C’è poco da ridere?

Mi capita spesso in questi giorni di sghignazzare. Eppure non c’è veramente niente da ridere in quel che sta succedendo nel nostro mondo, vicino e lontano, né tanto meno di noi stessi. La causa delle mie risate è che mi è capitato tra le mani un libretto fantastico, appena pubblicato: Tempi Felici (1972; traduzione italiana di Adelphi), dello scrittore ungherese Ferenc Karinthy (1921-1922), autore del già straordinario Epepe (1999; trad. it. Adelphi, Milano 2015). Il protagonista, Józsi Beregi, un giovane ebreo appassionato di calcio, in fuga dai tedeschi e dalle famigerate Croci Frecciate, nella Budapest del dicembre 1944, con le truppe sovietiche ormai alle porte, passa da un’avventura sessuale all’altra con donne che lo nascondono, proteggono e, soprattutto, sfamano.
Così la tragedia (che vide il massacro di 600.000 ebrei ungheresi) passa sullo sfondo della Storia, e ciò che ha il sopravvento è la risata, che raggiunge il culmine quando Józsi si salverà seducendo la popputa crocefrecciata che lo ha arrestato e lo sta conducendo al Danubio (dove gli ebrei venivano legati due e due e, per non sprecare colpi, gettati assieme nelle acque ghiacciate): suadente e maliardo, le dice che la immagina in sottoveste nera, annusa da esperto il suo profumo, e così finisce a letto nella calda e ben approvvigionata casa di lei…

Mentre leggevo Tempi felici un po’ mi vergognavo delle mie risate, perché il contesto nel quale si svolgeva la vicenda era decisamente tragico. Ma la spensieratezza sessuale del protagonista è talmente forte da suscitare un’ammirata ilarità. Questo libro mi ha fatto tornare in mente un romanzo della letteratura italiana parecchio trascurato: Una donna al giorno di Giovanni Comisso (pubblicato nel 1949; oggi: Neri Pozza editore, Vicenza 1996). Tralascio la questione filologica, ormai risolta, se l’autore, che compariva nella copertina della prima e censurata edizione, fosse Gigetto Fugallo, alias Gigetto Pavanello, oppure veramente Giovanni Comisso. Il giovane soldato italiano, protagonista del romanzo, attraversa la mattanza della Seconda guerra mondiale prima in Grecia, poi a Budapest (di nuovo Budapest! che, tra le due guerre, era in effetti considerata, grazie ai suoi romanzi e alle operette, la capitale di una certa “leggerezza del vivere”), fino a Danzica e infine in un campo di prigionia tedesco di Bromberg… Non c’è donna che questo italico militare, degno erede del buon soldato Sc’vèik, non si porti a letto. La girandola di focosi amori, nelle situazioni più improbabili, sortisce un sorprendente effetto comico. Dopo un po’, è come se la guerra con i suoi drammi scorresse accanto, quasi inoffensiva.

Questi due romanzi sono esempi di ironia difensiva: una rappresentazione del mondo che esagera il sesso come surreale arma contro il Male. Il Male in questo modo appare ridicolo. E così deve essere rappresentato. Dobbiamo impegnarci a sommergere di risa chi incita all’odio razziale, va fiero della propria stupidità, contribuisce al dilagare del cattivo gusto, si approfitta delle difficoltà e del disorientamento di molta gente, solleticandone gli istinti più bassi. Per questi individui non deve esserci rispetto né comprensione: soltanto risate. Ma risate allegre e leggere, mai volgari, crudelmente offensive e scorrette (verso difetti fisici o svantaggi). Anche perché ridere è qualcosa che ha un significato metafisico: ha a che fare con Dio o gli dei.

Un bel proverbio ebraico dice: “L’uomo pensa, Dio ride”. Coloro che lo credono, immaginano la nostra esistenza come un grande teatro comico per un solo Spettatore che da lassù sorride dei nostri goffi tentativi di capire il mondo, di dargli un senso: dal suo punto di vista, i nostri pensieri e le nostre azioni, anche le più terribili, sono probabilmente uno spettacolo divertente. Ultimamente, si può immaginare che il Grande Spettatore, stia veramente sghignazzando. Il sospetto che la nostra vita e la nostra Storia siano un divertimento di Dio (o degli dei) è piuttosto forte. In fondo, anche Platone, nel suo ultimo scritto Leggi, sospettava che “ciascuno di noi esseri viventi è come un mirabile burattino, costruito dagli dèi, o per suo svago o per qualche serio motivo, questo non lo sappiano” (644 D).

Abbiamo da imparare dalla cultura ebraica che, oltre al rispetto, al timore e all’amore, ha sviluppato progressivamente una vena comica che, come nelle migliori tradizioni del cabaret, tenta di interloquire con quel solo membro del nostro pubblico collocato in alto. In un continuo confronto con Dio, anche dopo le più grandi sofferenze, l’umorismo ebraico cerca di mantener vivo questo singolare spettacolo, nel quale si impara e si tenta di affrontare la vita con una poetica filosofia della sopportazione, mai rassegnata. L’umorismo ebraico è una formidabile arma di difesa e di attacco. Non prende in considerazione la rinuncia né la resa, ma anzi si incaponisce a chiamare continuamente in causa Dio, per raccapezzarsi nel disordinato e oscuro teatro nel quale siamo stati, non per nostra scelta, chiamati a recitare. Come ha spiegato lo psicoanalista Cesare Musatti (in: Mia sorella gemella la psicoanalisi, Editori Riuniti 1982):

«L’ebreo è colui che con le proprie caratteristiche, anche di sfortuna, di miseria e di stenti, e insieme dei personali elementi caratteriali da un lato, e la sua capacità dall’altro di sapersi destreggiare in queste situazioni difficili, riesce a convertire, attraverso gli artifici comici di cui lui stesso fa le spese, la propria infelicità in uno stato di dominio della situazione».

L’umorismo ebraico è uno degli elementi distintivi della Modernità e uno dei cardini della cultura occidentale. Con la cultura ebraica l’ironia non è più soltanto indirizzata verso l’ ”esterno” (com’è stata la Satira), ma si rivolge anche verso l’ “interno”, diventando Autoironia. In occasione di un simposio che che si svolse alla Jewish Public Library di Montréal nel 1964, il già molto compianto Leonard Cohen definì l’ebraismo “una secrezione con cui una tribù orientale ha avvolto un’irritazione divina: un confronto diretto con l’assoluto. Oggi bramiamo la perla, ma non vogliamo sostenere l’irritazione”. Questa “irritazione” è possibile sostenerla mettendosi in una sintonia ironica col divino, rispetto a ciò che accade nel mondo. Se siamo divertimenti di Dio, non ci resta che ridere anche noi. E ridere bene, anche se non è facile, soprattutto per quelli della mia generazione che andavamo all’università quando sui muri c’era scritto: “Un risotto vi seppellirà” o “Il prof. Tal de Tali e il suo assistente fanno ridere la gente”. Ma non eravamo, salvo qualche eccezione (“il Male”, “Frigidaire”, “Tango” e “Cuore”), tanto bravi a ridere, tantomeno di noi stessi.

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).