Djohariah

Settimana scorsa volevo scrivere la rubrica di Vanity Fair sul lungo e ipnotico pezzo che chiude l’EP di Sufjan Stevens. Poi mi ha preceduto Christian Rocca.

Djohariah è la sorella di Sufjan. La canzone è un inno alle ragazze madri. Una ballata gotica. I primi dodici minuti sono Pink Floyd allo stato puro. Un’elegia musicale che inizia con un coro “ooh, aah” accompagnato da un sinistro assolo di chitarra che sembra chiedere perdono a qualcuno, che quasi teme di pronunciare il nome della ragazza, che certamente avrebbe da dire qualcosa ma non ci riesce. Le trombe e i fiati aprono la strada. Le voci iniziano a scandire: «Djohari, Djohariah». Undici minuti e 44 secondi di crescendo orchestrale, poi comincia un’altra canzone. Scopriamo che Djohariah è stata lasciata da un marito traditore, violento, cattivo «heart grabber back stabber double cheater wife beater». «Non hai bisogno di quell’uomo nella tua vita», le dice Sufjan. «Sei una donna gloriosa e vittoriosa, la madre del cuore del mondo». «Non vergognarti, non nasconderti nella tua stanza, non piangere in bagno», «il mondo è vostro», «vai avanti sorellina, vai avanti».


Vedi anche:

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).