La lunga scia del World Press Photo

Molti anni fa ho fatto un viaggio a Cuba. Mentre passeggiavo per le strade dell’Avana Vecchia, mi sono imbattuta in un gruppo di bambini delle scuole elementari in gita con le loro maestre. Erano tanti, in file ordinate con camicie azzurre. Attraversavano una piazza, composti e silenziosi, per andare a vedere la mostra del World Press Photo che si teneva proprio lì in un edificio di cui non ricordo il nome. Mi sono accodata e ho seguito la loro visita guidata.
Le maestre spiegavano, raccontavano questa o quella guerra, questo o quel disastro senza drammatizzare e senza particolare enfasi. In fondo erano in gita.
I bambini ascoltavano eccitati, ridevano, s’impaurivano e si stupivano davanti alle immagini.
Conoscevo già le infinite possibilità della fotografia ma quella casualità era stata una conferma della sua possibilità didattica.

Parecchi anni dopo quel viaggio a Cuba, sono stata chiamata dal World Press Photo per far parte di uno dei loro (tanti) programmi educational. Sono stata in Angola per un workshop dedicato ai fotografi locali insieme a Seamus Murphy, fotografo irlandese trapiantato a Londra, ottimo narratore di vicende afghane. In dieci giorni abbiamo cercato di insegnare le regole della ripresa sul campo (lui) e la sera – dopo le giornate di riprese nell’inferno dell’“open air market” della capitale – quelle dell’editing (io). Con ognuno di loro abbiamo costruito un racconto, lavorando sodo e sono certa che lo scambio è stato proficuo per entrambi, umano e professionale. Siamo rimasti in contatto per parecchio tempo dopo quell’esperienza.

Sono passati altri anni ancora e sono stata chiamata in giuria per due edizioni consecutive del World Press Photo. Ho conosciuto persone interessanti che mi hanno aperto la mente e altre che mi hanno indisposto. Ci sono stati confronti molto aspri. Ho litigato furiosamente. Ho difeso i lavori in cui credevo. Ho patito le decisioni della maggioranza quando non ne facevo parte. È la natura di questo premio generalista ed eterogeneo, nelle sue giurie e nelle valutazioni.
In questi giorni tutti mi chiedono come funziona: come è stato possibile il caso Charleroi; cosa succede quando sei lì.
L’ho spiegato subito dopo le esperienze in giuria su queste pagine. Lo ripeto in questi giorni perché penso abbia senso continuare a raccontare un’esperienza che ha un valore per chi la vive, per chi partecipa e per chi osserva i risultati di questa competizione.

Per questo ho raccontato oggi la mia storia con il World Press Photo, affinché ci possano essere differenti approcci al giudizio sul premio e sull’istituzione che c’è dietro.

Leggo su Internazionale l’intervento di Christian Caujolle che invoca l’abolizione dei premi, riferendosi chiaramente a quello in questione. Con lui concordo sempre su tutto, compreso buona parte delle cose che dice nell’articolo sul premio dato e poi tolto al lavoro di Giovanni Troilo su Charleroi. Non concordo sulle sue conclusioni.

C’è un’istituzione, il Wpp, che vanta 58 anni di esperienza, diffonde la fotografia nel mondo, funziona, è rodata, suscita consenso e dissenso, polemiche e forti ostilità. L’istituzione ha raccolto negli anni, sponsor e ampliato il suo raggio d’azione: il masterclass per giovani fotografi da tutto il mondo è stato un’esperienza fondamentale nella carriera di molti dei grandi fotografi che conosciamo oggi. Il premio patisce, annaspa nella difficoltà di dominare il veloce cambiamento imposto dalla rete e dalla diffusione dei sistemi digitali, dalla crescita esorbitante del numero di fotografi o sedicenti tali che vi partecipano, dalla confusione che regna in questa professione che inevitabilmente si travasa nell’offerta delle storie proposte.

