Carfagna d’autunno

Se è una guerra per bande, Mara Carfagna ha la sua. L’appellativo di «zarina» nell’insieme ci sta tutto: vai a sapere, poi, in quale banda stiano i banditi veri. Le cose che dicono di Mara Carfagna sono quasi tutte fondate, spesso infastidiscono non perché lei sia peggiore di altri – da quelle parti è difficile – ma perché lei si è permessa di essere già come tanti altri: ecco allora che il suo non-curriculum si fa insopportabile, ecco che diviene, per molti, una miracolata calata dall’Altissimo che tresca con Italo Bocchino contro il Pdl, diviene una che ha solemente il potere di poter chiamare Papi ogni tre minuti per avere questo, e togliere dalla lista quest’altro, e chiedere tutto e sempre di più: sinché Papi non s’incazza. E forse si è incazzato.

Resta che è tutto abbastanza vero. O quasi. Le famose intercettazioni che riguarderebbero lei e Berlusconi (roba erotica) non esistono, non sono mai esistite: è una balla sovralimentata e tenuta in vita da un curioso asse Corriere della Sera-Riformista. Tutte le sciocchezze che hanno scritto sui suoi occhi spiritati (blefaroplastiche, lifting, cocaina, ipertiroidismo) sono appunto sciocchezze che celano un risvolto molto più banale e che non c’è ragione di rivelare. Ma tutto il resto, beh. Nel 2005 ha fatto un calendario tutto sudato e scapezzolato, nel 2006 è entrata alla Camera e nel 2008 era ministro: questo è vero.
Niente di strano se, quando indisse una conferenza stampa e disse «non comprendo chi vende il proprio corpo per trarne profitto», qualcuno ridacchiò ripensando a quel calendario che aveva fatto il giro del mondo. Mara Carfagna ha conosciuto Silvio Berlusconi pure lei tramite Emilio Fede: pare sia vero anche questo. Ha lavorato con Davide Mengacci per anni senza mai aver mai pronunciato una sola parola che riguardasse la politica, ci ha cenato più volte assieme in compagnia dell’allora fidanzato Marco Carboni (figlio di Flavio, quello della ridicola P3) dopodiché è scomparsa, Mengacci non l’ha mai più sentita: «Una macchina», l’ha definita. L’autore Michele Guardì, che sostiene di averla avviata per primo al mondo dello spettacolo dopo averla intravista a Miss Italia nel 1997 (aveva il numero 100) l’ha definita direttamente «un’ingrata» e ha raccontato che «non mi ha mai più chiamato, anzi ha fatto di peggio: mi ha fatto chiamare da un segretario per rispondermi che non poteva venire in trasmissione».

Chi esce dalle sue grazie smette di esistere: anche questo purtroppo è vero. In giugno ha pubblicamente disconosciuto una sua fedelissima, Anna Ferrazzano, colpevole di essere stata candidata a vicepresidente della giunta provinciale dell’odiato Edmondo Cirielli. In precedenza aveva imposto come coordinatore provinciale (con consulenza al Ministero) un tizio che conosceva da vent’anni e che l’accompagnava per discoteche, Antonio Mauro Russo: ma in giugno ha mollato anche lui non appena il ragazzo ha preso a camminare con le proprie gambe: è divenuto assessore provinciale, ma «il Ministro Mara Carfagna non ha mai condiviso la sua nomina ad assessore» recitava un gelido comunicato. Mauro Russo, però, ha fatto in tempo a raccontare che Mara a ogni sua richiesta rispondeva sempre così: «Rivolgiti a Italo Bocchino». Questo appunto in giugno, periodo decisivo: è stato allora che il ministro delle Pari Opportunità si è inventata una segreteria politica personale a Salerno (anche perché quelli dell’altra banda, Cirielli e Cosentino, non l’invitavano neanche più alle riunioni ufficiali) e ci ha messo a capo Matteo Cortese, ex assessore comunale in quota An, costruttore-palazzinaro impegnato in varie lottizzazioni e soprattutto socio di Bocchino in un giornale locale che scrive regolarmente peste e corna del Pdl.

Domanda: c’è un conflitto d’interessi tra le lottizzazioni di questo Matteo Cortese e la costruzione del termovalizzatore che dovrebbe sorgere a Salerno, lo stesso che sta a cuore alla Carfagna? Nessuno può dirlo, ma Edmondo Cirielli l’ha prospettato chiaramente su Affari Italiani di ieri, aggiungendo stranezza a stranezza: «La stampa salernitana è piena di dichiarazioni del ministro in cui sostiene che il termovalorizzatore lo deve fare il Comune togliendolo alla Provincia, perché incapace. La cosa è anomala perché la provincia è del Pdl e il sindaco di Salerno è del Pd». Senza contare che lo stesso sindaco è stato commissario per due anni e mezzo – nominato da Prodi e confermato per oltre una anno da Berlusconi – e però il termovalorizzatore non l’ha fatto. È vero anche questo.

