Il supplizio natalizio delle password degli anziani

«Lo scorso Capodanno ho perso cinque ore per recuperare le credenziali dei vari account di mio padre. Durante la procedura dovevo usare il riconoscimento facciale del suo smartphone e, quindi, gli piazzavo l’aggeggio davanti alla faccia mentre lui leggeva placidamente un saggio sull’evoluzione degli ominidi»

Hieronymus Bosch, particolare del pannello centrale del “Trittico del giudizio di Vienna”, 1482 circa. Accademia delle belle arti di Vienna. (Imagno/Getty Images)

Hieronymus Bosch, particolare del pannello centrale del “Trittico del giudizio di Vienna”, 1482 circa. Accademia delle belle arti di Vienna. (Imagno/Getty Images)

Francesca Mastruzzo
Francesca Mastruzzo

È editor e traduttrice dall’inglese e dal russo. Scrive per diverse testate.

Tre settimane fa mia madre mi ha scritto: «Non riesco più a fare acquisti sul Kindle, a Natale dovrai aiutarmi». Io vivo a Milano, mia madre in Sicilia e a quanto pare a Natale, quando tornerò dai miei genitori, farò il tecnico informatico. Perché so già che il Kindle malfunzionante è solo la punta dell’iceberg di difficoltà tecnologiche che si sono formate nel corso di mesi. I device problematici compariranno sulla tavola del pranzo di Natale appena avrò bevuto l’ultimo bicchiere di passito e avrò allontanato la sedia, dimostrando di essere sazia, e quindi – nella logica di mia madre – disponibile.

Adesso che si avvicina il Natale, vedo i meme, i video e gli articoli che gli anglosassoni dedicano al fenomeno dell’assistenza digitale coatta a nonni, zii, prozii e genitori e mi chiedo perché in Italia non se ne parli adeguatamente. Forse noi italiani siamo più rassegnati. O forse è senso del dovere? Abbiamo un concetto di pietà filiale più forte? Ci vergogniamo di loro? Ci vergogniamo di noi? Non vogliamo che si sappia della nostra svogliatezza e mancanza di pazienza? Siamo come i cinesi, con i loro valori confuciani, e ci sentiamo sempre in debito verso i nostri familiari più anziani?

Quel che è sicuro è che loro lo sanno e se ne approfittano. Stento a credere, per esempio, che una settantaduenne perfettamente lucida come mia madre avrebbe difficoltà a imparare le competenze digitali di base, mi pare piuttosto che eserciti un diritto tecnologico universale su cui tutti gli anziani del mondo sembrano essersi segretamente accordati.

E così ogni anno, per molti tra cui me, il vero problema del ritorno nella famiglia di origine per le feste non è tanto il rischio di essere sovralimentati, di dover rispondere a domande inopportune sulla propria situazione sentimentale o parlare di politica con gli zii mentre si manda giù uno spugnoso panettone industriale. È l’agguato che i genitori, suoceri, nonni ti tendono perché tu possa creare per loro lo SPID. Perché ripristini il WiFi. Perché recuperi password che vengono smarrite con la frequenza con cui vengono estratti i numeri in una sala bingo. Perché risolvi un problema informatico che non credevi qualcuno potesse creare.

Da siciliana mi consolo al pensiero che, durante le feste, la fatica tecnologico-filiale potrebbe riguardare almeno un altro milione di poveri cristi e povere criste, se si considera che secondo Istat tra il 2000 e il 2023 il Sud ha perso circa 1,27 milioni di persone a causa della migrazione interna verso il Centro-Nord: tutte persone che potrebbero tornare in famiglia a Natale e passarlo a creare lo SPID per l’intero parentado.

Ma non è solo un problema dei fuori sede del Mezzogiorno, basta vivere a un’ora di distanza dalla famiglia di origine per produrre l’effetto “tecnico informatico in trasferta”. Anche chi va da Milano a Varese per il pranzo di Natale o di Capodanno passerà intere mezz’ore a smanettare su dispositivi o su account che gli anziani definiscono “impazziti” perché non rispondono alla loro visione analogica della tecnologia.

Secondo un sondaggio senza alcun valore statistico che ho condotto tra i miei amici e colleghi, il problema principale riguarda le credenziali perse. È innanzi tutto una questione di supporto. Non potendo contare sulla memoria o sulla capacità di usare un password manager e neppure sulle note del telefono, i novecenteschi si affidano alla carta. Un materiale concreto, affidabile, eppure misteriosamente effimero e metamorfico tra le loro mani.

