Il selfie di Gesù

12 luglio – Santa Berenice/Veronica, paleo-fotografa. 

Grazie Gesù (e chi ti smacchia più) (Mattia Preti, 1640).

Berenice in greco significa “porta la vittoria”. La B già in quei secoli si pronunciava V, la C è sempre stata dura: “Veronica” è la versione latina dello stesso nome, ma verso il 1200 si insinuò un’altra etimologia, “vera icona“, vera immagine. Berenice è la pia donna che terge il sangue e il sudore di Gesù nella sesta stazione della Via Crucis, una liturgia di origine tardomedievale ispirata alla passione e morte di Gesù Cristo. La Via Crucis segue abbastanza fedelmente il racconto dei vangeli, aggiungendo soltanto un numero preciso di cadute sulla via del Calvario (tre) e appunto Berenice/Veronica, l’unico personaggio della Via Crucis che ai vangeli non risulta. Era comunque una figura molto popolare, a cui non si poteva negare un siparietto – anche se nella versione ufficiale viene omesso il dettaglio più sensazionale e controverso: sulla pezzuola offerta da Berenice a Gesù sarebbe rimasta miracolosamente impressa l’immagine del Suo volto. Non una strisciata di pur preziosissimo sangue, ma un’immagine completa: e non dipinta da mano umana, ma impressa miracolosamente nelle fibre del tessuto. “Acheropita”, dicevano i greci. Una Vera Icona, dicevano i cristiani d’occidente.

Una fotografia, diremmo noi.

La Veronica di Hans Memling (1475, notate le due punte della barba).

È forse la prima volta nella storia della fantasia occidentale che la fotografia viene non inventata, ma almeno immaginata: e per essere una fantasia è già sorprendentemente nitida. C’è già l’idea del ritratto, e soprattutto dell’istantanea, dello scatto, ovvero la cosa che più distingue la pittura dall’arte fotografica molto al di là da venire (anche dopo l’invenzione della camera oscura e del dagherrotipo, ci vorrà ancora parecchio tempo prima di ottenere immagini istantanee). È un’idea straordinaria, che nasce nelle terre dell’Impero d’Oriente, in una situazione storica molto particolare, ma alla Chiesa d’occidente non è andata sempre a genio: e così nella Via Crucis approvata da Roma, Veronica dovette limitarsi a raccogliere sangue e acqua, senza ricavarne nessun’immagine miracolosa. I predicatori confondevano volentieri Berenica/Veronica con un’altra comparsa femminile dei vangeli, l’emorroissa guarita da Gesù. La leggenda però non era sparita del tutto e ogni tanto qualcuno riportava dalle terre d’oriente una santa veronica. Il telo era meno richiesto della scheggia della Vera Croce o della Vera Lancia, ma comunque anche per gli asciugamani col volto di Cristo c’era un mercato. Non si doveva nemmeno dimostrare che fosse la veronica originale: i fedeli si sarebbero accontentati di una copia il più possibile conforme.

Il Volto di Vienna

Questo spiega ad esempio come mai se ne venerino senza difficoltà tuttora una mezza dozzina: un paio in Spagna, ad Alicante e a Jàen; una a Genova nella chiesa di San Bartolomeo degli Armeni (dono dell’imperatore Giovanni V Paleologo). Quella nella Schatzkammer del palazzo Hofburg di Vienna è notevole proprio perché non ci prova nemmeno a sembrare un ritratto: è decisamente una macchia scura su un panno, quel che potrebbe succedere se provassimo a sviluppare un negativo slightly out of focus scattato mille anni fa da un reporter emozionato. Né pretende di essere l’originale: reca persino la firma di “P. Strozzi”, un segretario di papa Paolo V che nel 1617 ne fece produrre una tiratura limitata di sei esemplari. Ma qual era l’originale fedelmente serigrafato da Strozzi? In Vaticano ce ne sono due. Quella custodita nella cappella di Matilda, citata per la prima volta in un documento papale del 1517 che ne disapprovava l’esposizione; oppure quella su tela che viene esposta la quinta domenica della Quaresima, con ben poca pubblicità, considerato che si tratterebbe dell’istantanea per quanto sfuocata del volto di Cristo.

La veronica vaticana, che forse di punte nella barba ne ha tre.

Da quel poco che si riesce a vedere si tratta davvero di un’ombra sbiadita su un panno. Oppure è una patacca, una copia della copia: anche questo è plausibile, dal momento che i cronisti l’avevano data per persa in qualche taverna durante il sacco di Roma dei lanzichenecchi protestanti nel 1527. La veronica vaticana è così deludente che nel momento in cui l’idea di un fotoritratto di Gesù è tornata prepotentemente di moda, papa Ratzinger ha deciso di investire su un’altra immagine, il Volto Santo di Manoppello in provincia di Pescara: una tela stilisticamente più vicina al Rinascimento che al Medioevo. È chiaramente un dipinto, lo capirebbe un bambino e senz’altro lo capisce uno studioso con la cultura e il gusto di Ratzinger; ma presenta il grosso vantaggio di assomigliare un po’ al volto della Sindone di Torino.

Sul volto di Manoppello si sono lette cose incredibili, non nel medioevo, ma di recente: c’è chi ha sostenuto che non ci siano pigmenti sulla tela ma poi ha dovuto smentire; chi ci ha spiegato che è fatta con un tessuto raro di origine marina, il bisso, che veniva adoperato anche per i sudari dei faraoni, su cui sarebbe impossibile dipingere; ma il bisso nel Rinascimento non era poi così raro, oltre ai faraoni lo usavano anche i pescatori, Vasari ci racconta che almeno Albrecht Dürer non aveva difficoltà a dipingere su tele di bisso (il volto di Manoppello assomiglia anche agli autoritratti di Dürer) e inoltre – colpo di scena – finché la Chiesa non accetta a fornire un campione, non possiamo nemmeno essere sicuri che il tessuto sia bisso; potrebbe essere del comunissimo lino.

Autoritratto in forma di Gesù Cristo (o di rockstar), Albrecht Dürer, 1500 (ecco, questo se non lo conoscessi potrei davvero scambiarlo per una foto).

Tutte le veroniche occidentali sembrano derivare da uno stesso modello perduto che ci piace immaginare sia il Mandylion di Edessa (oggi Şanlıurfa, Turchia sudorientale), una delle icone più antiche e venerate della cristianità. Se ne sono perse le tracce dopo i saccheggi della Quarta Crociata, quella imbarazzante che i veneziani dirottarono su Costantinopoli perché volevano essere pagati in anticipo per il trasporto. Ne abbiamo comunque tantissime riproduzioni, che ci danno un’idea su come fosse fatto: un volto barbuto disegnato senza sfondo e senza collo. Non è chiaro se l’aureola ci fosse o no (nelle versioni occidentali non c’è). La leggenda di Veronica forse aveva preso forma proprio per spiegarne l’esistenza; eppure il Mandylion è più antico. Sappiamo infatti che nei primi secoli non era affatto considerato acheropita. Proprio come la più famosa immagine miracolosa del Nuovo Mondo, la vergine della Guadalupe, venerata come icona dipinta per più di un secolo, prima che qualcuno cominciasse a raccontare la storia del miracoloso scatto fotografico.

Re Abgar riceve un souvenir dalla Palestina (miniatura).

In effetti nel primo racconto che attesta l’esistenza del Mandylion, gli Atti apocrifi dell’apostolo Taddeo, la tela era stata dipinta dal vero per il re di Edessa, Abgar V il Nero, da un suo funzionario, Hannan. Abgar V lo aveva mandato a cercare Gesù Cristo perché era ammalato e ne aveva sentito parlare un gran bene come guaritore; Cristo naturalmente aveva altri impegni ma aveva apprezzato la lettera di Abgar e si era fatto ritrarre per lui, un pensiero gentile. Abgar era miracolosamente guarito, i suoi sudditi si erano convertiti e la città ne aveva guadagnato una reliquia di prim’ordine. All’inizio, insomma, il Mandylion si conquista una preminenza tra i ritratti di Cristo perché è considerato semplicemente il più antico e fedele all’originale, dipinto da mano umana ma dipinto dal vero. Siamo già nel VII secolo: gli abitanti di una popolosa città dell’Impero Bizantino hanno una certa dimestichezza coi ritratti, e sanno che il Mandylion, per quanto eccezionale, rientra in questa categoria. Poi le cose cambiano.