Da qui l’accusa terribile. Già a luglio, il presidente della Provincia Cirielli denunciava a un giornale locale: «La Carfagna e Bocchino si sono uniti per contrastare il Pdl, è un fatto di una gravità inaudita». La gravità è sempre inaudita. Poi, oggi, le accuse si sono perfezionate, tipo «Mara vuol rifarsi una verginità», e in effetti l’Unità già la incensa mentre Italo Bocchino non ha mai smesso di farlo, anche perché, come titolava Italia Oggi il 15 ottobre scorso, «La rottura tra la Carfagna e Bocchino è solo una sceneggiata napoletana». L’ennesima: bastava passare in rassegna lo staff della ministra (da Gianmario Mariniello a Mary Cacciapuoti) per accorgersi che erano tutti bocchiniani doc. Notare che il giorno prima, 14 ottobre, Il Secolo d’Italia aveva titolato: «Portavoce? Carfagna meglio di Capezzone».
La guerra di Mara e a Mara, da allora, è cresciuta lentamente e ben ombreggiata dai deliri sul caso Tulliani. È così pure è cresciuta l’intolleranza di Mara e verso Mara: il presunto vizio ogni volta di richiamarsi a Papi, perché richiamasse all’ordine chi non obbediva ai suoi ordini tassativi, diveniva leggenda parlamentare.
Qualche nemico personale, del resto, se l’era già fatto: Paolo Guzzanti per l’espressione «mignottocrazia» e per le note vicissitudini della figlia Sabina: «Mara si veste come un’orsolina in abiti civili, declama intenzioni conventuali, osteggia il Gay pride», ha detto Guzzanti al Fatto di domenica, «ma è assolutamente ridicolo: nessuno ti crocifigge per essere stata abbracciata al palo di una discoteca con i capezzoli bagnati, però dopo non venire a tormentarci ululando come una comare indignata: “Signora mia, in che tempi viviamo”».

Oppure c’è il deputato Pdl Giancarlo Lehner, eletto in Campania: «Parlai con la Prestigiacomo perché c’era da rinnovare il vertice del Parco del Cilento: selezionai io una terna di candidati proprio perché non sono campano e non ho amici, fidanzate o parenti da quelle parti. Il Ministro mi fu grata. Un paio di settimane dopo, però, la Prestigiacomo mi prese da parte e mi raccontò che era arrivata la Carfagna come una furia e che si era messa a urlare che il salernitano era terra sua, e che avrebbe parlato con Berlusconi. Alla fine hanno nominato uno quota An».
Tra i presunti nemici, secondo il Corriere della Sera, figurò addirittura lo scrivente, reo di aver opinato, nel 2008: «Mara Carfagna non doveva diventare ministro e neppure essere candidata al Parlamento. Proprio alle Pari opportunità dovevano metterla, lei che è diventata il simbolo di pari opportunità che non sono pari, anzitutto, e che in secondo luogo paiono offerte meno alle donne e più alle femmine in quanto tali. Il Parlamento è anche un luogo formale dove le apparenze (altre apparenze) vanno salvate: tra Piazza Grande e Piazza Montecitorio forse si poteva interporre un lasso di decompressione maggiore». Mara Carfagna il 15 maggio 2008 rispose così:
«Filippo Facci è uno dei giornalisti che preferisco. I suoi scritti accompagnano di solito la mia prima colazione, che uso fare all’insegna della leggerezza. Credo abbia ragione quando dice che oggi la politica lascia poco spazio alle qualità delle persone, ma ritengo che qualche errore lo commetta quando giudica senza conoscere. Le pari opportunità devono infatti essere garantite a tutti, anche al ministro che deve difenderle. Non comprendo perché del mio curriculum Facci conosca soltanto le conduzioni televisive e non gli studi, le passioni artistiche e l’approfondimento musicale. Temo che negli anni passati mentre io suonavo la Patetica di Beethoven al Conservatorio, danzavo nel Lago dei Cigni di Cajkovskij, gareggiavo agonisticamente nel nuoto stile libero, divoravo la letteratura francese dell’Ottocento e mi laureavo a pieni voti».

Tutte cose, in effetti, che lasciarono freddo me, ma certamente colpirono moltissimo Silvio Berlusconi.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera