La squadra dei bianchi

Ciascuno ragiona partendo dalle proprie esperienze, per quel che valgono. Nel fine settimana sono stato, per un convegno, a Cracovia. Non ho mancato però di guardare, in un affollatissimo bar, la partita Russia-Croazia. Com’è immaginabile, tutti i polacchi tifavano per i croati, in una sorta di alcolica, sfrenata e occasionale “vendetta” per interposto popolo.
Il giorno successivo ho preso un taxi: il conducente mi ha chiesto subito per chi tifassi tra Francia, Belgio, Inghilterra e Croazia. Alla mia risposta filoinglese si è stupito e un tantino indignato: “Ma che sono squadre europee quelle?! Son piene di negri. Solo la Croazia ha tutti i calciatori bianchi, e pure slavi”.
Mi è tornato subito in mente quando, alcuni anni fa, tornando dalle vacanze al mare, mi capitò un tassista milanese che inveì pesantemente, alludendo al colore della pelle, contro un arabo che aveva esitato troppo prima di attraversare la strada. Guardando poi nello specchietto retrovisore, in cerca della mia approvazione, mi vide di pelle molto scura, e dai tratti piuttosto levantini, e si scusò: “Non ce l’ho con voi arabi!”.

Siccome il discorsetto razzista e filocroato, a Cracovia, me lo sono sentito fare un paio di altre volte, in contesti diversi, ho riflettuto sul fatto che a me non era neppure venuto in mente che alcuni giocatori della Francia o dell’Inghilterra, che cantavano a squarciagola l’inno del loro paese, potessero essere diversi.
Il razzismo, oltre che “una brutta bestia” (come, meritoriamente, continua a essere stampato nel colophon di tutti i libri della casa editrice Feltrinelli), è qualcosa purtroppo, di parecchio spontaneo, che soltanto l’educazione e la cultura riescono a eliminare, o almeno stemperare.

Ormai questi “cattivi pensieri” non hanno più freni. Quel taxista, e quegli altri polacchi, come molte persone in Italia e in Europa, una decina di anni fa pensavano probabilmente la stessa cosa, ma se ne vergognavano o, per lo meno, non avrebbero osato gettare in faccia a uno sconosciuto questa immondizia razzista. Oggi non se ne vergognano più perché alcuni politici, opinionisti, giornalisti (e, in Polonia, anche una buona fetta di una Chiesa tornata retrograda) dicono impunemente, e cinicamente, queste cose.
Se in Italia, negli scorsi anni, oltre a una più attenta educazione civica nelle scuole, avessimo buttato fuori dal Parlamento quei politici che offendevano una Ministra perché era di origine africana, o avessimo sanzionato quei dirigenti politici che facevano comizi razzisti, o fossimo stati più severi nei giudizi verso chi faceva battute sul colore della pelle del Presidente degli Stati Uniti, avremmo forse arginato almeno un po’ questa follia.
Molte persone ora non si vergognano più di dire ciò che provano verso coloro che hanno un colore, una cultura, delle abitudini diverse dalle loro. E spesso premettono ai loro discorso, frasi come: “non ho nulla contro i negri”; “ho molti amici…”. Si sentono forti e sicuri perché hanno trovato chi li appoggia e sono convinti di essere la maggioranza (lo stanno diventando?).

C’è chi sostiene che bisogna comprendere le paure e il disorientamento di queste persone e che non dobbiamo sentirci sprezzantemente superiori, e dichiararci migliori di coloro che non vedono di buon occhio gli stranieri, soprattutto se hanno la pelle scura. Ma, francamente, pur sforzandomi di capire le cause di certi modi di pensare (ed essendo grato ai miei genitori e ai miei maestri che mi hanno insegnato addirittura qualcosa di più della tolleranza e del rispetto), trovo insopportabile che qualcuno sia razzista e lo dichiari. E non si può sempre commiserarlo per le sue condizioni sociali e culturali. La tentazione di scendere immediatamente dal taxi è stata forte e, per un istante, ho addirittura provato la tentazione di assestare un ceffone al razzista polacco. Non ho fatto né l’una né l’altra cosa: non sarebbe servito a nulla? sarei passato dalla parte del torto? quello si sarebbe rafforzato nella convinzione di chi si sente vittima degli stranieri e delle elite che li difendono? mi avrebbe chiamato “buonista”… Più probabilmente sarei tornato in Italia con un occhio nero.

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).