La cultura del piagnisteo

Cinque per mille in prima pagina: il tema in questi giorni campeggia su tutti i principali quotidiani per via della decisione del ministro Tremonti di tagliare con l’accetta, da 400 a 100 milioni di euro, i fondi destinati alle organizzazioni nonprofit sulla base delle scelte fatte liberamente dai contribuenti al momento della presentazione della dichiarazione dei redditi (il cinque per mille è, appunto, la percentuale dell’Irpef che il contribuente ha la facoltà di destinare, di sua spontanea volontà, a organizzazioni non lucrative ).

I giornali raccontano di proteste che si alzano un po’ da tutti i fronti dell’universo nonprofit e del volontariato per questa decisione vissuta come un vero e proprio scippo, come un’inaccettabile volontà del Governo di mettere le mani in tasca agli italiani, come grande schiaffo al mondo della solidarietà.

Poiché nutro parecchie perplessità su questo coro pressoché unanime di proteste, per alcune ragioni che spiegherò tra breve, ritengo doveroso fare qualche premessa. Anche perché non pochi esponenti del nonprofit (esponenti a che titolo sarebbe poi da discutere, ma questo è un altro discorso) vivono spesso le critiche al settore come un delitto di lesa maestà. E non ricordo di aver più letto o ascoltato un’affermazione di così cristallina onestà intellettuale come quella pronunciata qualche anno fa da Luca Pancalli, ex commissario straordinario della Federcalcio, sulla sedia a rotelle da quando aveva diciassette anni a causa di una brutta caduta da cavallo: «Sono contento quando mi insultano per strada perché, quando si arriva alla critica sopra le righe a un disabile significa che è visto come un uomo uguale agli altri. Per me è scorretto non prendere in giro un disabile solo per usargli riguardo: vuol dire non trattarlo alla pari e nella mia filosofia, va in direzione opposta all’obiettivo di essere trattati come tutti, poter ricoprire gli stessi ruoli sociali e ricevere le critiche che comportano».
Un bel monito per quelli che, quando affrontano i temi legati a vario titolo al mondo della solidarietà, assumono un volto compassionevole e finto che non consente mai di andare al fondo degli argomenti trattati.

Ma torniamo alle premesse. Che poi sono sostanzialmente due. La prima: nel gruppo di enti non lucrativi che si sono uniti per far sentire con più forza la propria voce contro il provvedimento adottato dal ministro Tremonti ce ne sono molti davvero meritori, la cui efficacia d’azione è straordinaria. La seconda: è molto, ma molto discutibile che, mentre con una mano si tolgono soldi alle organizzazioni nonprofit, con l’altra si diano risorse di importo quasi analogo (250 milioni) alle scuole private. La finalità elettorale di una simile decisione è talmente plausibile che, per la stessa ragione, coltivo un discreto ottimismo circa il ripristino, prima o poi, del fondo iniziale di 400 milioni per il “cinque per mille”, visto che in Italia ci sono quasi quattro milioni di cittadini (ossia elettori) in qualche modo impegnati in attività di volontariato. E visto che presto si tornerà al voto.

Premesso ciò ecco, per sommi capi, cosa non mi convince della protesta:
– Sin da quando fu introdotto, con la legge finanziaria del 2006, il dispositivo del “cinque per mille” ha avuto carattere sperimentale (peraltro il primo anno erano inclusi tra i possibili destinatari dei fondi addirittura i comuni). E continua ad averlo. In tanti chiedono, legittimamente, di stabilizzarlo. Ma per farlo bisogna tener conto della situazione economica del Paese. E al momento non è delle più floride. Conosco bene l’obiezione di chi sostiene che è proprio nei momenti di difficoltà che il sistema di welfare ne risente e il ruolo di supplenza delle organizzazioni nonprofit talvolta può rivelarsi essenziale. Già, ma proprio per questo motivo bisogna centellinare le risorse e non tutte le organizzazioni non lucrative svolgono ruoli insostituibili;
– Finora le rendicontazioni del “cinque per mille” hanno evidenziato come di solito siano le grandi sigle del settore nonprofit e del volontariato a intercettare i maggiori flussi. A fronte di quelle poche che riescono a incamerare anche diversi milioni di euro ve ne sono migliaia che portano a casa poche briciole, qualche centinaio di euro al massimo. Un correttivo quindi è più che auspicabile;
– Adesso sembra che senza “cinque per mille” l’intero settore nonprofit rischi di esser messo in ginocchio. Ma allora fino ad appena cinque anni fa come faceva a stare in piedi? La realtà, invece, è un’altra, ed è per molti versi speculare all’attuale. Fino a cinque anni fa vi erano fermenti culturali che lasciavano presagire un futuro molto incoraggiante per il nonprofit. Sarà che il bisogno aguzza l’ingegno, ma fino ad allora le proposte di sviluppo e di crescita del settore che circolavano erano suggestive, interessanti, realistiche. Oggi la capacità propositiva degli organismi di rappresentanza delle organizzazioni nonprofit è impalpabile. Gira che ti rigira, propongono sempre le stesse cose: la riforma del libro primo del codice civile, una nuova legge per il volontariato, una nuova legge per le organizzazioni non governative e poco altro. Vi è però un dato sotto gli occhi di tutti: il Parlamento italiano da anni non “funziona”, risulta svuotato delle sue competenze, lavora poche ore a settimana fondamentalmente solo per approvare ciò che decide il Governo. Quindi, di fatto, certe richieste provenienti da alcuni “rappresentanti” del nonprofit si traducono in un alibi per il loro immobilismo culturale;
– Se su questioni come il “cinque per mille” o, più in generale, le raccolte fondi, la voce del non profit si alza sempre più forte, non altrettanto può dirsi per questioni parimenti essenziali. Anzi, talvolta il silenzio risulta assordante. Penso, per esempio, al lavoro retribuito prestato nelle organizzazioni nonprofit. Non di rado un lavoro precario e sottopagato. C’è uno studio recente, a cura dell’osservatorio Sodalitas sulle risorse umane nel nonprofit, da cui emerge che qui c’è un turnover altissimo, molto più alto del settore profit, con livelli retributivi mediamente ben al di sotto di questo (nello studio si usa, in proposito, l’espressione “forte sobrietà retributiva”, un eufemismo che sfida la forza di gravità). Nell’indagine si può leggere, inoltre, la seguente considerazione: «Appare molto debole il presidio delle aree legate allo sviluppo professionale. Prevalgono politiche poco selettive e molto “ugualitarie”, a cui conseguono prassi retributive poco differenziate. Il tutto accentuato dalla bassa inclinazione a definire percorsi di sviluppo professionale per i propri collaboratori».

Non sarebbe allora forse il caso di accendere i riflettori anche su faccende così cruciali per il futuro del nonprofit? Un futuro, peraltro, che nel 1993, un famoso libro bianco dell’allora presidente della Commissione europea Jaques Delors, aveva pronosticato roseo proprio in virtù delle grandi potenzialità occupazionali del nonprofit.
Al momento tutto tace. Si sente solo una voce di protesta per il “cinque per mille” declinata in molteplici intonazioni, diverse delle quali somiglianti a una lagna. Ma così non si va da nessuna parte. Scriveva il poeta premio Nobel per la letteratura Thomas Stearns Eliot: «Il mondo finisce non con il rumore di un’esplosione ma con un fastidioso piagnisteo».

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com