Mia madre negli anni ha usato foglietti di carta tenuti insieme con una precaria graffetta; svariate agende in cui le preziose paroline si perdevano tra ricette e numeri di telefono (sì, numeri di telefono); un bloc notes smarrito dopo un solo mese, probabilmente in uno di quei cassetti in cui conserva le cose che «non si sa mai, possono sempre servire», come quegli aggeggi di fil di ferro per chiudere le confezioni di cibo.

Non stupisce che su Amazon uno dei libri più venduti nella sezione self-publishing sia il “quaderno delle password”. Alcuni quaderni vantano oltre 500 recensioni (tutte positive). Uno dei più venduti contiene «300 schede, fino a 900 password», lasciando supporre che le password non basterà appuntarle perché verranno perse lo stesso, cosa che costringerà a inventarne di nuove e perderle ancora, fino ad arrivare (forse) a 900. Per noi figli e nipoti la prospettiva è terrificante ma verosimile, come nelle migliori distopie.

Il leitmotiv dei quaderni delle password è la copertina nera con il disegno di un lucchetto. Per le madri, le nonne, le zie e le prozie è prevista qualche variazione femminile con fiori colorati, ma il colore dominante è quasi sempre il nero, forse perché comunica affidabilità e serietà, e non si può non concordare sul fatto che pochi argomenti sono più seri di questo. D’istinto verrebbe da pensare che a non essere presa sul serio da chi usa un quaderno simile sia la sicurezza informatica. Poi si capisce: quale ladro vorrebbe imbarcarsi nell’impresa di decifrare il caos di quegli appunti? Anche i ladri hanno nonni e genitori e probabilmente hanno già dato, sono esausti, basta così, non ne vogliono sapere di altre password.

Lo scorso Capodanno ho perso cinque ore per recuperare le credenziali dei vari account di mio padre. Durante la procedura dovevo spesso usare il riconoscimento facciale del suo smartphone, quindi sono rimasta al suo fianco mentre lui leggeva placidamente un saggio sull’evoluzione degli ominidi e io, di volta in volta, gli piazzavo l’aggeggio davanti alla faccia come se fosse una lampada abbronzante. La mia fatica serviva a fare il passaggio al nuovo smartphone, ma a lavoro concluso mio padre mi ha detto che in fondo voleva tenersi il suo vecchio cellulare. A quel punto ero troppo stanca per protestare, volevo solo andare a dormire e dimenticare quello che era appena successo.

Mio padre è stato causa di preoccupazioni tecnologiche. Quattro anni fa è stato convinto da un giovane amico di famiglia ad aprire un profilo Facebook: ha caricato foto, chiesto l’amicizia a qualche suo conoscente e se ne è dimenticato. Ma qualcuno, da qualche parte nel mondo, ha deciso di rubargli il nome e le foto per organizzare le cosiddette “truffe romantiche”. All’epoca mio padre aveva già ottant’anni, quindi non so quale romanticismo potesse suscitare, ma ho passato due mesi a segnalare il problema a Meta.

Al secondo posto dei gironi tecnologici, subito dopo le password, c’è lo SPID. Non è al primo solo perché nel 2026 potrebbe essere abolito e sostituito dalla carta d’identità elettronica, nel caso non dovremo più pensarci perché sarà sostituito da incubi nuovi. Ma è comunque una beffa. Noi figli-nipoti-tecnici informatici non abbiamo passato anni a creare e rinnovare gli SPID degli anziani (che purtroppo scadono, gli SPID), perdendo intere giornate e l’intera nostra pazienza, perché le nostre fatiche venissero vanificate con un colpo di spugna burocratico.

E non voglio neanche immaginare quali supplizi comporterà il nuovo metodo, ricordando la fatica di fare lo SPID per mia madre. Dato che non esce di casa per via di una patologia cronica, ha dovuto fare tutto online, cioè io ho dovuto fare tutto online, pagando anche un obolo di 10 euro in più al gestore SPID per accelerare la pratica e poter fare la verifica dell’identità in giornata. Il problema è che, appena il pagamento è andato a buon fine, sullo schermo dell’iPad materno è spuntato un operatore che, vedendo che ero io a guidare la procedura, ha chiesto di verificare anche la mia, di identità. Cosa temeva, che per mia madre creare lo SPID fosse una forma di coercizione? Casomai era una coercizione per me. Il processo è durato meno di quello che pensavo, ma è stato comunque spiacevole perché mia madre quel giorno era malmostosa e non collaborava. Perché, sappiatelo, non riceverete nessuna gratitudine per l’aiuto che prestate: ai vostri genitori fare lo SPID dà fastidio quanto a voi, anche se loro non devono fare nulla. Possono permettersi di essere malmostosi o di continuare a leggere placidamente un saggio sull’evoluzione degli ominidi.

