Burning streets

C’è una canzone di Joe Strummer, Burning Streets (Joe Strummer and the Mescaleros, per la precisione), dice “London is burnin’; don’t tell the Queen”. La regina è informata di quello che sta succedendo, presumo. David Cameron dice che la linea dura paga, che così le strade torneranno tranquille. Fino a quando? I ragazzi delle periferie londinesi, così come quelli parigini, la violenza la vivono, la sanno fare e la sanno subire, non credo che ne abbiano particolarmente paura. Ho letto tanti commenti, alcuni bellissimi, dicono che questa non è una ribellione, che la politica non c’entra. Lo direbbero anche loro, quelli che hanno già soprannominato i ragazzi incappucciati: non è politica, è rabbia. Ma perchė, non è politica la rabbia? Non è la più normale, la più inevitabile delle rivolte quella di chi è tagliato fuori dal centro, tenuto lontano da steccati insormontabili? Dicono che in fondo a questi ragazzi importa solo di tornare a casa con una tv 42 pollici saccheggiata da qualche parte. È vero, credo. Sono la generazione “no future”, e il loro “non futuro” preferiscono aspettarlo guardando uno schermo gigante, magari HD. Molti di loro finiranno in galera, non gliene fregherà molto, come ha scritto Adriano Sofri ci sarebbero finiti comunque.

Accadde anche a Los Angeles, nell’aprile del 1992, durò cinque giorni allora. Nacque tutto per il pestaggio di un uomo di colore, Rodney King, da parte di quattro poliziotti bianchi. Anche allora furono le gang a fare la guerra, anche allora nei quartieri del centro la vita continuò abbastanza tranquilla. Il fumo si vedeva da lontano.
Il 13 luglio 1977 ci fu il grande blackout di New York. In una notte di caldo infame, la città rimase al buio per ore. In alcuni quartieri,come il Grenwich , la gente fece festa, scese in strada a ballare. Ad Harlem, nel Bronx, a Brooklyn, la gente si scatenò: ci furono oltre mille incendi, migliaia di saccheggi. Più di 4000 persone furono arrestate. Ma anche per loro valse la stessa triste regola: in tanti, prima o poi, ci sarebbero finiti comunque.

Stefano Nazzi

Stefano Nazzi fa il giornalista.