Nel secolo successivo scoppia la guerra delle icone, che oggi rischiamo di liquidare come una rissa tra due fazioni di superstiziosi ma è qualcosa di più, l’ennesimo round di un lungo scontro tra due concezioni antitetiche della divinità: gli iconoduli (i devoti alle immagini) la pretendono concreta, incarnata nella carne e nel sangue di Gesù, documentata da reliquie, riproducibile con ogni tecnologia disponibile, addirittura commestibile nell’ostia e nel vino. Dio è entrato nel mondo, ha perforato i nove cieli e si è fatto carne. La passione di Gesù non è un mito da intepretare, ma un fatto storico: esistono le prove, si possono toccare. È un’idea rivoluzionaria, che crea una frattura coi saperi tradizionali greco-romano-giudaici, e che viene accolta con entusiasmo soprattutto dai ceti più bassi.

Giovanni Damasceno, l’arabo che amava la Madonna.

Gli iconoclasti, “distruttori delle immagini”, malgrado il nome rock’n’roll sono viceversa spesso i membri di un élite intellettuale e sociale; a una religione basata su ossa e pezzi di carne oppongono una concezione più astratta e spirituale (e tradizionale), una divinità assoluta incommensurabile e irraffigurabile: in oriente avevano lottato a lungo per l’egemonia, finendo spesso scomunicati come eretici, gnostici, monofisiti o monoteliti; finché non era arrivato l’Islam a soccorrerli, con la predicazione iconoclasta di Maometto e con le armi. Anche Bisanzio ebbe un paio di imperatori iconoclasti: le immagini venivano ciclicamente distrutte e poi riabilitate, nel complesso si fecero più rare e forse a un certo punto l’esperienza di vedere un volto dipinto, come quello del Mandylion, divenne qualcosa di eccezionale. Proprio in quel momento un eroico difensore delle icone nelle terre d’oriente, Mansour Ibn Sarjun AKA Giovanni di Damasco, gioca l’asso che riapre la partita: il Mandylion non l’avrebbe prodotto il funzionario Hannan, ma Gesù Cristo in persona. E siccome non riusciamo a immaginare Gesù che si dipinge allo specchio come quel vanesio di Albrecht Dürer, evidentemente si trattava di un miracolo: le forme dovevano essersi impresse nella tela senza sforzo, nel flash di un istante: selfie! 

Prima di Giovanni Damasceno anche il cronista Evagrio Scolastico alla fine del VI secolo aveva parlato di un’immagine “di origine divina” che, scoperta in una fessura delle mura di Edessa, aveva salvato la città da uno dei periodici assalti dei persiani sassanidi. Nei verbali del Secondo Concilio di Nicea (787) il Mandylion viene definito charactèr, “impronta”: con la stessa parola si definiva l’immagine sul conio delle monete. Il concilio sanciva la prima vittoria degli iconoduli contro gli avversari; ma si poneva anche il problema di regolare la produzione delle icone ed evitare derive idolatre.

Il Mandylion non era solo l’impronta della divinità, la prova che Cristo era favorevole ai ritratti, ma era anche il modello da imitare per tutte le immagini sacre da quel momento in poi, un po’ come la sbarra in platino-iridio nell’Archivio Internazionale di Pesi e Misure di Sèvres è il modello di tutti i metri del mondo. Con la piccola differenza che la sbarra è ancora a Parigi, in un frigorifero che la mantiene a 0°, e se proprio ci tieni te la fanno vedere, mentre nel 787 il Mandylion, il Ritratto Zero, era praticamente perso. In teoria era ancora a Edessa, ma Edessa era passata ai persiani zoroastriani, poi di nuovo ai bizantini, poi agli arabi musulmani, e il telo in teoria così efficace contro le invasioni a un certo punto s’era perso di vista: qualcuno lo aveva visto buttato in un pozzo. Ogni tanto veniva miracolosamente ritrovato, ma insomma, è chiaro che nel mondo islamico un pezzo del genere era sprecato. Prima o poi i bizantini avrebbero dovuto recuperarlo: ci misero un altro secolo, e un’altra crisi iconoclastica, ma alla fine nel 943 l’imperatore Romano I diede il via libera e un generale bizantino, Giovanni Curcuas offrì ai reggenti di Edessa 12.000 corone d’oro, la libertà a duecento prigionieri di guerra e uno status di immunità perpetua per la città: tutto in cambio di un disegno su una tela che forse non esisteva più da duecento anni.

Ora voi mettetevi nei panni della controparte: si può dire di no a un’offerta così? Almeno proviamoci, disegniamo una faccia barbuta su una tela, è vero che in quanto musulmani magari non siamo i più bravi coi ritratti, ma insomma vediamo come va. La prima versione offerta ai cristiani in effetti viene rigettata da Curcuas come un falso, un dettaglio intrigante perché ci fa immaginare una sorta di contrattazione: dicendo di no al primo prototipo, Curcuas avrà avuto la possibilità di far capire agli interlocutori che tipo di prodotto si aspettava che gli portassero: mi serve un volto più realistico, la barba mi raccomando a due punte, (nelle copie che abbiamo a Bisanzio ha sempre due punte), ecc. ecc.. Gli edessini recepiscono e finalmente riescono a produrre il Mandylion originale. Curcuas, tutto contento, lo impacchetta e lo porta a Costantinopoli, dove lo aspettano glorie e onori, e soprattutto una grande curiosità: in quel telo c’è il vero volto del Cristo! Chissà quant’è bello! E i capelli come li avrà: neri o castani, lisci o crespi? (non credo che nessuno a Costantinopoli nel X secolo si immaginasse dei boccoli biondi). Tutta una serie di dettagli teologicamente insignificanti ma irresistibili per il popolino medievale e anche per noi, che se in una gallery di internet ci mostrano “la ricostruzione 3d del vero volto di Gesù” prima o poi clicchiamo. Ma la famiglia imperiale, quando finalmente può vedere in anteprima, il Primo Ritratto, come reagisce? In un modo assai strano e suggestivo.

Una cronaca racconta che i figli dell’imperatore non riuscivano a vedere proprio niente; mentre il loro zio acquisito, Costantino Porfirogeneto, ne prova subito un’immensa emozione. Questo forse significa semplicemente che per il cronista Costantino meritava di succedere al trono imperiale più dei figli legittimi di Romano I, cosa che effettivamente accadrà (la Storia la scrivono i vincitori). Ma c’è un’altra ipotesi, molto più affascinante: forse i figli non vedono nulla perché, essendo giovani e principi, si sono proprio messi davanti al telo, mentre l’immagine si riesce a vedere solo alla distanza di qualche metro. A qualche metro c’è appunto Costantino Porfirogeneto, che non solo si trova nel punto di vista migliore, ma ha anche l’età, l’esperienza di vita necessaria per capire che quell’immagine è davvero straordinaria, diversa da qualsiasi altra.

Un’ipotesi intrigante, anche per le porte che spalanca. Un’immagine che non può essere vista da vicino ma soltanto da lontano: esistevano immagini del genere nel medioevo? Come potevano essere realizzate? Il primo esempio che viene in mente è almeno di tre secoli più tardo, ma è pur sempre medioevo; e inoltre è anch’esso un ritratto di Cristo, a modo suo. È la Sindone di Torino, sempre lei.

(Continua)

(Lo so che a volte scrivo continua e poi passano cinque anni e deve ancora continuare, però stavolta c’entrano i Templari, i catari, i massoni, il CICAP, nonché un povero cristo torturato a sangue per ottenere una reliquia il più possibile realistica, insomma stavolta forse continua davvero).

Leonardo Tondelli

Da Modena. Nel 1984 entra alla scuola media, non ne è più uscito. Da 15 anni scrive su uno dei più verbosi blog italiani, leonardo.blogspot.com. Ha scritto sull'Unità e su altri siti. Sul Post scrive di Dylan e di altri santi del calendario.