C’è chi ha risolto il problema spedendo i familiari alle Poste, un’istituzione vecchia, che gli anziani in genere conoscono, capiscono e in cui si recano senza patemi. Purtroppo questa consuetudine non gli impedisce di fare danni. Il padre del mio amico M. è riuscito a crearsi due SPID, per esempio. Il suo è un caso estremo, certo, che affonda le radici nell’errore umano di un dipendente dell’anagrafe poco attento, ma tuttora ci si chiede come abbia fatto a truffare lo Stato in questo modo. Non che l’abbia fatto apposta, ovviamente, è che lo SPID attira sempre guai, è una legge di natura, come i leoni che mangiano le gazzelle o la mantide religiosa che uccide il maschio dopo l’amplesso.

Quello delle password e dello SPID è un problema prevedibile, un masso di Sisifo che tutti sappiamo di dover spingere su per la montagna dell’informatica geriatrica, ma a volte capitano misteri inestricabili. La zia della mia amica C. non sa che si possono salvare i link tra i Preferiti, ma riesce a salvarli sul desktop, una possibilità che né io né C. sapevamo che esistesse. Sul suo computer, quindi, le icone non hanno il nome del sito, ma l’indirizzo https:eccetera, e non c’è modo di capire come faccia a distinguere il link che le serve. È inutile dire che di cambiare metodo non ha voluto saperne.

La madre del mio amico S., invece, è andata nel panico quando lui le ha aggiornato il sistema operativo del pc. Al riavvio, sul desktop è apparso il widget del meteo e le icone si sono ben allineate a sinistra. Lei ha lanciato un urlo belluino: «Mi hai cambiato tutto! Non è più il mio computer!». Le reazioni degli anziani sono istantanee, catastrofiste, decisamente paranoiche: c’è sempre questa sensazione che il figlio-nipote stia cercando di fregarti e peggiorarti la vita (cosa che nessun figlio-nipote sano di mente farebbe, perché richiederebbe un ulteriore intervento informatico).

Il più delle volte, gran parte delle energie serve per cercare di capire qual è la richiesta. La classica apertura del questuante è: «[Soggetto assente o incomprensibile] non mi fa fare [azione vaga]». Quando il soggetto viene nominato, è spesso sbagliato. Di recente, la mia amica M.V. ha ricevuto questo messaggio da sua madre: «Non mi funziona il tuo sito, non mi fa scrivere a te». Dopo un interrogatorio serrato la mia amica ha appurato che “il sito” era WhatsApp e che funzionava benissimo visto che l’anziana genitrice stava scrivendo quella lamentela proprio su WhatsApp. A cosa si riferisse, è tuttora oggetto di speculazioni.

A pensarci meglio, potrebbe essere una forma di affetto. Fare assistenza informatica richiede spesso vicinanza fisica e accudimento reciproco, visto che l’anziano assiste alle nostre fatiche come un umarell digitale. Forse questo tempo passato fianco a fianco è un succedaneo dell’abbraccio? O è il modo per farci perdonare per essere andati a vivere a mille (o anche due) chilometri di distanza? Qualcuno sostiene che fingano.

Ogni tanto mi do anche una spiegazione più prosaica: i miei genitori mi prendono per la gola. A volte ho la sensazione che sia tutta colpa mia se durante le feste passo ore a recuperare password. Se accetto di cadere nella trappola informatica è solo per mangiare la caponata che mia madre cucina come nessun altro al mondo. In fondo, la prima cosa a cui penso appena atterrata in Sicilia è il cibo. E così mi consolo al pensiero che, tra pochi giorni, mi immolerò all’altare del Kindle difettoso in cambio di un piatto di pasta alla norma e due cannoli.

(G., un mio conoscente che lo stesso supplizio lo subisce dal suocero, non è d’accordo. Lui, nei giorni festivi e in quelli feriali, risolve problemi tecnologici sgobbando in cucina).

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