Manipolazioni, trucchi, messe in scena, montaggi, esasperazioni cromatiche hanno reso più celere la possibilità di conquistare una ribalta internazionale e appendere la menzione come una stella conquistata sul campo. Non è così ovviamente e tanti premiati vengono fortunatamente dimenticati dopo la stagione.
Il regolamento va rivisto, l’abbiamo detto. Servono maggiori filtri di selezione. Le giurie devono essere all’insegna della qualità e dunque rimettere al centro la passione per la fotografia e la conoscenza della stessa. Forse serve abolire qualcosa del vecchio regolamento per favorire l’aspetto narrativo del lavoro giudicato.
Invocare la fine stessa del premio però mi pare presuntuoso e inutilmente esagerato.
Altrettanto esagerato è ergersi a giudice di una presunta “autenticità” del fotogiornalismo: Jean Francois Leroy, padrone di Visa Pour l’Image, ci riesce benissimo.
Interviene in questo dibattito a gamba tesa decidendo di escludere la mostra del World Press Photo dalla prossima edizione del suo festival. Il luogo per eccellenza dove negli ultimi anni si vedono orrori e manipolazioni che hanno trasformato il genere stesso delle immagini facendo dei reportage una spettacolarizzazione tanto noiosa quanto superficiale dei drammi dell’anno, mandati in scena su grandi schermi, a tinte forti e colonna sonora dedicata.

Per tornare al caso in questione: schiere di difensori e di detrattori dibattono in rete e in privato dell’opportunità di mostrare il lavoro di Giovanni Troilo in altri contesti.
Cortona On the Move, il festival che si svolge a luglio nell’omonimo borgo toscano ha annunciato che esporrà in mostra il lavoro incriminato nella prossima edizione per restituire la completezza del progetto. Non che ne abbia sentito la mancanza (della completezza), quanto della chiarezza.
Il lavoro a mio avviso è bello. Ha un’estetica coerente e una buona costruzione narrativa. Mi è sembrato da subito evidente che fosse “fiction” e dunque messa in scena. Troilo è stato più che ambiguo nella spiegazione e il Wpp superficiale e incoerente verso se stesso nell’assegnargli il premio, dato il regolamento che vieta questo genere di “costruzione”. Ma a ben guardare, molte assegnazioni di questa e moltissime delle passate edizioni sono decisamente “fuori regolamento”. C’è un sospetto risveglio di massa giudi moralizzatori dell’ultima ora.

Per non farla più lunga del dovuto; i premi non vanno aboliti, ci sono bambini in ogni angolo del mondo che imparano, ascoltando le loro maestre mentre guardano le immagini col naso all’insù.
Ci sono fotografi, in tante megalopoli che hanno bisogno di capire di più del loro mestiere: sono quelli che non hanno accesso a residenze d’artista e non possono permettersi costosi workshop tra le colline dei borghi italiani, francesi o americani.
Ci sono dibattiti come quello successivo a questa edizione del Wpp, titolati “polemiche inutili” che, a mio avviso servono, eccome se servono, non per abolire questo o altri premi – chi siamo noi per invocarlo – ma per correggere i passaggi ambigui di un regolamento vecchio e obsoleto; per fare in modo che il Wpp la smetta di smentire se stesso; per invitare a una maggiore attenzione alla qualità delle giurie e infine, per riposizionarsi al suo posto congeniale nel panorama della fotografia che è quello della didattica e della divulgazione.

Il World Press Photo questi passaggi urgenti e necessari li dovrà fare in fretta altrimenti sarà costretto dalla storia a rinunciare al proprio motto: “We exist to inspire understanding of the world through quality photojournalism.”

Renata Ferri

Giornalista, photoeditor di "Io Donna" il femminile del "Corriere della Sera" e di "AMICA", il mensile di Rcs Mediagroup. Insegna, scrive, cura progetti editoriali ed espositivi di singoli autori e collettivi.