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  • Lunedì 22 dicembre 2025

Per la Cassazione le aziende possono leggere le chat interne dei dipendenti

Almeno quando sospettano illeciti disciplinari: lo ha stabilito esprimendosi sul licenziamento di un dirigente di Amazon

(AP Photo/Randall Benton)
(AP Photo/Randall Benton)

La Corte di Cassazione ha stabilito che è legittimo utilizzare per motivi disciplinari le conversazioni contenute in una chat aziendale perché, diversamente da un generico gruppo su WhatsApp, una chat aziendale è esplicitamente destinata alle comunicazioni di servizio dei dipendenti: è insomma uno strumento di lavoro e non uno spazio per la corrispondenza privata, e come tale può essere acquisita dall’azienda in caso sospetti che sia stato commesso un illecito.

Il caso arrivato in Cassazione aveva a che fare con un dirigente delle risorse umane di Amazon che era stato licenziato nel luglio del 2020 dopo che alcuni rappresentanti dell’azienda avevano letto dei messaggi contenuti nella chat di lavoro. Dalla chat risultava come il dirigente, assunto da circa tre anni in Amazon, avesse cambiato idea rispetto all’assunzione di un corriere: in un primo momento lo aveva valutato positivamente, ma poi aveva deciso di non assumerlo accogliendo le pressioni del collega di un altro ufficio e facendo la sua scelta finale in modo non trasparente. Dalle chat acquisite risultava anche che il dirigente avesse concordato come gestire in modo ostruzionistico le verifiche interne avviate sulla mancata assunzione dagli uffici delle risorse umane.

Tutto era nato perché la persona che non era stata assunta aveva segnalato a voce e poi per iscritto quanto accaduto all’azienda, denunciando di aver subito un trattamento ingiusto e presentando nelle sue memorie anche parte di quelle chat in cui si parlava di lui. A quel punto Amazon aveva acquisito la chat aziendale per verificare la presenza di un comportamento non corretto che una volta confermato aveva avuto come conseguenza il licenziamento per giusta causa del dirigente stesso.

Il licenziamento si basava in particolare sulla violazione degli obblighi di confidenzialità del processo di selezione dei dipendenti: obblighi previsti dalla policy aziendale e garantiti dagli articoli 2104 e 2105 del Codice civile italiano, che definiscono i principali doveri del lavoratore subordinato, tra cui quello di diligenza (stabilisce che il lavoratore debba usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione, rispettando le disposizioni dell’imprenditore e dei suoi collaboratori) e quello di fedeltà (impone al lavoratore, tra le altre cose, di non trattare affari in concorrenza, di non divulgare notizie aziendali riservate e di non farne uso in modo pregiudizievole per l’impresa).

Il dirigente aveva contestato in tribunale il licenziamento per giusta causa: sia in primo grado che in appello però i tribunali non avevano accolto il suo ricorso. L’uomo si era dunque rivolto alla Cassazione che a sua volta ha dato ragione ad Amazon.

La difesa del dirigente si basava sostanzialmente sul fatto che non fosse legittimo da parte dell’azienda acquisire quelle chat, perché potevano potenzialmente contenere anche messaggi privati. Amazon aveva invece obiettato che la chat aziendale fosse uno «strumento di lavoro» e la Corte le ha dato ragione.

I motivi alla base della sentenza della Cassazione sono due: il primo è la qualificazione della chat aziendale come strumento di lavoro, funzione che non viene meno anche se quella chat può essere usata per conversazioni private e fuori dall’orario di servizio. Da questo deriva la possibilità dell’utilizzo dei dati e delle informazioni che quella chat contiene «a tutti i fini», quindi anche a quelli disciplinari. La seconda motivazione riguarda la legittimità dei cosiddetti “controlli difensivi”: sono controlli, anche tecnologici, del datore di lavoro, che hanno il fine di «evitare comportamenti illeciti ascrivibili, in base a concreti indizi, a singoli dipendenti», spiega la sentenza. Tali controlli sono considerati legittimi solo quando ci sia il «fondato sospetto» di comportamenti illeciti da parte del datore di lavoro.

La Corte ha poi sottolineato che la policy aziendale vieta esplicitamente l’utilizzo dei sistemi elettronici per la commissione di atti illeciti o tali da fondare il sospetto di essere illeciti; che tale policy avverte espressamente il dipendente del possibile uso, a fini disciplinari, delle conversazioni contenute nella chat in caso si sospetti un illecito; e che i contenuti della policy aziendale erano facilmente consultabili per i dipendenti ed esplicitamente richiamati nel contratto di assunzione del dirigente coinvolto. Il dirigente era insomma adeguatamente informato, dice la Corte.

Lo scorso marzo, con la sentenza numero 5936 la Corte di Cassazione aveva invece stabilito che i messaggi scambiati in una chat di WhatsApp ristretta non potevano essere utilizzati come prova per giustificare un licenziamento per giusta causa. La sentenza in esame aveva annullato il licenziamento di un lavoratore che all’interno di un gruppo WhatsApp, composto esclusivamente da colleghi, aveva postato messaggi vocali contenenti insulti e frasi razziste indirizzate al proprio responsabile. Sebbene il linguaggio utilizzato fosse gravemente offensivo, la Cassazione aveva ritenuto che la conversazione, poiché avvenuta in uno spazio privato, non potesse legittimare un provvedimento disciplinare. In quel caso il principio della segretezza delle comunicazioni, sancito dall’articolo 15 della Costituzione, era stato fatto prevalere sul potere disciplinare del datore di lavoro.