure e dai ridimensionamenti conseguiti alla bancarotta della sanità laziale.

Già che ci siamo, facciamo ora un demi-tour di 180 gradi dal punto 0: nella rotonda in fondo alla strada spicca – a suo modo, un monumento – una grande spina di colaggio usata nel missile europeo “Ariane”, a celebrazione e ricordo di quando qui la SNIA-BPD, ormai in mano statale, riconvertiva impianti ed energie alla sfida aerospaziale europea – ma la toponomastica non mente, e la via che parte subito dietro la rotonda, e costeggia per lungo tratto l’area industriale propriamente detta, si chiama ancora impietosamente “via degli Esplosivi”.

“Senza sforzo senza sacrificio e senza sangue nulla si conquista nella storia” stava scritto a caratteri cubitali sul retro della Casa del Fascio, qui davanti al punto 0 (ci siamo girati di altri 90 gradi verso destra): oggi ricostruita e trasformata in caserma dei Carabinieri (quella da cui è sceso il primo maresciallo intervenuto dopo il pestaggio di Willy), la Casa affaccia su Piazza Italia (all’epoca Piazza Littoria) e si inserisce in una perfetta prospettiva metafisica e fascista, disegnata negli anni ’30 dall’ingegner Riccardo Morandi (sì, quello del ponte di Genova) come cuore di un modello ideale, quasi utopistico, di città operaia. “Viva Colleferro operaia!” gridò appunto in questa piazza Paolo VI nella memorabile visita pastorale del 1966 (era accompagnato dal potente feudatario del luogo, che per decenni rispose al nome di Giulio Andreotti, uomo di mille clientele): subito dietro si erge in effetti la severa chiesa di Santa Barbara, subito sotto c’è il mercato coperto (ancora in funzione), subito a destra la scuola elementare (ancora in funzione): ideale razionalista – e tutto morandiano, come le case attorno e l’intero impianto del paese – di un mondo ordinato, perfetto, accogliente, che per alcuni compendiava emblematicamente in sé tutti i caratteri dell’oppressione delle classi subalterne, i connotati soffocanti e ipocriti del capitalismo filantropico – in una delle casette della collina dietro l’Istituto Professionale, appena un po’ più su se alziamo la testa dal punto 0, crebbe e abitò per anni la futura brigatista rossa (condannata a sei ergastoli) Barbara Balzerani, che nel romanzo autobiografico La sirena delle cinque (DeriveApprodi 2003) ha descritto con lucida disperazione il senso di infelicità, ingiustizia e rabbia maturato da bambina all’ombra del “mostro”, la fabbrica sempre pronta a esplodere e avvelenare.

Per altri, in tempi più recenti, quel modello politico-industriale di paternalismo, consenso e piccoli favori – contestato da molti scioperi (su tutti, la violenta ma infine fallimentare occupazione della BPD nel marzo 1950) e poi naufragato, come in tante altre parti del Paese, tra salvataggi statali, licenziamenti, dismissioni, effimeri cambi di mano e interminabili vertenze –, è stato il fomite di un’orrenda vicenda di inquinamento ambientale che, con particolare riferimento agli sversamenti della chimica e alle polveri del cementificio, ha trasformato la valle del Sacco, luogo già ferace di pascoli e coltivi, in uno dei siti più inquinati d’Italia (le bonifiche sono partite di recente, ma dureranno anni), e Colleferro – stretta per di più tra la discarica di Colle Fagiolara e i due grandi inceneritori all’ingresso del paese, oggi infine chiusi l’una e gli altri grazie ad anni di lotte e di mobilitazioni che hanno mostrato il meglio dello spirito civico dei Colleferrini – in una sorta di pattumiera del Lazio.

Da piccolo venivo qui, al punto 0, a comprare le figurine, ad ammirare i flipper del Bar Impero, e a guardare, nella bacheca sul fianco dell’Istituto Parodi Delfino, i manifesti politici e sindacali più battaglieri: oggi l’edicola è ancora lì, ma al Bar Impero (si chiama sempre così) ci sono i videopoker e qualche testa rasata, mentre l’Istituto Professionale è chiuso e in abbandono da anni (Sanna ha avviato un meritorio progetto per allocarvi la nuova Biblioteca comunale), e la bacheca impolverata sul fianco esibisce volantini di Nichi Vendola e appelli sindacali dell’era Berlusconi; viene il sospetto che abbia qualche ragione l’anziano Emanuele Macaluso nel chiedersi inquieto quale sia la vita sociale di tanti Comuni italiani (non solo nel Mezzogiorno) ora che i partiti non esistono più e la Chiesa non svolge alcuna vera attività sul campo. Ritrovare un senso condiviso, un motivo di scambio e di socialità, non è questione che possa risolvere una singola amministrazione comunale, né forse potrà granché contribuire in tal senso il gigantesco Centro di distribuzione Amazon la cui imminente apertura è attesa ormai come la manna dal cielo per l’occupazione della gioventù locale.

Un monumento, dunque, di certo non cambierà le cose, come non le hanno cambiate – purtroppo o per fortuna – le fitte lapidi per Maria Goretti, Enrico Toti e Gabriele d’Annunzio (una compagnia senz’altro bizzarra, ma un vero precipitato di italianità) nell’angusta sala d’attesa della stazione di Colleferro-Segni-Paliano. Tuttavia forse un ricordo per Willy Duarte in questo punto zero potrebbe servire non solo come utile contrappunto all’epigrafe che, ben visibile nella navata sinistra della chiesa di Santa Barbara, celebra la prematura scomparsa in un incidente aereo (1936) dei due figli del “padrone” Leopoldo Parodi Delfino (fulgidi “esempi alla gioventù del Littorio”, si legge): potrebbe servire anzitutto per aggiungere al groviglio di nodi appena descritti – lo sviluppo industriale, la memoria del fascismo e il capitalismo paternalistico, la sicurezza sul lavoro e la salute pubblica, la religione e il pacifismo, la politica clientelare, la convivenza tra diversi, l’inquinamento, la crisi ambientale, la rassegnazione dei cittadini – anche le questioni, tra loro legate, di una gioventù smarrita e violenta, delle bande criminali sempre più potenti dove lo Stato arretra, e del razzismo ostinato che ci insidia.

Potrebbe servire per elaborare, in questo punto zero che è un crogiolo della nostra identità e delle nostre tragedie, pensieri nuovi sull’ordine sociale, e schierare magari, senza timori né omertà, una comunità intera – e per mezzo di essa, chissà, tutto il Paese – dalla parte giusta.

Filippomaria Pontani

Filologo classico a Venezia (Ca’ Foscari), mi occupo di greco da Omero a Kavafis, di manoscritti bizantini, di poesia, di lingua. Sul Post e sul Fatto quotidiano scrivo di scuola e università, di arte e patrimonio culturale, di Europa e Medio Oriente, di venetudine.