Da Capaci a Brindisi

Vent’anni dopo si passa da Capaci a Brindisi, da Totò Riina a un probabile e terribile caso umano, dalla mafia militare – che è stata sconfitta – all’antimafia che ogni volta cerca di riesumarla.
Non è il senno di poi, questo: comunque sia andata, bastavano trenta secondi per concludere che a Brindisi nessuna mafia o terrorismo avrebbe usato una bomba così sfigata, fatta con bombole del gas di uso comune e con un detonatore da vendita per corrispondenza, azionato da un professionista così abile da farsi riprendere da una telecamera; concludere che non c’era una sola ragione logica o territoriale perché la criminalità organizzata o chiunque altro dovesse passare dal tritolo serie T4 del 1993 (piazzato in punti culturalmente simbolici a Milano e Roma e Firenze) a un ordigno rudimentale piazzato proprio a Brindisi e proprio davanti a un istituto turistico; concludere, tra l’altro, che nessun precedente riporta a killeraggi del genere contro la popolazione e addirittura contro ragazzine di 16 anni. Tutto questo qualche addetto ai lavori l’ha anche detto subito, con tutte le accortezze del caso: ma non è bastato a fermare le solite germinazioni dietrologiche su un terreno che qualcuno, in Italia, si preoccupa sempre di irrigare a dovere. Scriviamo questo senza neppure sapere con precisione, a Brindisi, chi sia stato il colpevole: su chi non è stato, tuttavia, sono abbastanza certo, e lo dico, mi espongo. Ecco perché mi paiono così penose le parate di chi, anche tra gli inquirenti, «non esclude» questo e quest’altro. Il procuratore capo di Brindisi è arrivato a considerare seriamente, senza elementi, che l’attentato sia ricaduto su quella scuola perché intitolata neppure a Falcone, ma a sua moglie Francesca Morvillo. Di elementi in realtà ce n’era uno solo – il video del presunto attentatore – e sono riusciti a farlo uscire sui giornali praticamente in tempo reale, probabilmente danneggiando le indagini, sicuramente indisponendo la Dda di Lecce e non solo quella: ma non scriveremo di «guerra tra procure», sennò i procuratori si dispiacciono.  A Brindisi ipotizzano l’attentato mafioso, a Lecce lo escludono: ci faranno sapere.

Di Beppe Grillo non c’è da dire una parola: lui la bomba la «sentiva nell’aria» (poteva avvertire) ma ti spiegano che sparare cazzate fa parte della sua dimensione neopolitica. Peraltro sabato, alla manifestazione al Pantheon, si sentivano nell’aria anche i colpevoli, i soliti servizi-mafia-Stato che vorrebbero fermare il «nuovo»: a Palermo sarebbe Leoluca Orlando, uno che era già sindaco del 1985 e che mascariò Falcone come già raccontato. Nicola Zingaretti, il presidente della Provincia, ovviamente ha chiesto di colpire «i mandanti». Persino Gianni Alemanno ha parlato di attacco mafioso «che ha scelto il ventennale della morte di Falcone per lanciare un segnale». E poi la Cgil, Libera, l’Arci: chi fosse il colpevole pareva quasi secondario, il cui prodest eleggiava su tutto. Di Pietro si è scagliato contro «qualcuno che vuole il caos e che in questa situazione politica ed economica vede la possibilità di scatenarlo di nuovo». Maurizio Landini (Fiom) ha detto che «poteri occulti hanno tentato una strage per mettere paura proprio mentre sono in atto cambiamenti nel Paese». Poi il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia – poteva mancare? – ha parlato di analogie con le stragi di mafia del ’92-’93, chissà, magari c’è sotto una trattativa. Del resto Giancarlo Caselli, nume tutelare di Ingroia, aveva già parlato di «rischio di poteri occulti o deviati».

Sono ancora lì che straparlano di mafia, questi. In Italia si ammette che è stato storicamente sconfitto il terrorismo, ma quello che non vi diranno mai – mai – è che anche la battaglia contro la mafia è stata sostanzialmente vinta. La struttura gerarchico-militare è stata decapitata, i capi-latitanti sono in galera, i sottoposti pure, non si contano killer ed estorsori e picciotti e prestanome e palazzinari pure incarcerati, i sequestri di armi e droga e ingenti patrimoni ormai non si contano, le bombe e le stragi e gli omicidi seriali non ci sono più, la presa sul territorio è scomparsa o allentatissima,  i traffici internazionali sono interrotti o in mano alla ‘ndrangheta. Ovviamente persistono i piccoli clan nonché una criminalità organizzata più generica, dedita al riciclaggio, alla finanza, agli appalti «legali» soprattutto nella sanità: ma non è più un’emergenza territoriale e un terrore quotidiano. Va combattuta – come si fa in tutto il mondo – ma avrete notato come mafiologi e ciarpame antimafia, oggi, si concentrino soltanto sul passato, sulla paleontologia giudiziaria, sulla rielaborazione infinita e cervellotica di fatti ventennali, sull’eterno ritorno. Giovanni Falcone disse che la mafia è una cosa umana e che perciò avrebbe avuto una fine come tutte le cose umane. Ma parlava della mafia, non dell’antimafia: non delle cialtronate dietrologiche, delle fiaccolate e dei cortei luttuosi, dei video e degli appelli, dei clan dei familiari e degli avvoltoi, della retorica e dei picciotti della memoria.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera