I papà di Copenhagen sono diversi
Per gli italiani che visitano la città è molto evidente: c'entrano i lunghi congedi parentali della Danimarca e in generale dei paesi del nord Europa
di Viola Stefanello

Camminando per Copenhagen i turisti italiani notano spesso quella che appare come un’insolita presenza di padri con figli piccoli: è frequente, in orari diurni, vederli per strada, al parco o ai tavolini delle caffetterie, con bambini nel passeggino o per mano, a volte in piccoli gruppi di amici. Si parla di “papà di Copenhagen” perché è una città molto visitata dai turisti stranieri, ma lo stesso accade anche in altre grandi città del Nord Europa come Stoccolma, Helsinki o Malmö. In Svezia è persino nato un neologismo scherzoso per i giovani padri che sorseggiano caffè mentre girano con i figli: “latte dads”.
È molto diverso da quello che si vede nelle città di altri paesi europei, soprattutto mediterranei, dove durante il giorno sono quasi sempre le madri a prendersi cura dei bambini, mentre i padri lavorano. Non è tanto una questione culturale: da anni nei paesi nordeuropei sono state introdotte politiche per l’uguaglianza di genere che hanno fatto sì che gli uomini svedesi, danesi, finlandesi, norvegesi e islandesi si abituassero al fatto di essere presenti quasi quanto le madri nei primi anni di vita dei figli.
«Ricordo ancora la prima volta che sono stata in Svezia, circa 25 anni fa», racconta la statunitense Jessica Joelle Alexander, autrice di Il metodo danese per crescere bambini felici ed essere genitori sereni. «Sono andata all’Ikea e mi sono accorta che nel bagno degli uomini c’era un fasciatoio. Non potevo credere ai miei occhi, ero scioccata».
Alexander oggi è sposata con un uomo danese e vive con la famiglia a Copenhagen. Racconta che quando ha conosciuto il marito lui aveva trent’anni e lei ne aveva 26. «Io non mi sentivo in alcun modo pronta ad avere figli», dice. Lui, invece, avrebbe preferito averli di già, e ricordo di aver pensato: beh, certo che vuoi figli, vieni da un paese che non ti ostacola quando vuoi costruire una famiglia, anzi».
Non è sempre stato così. Christoffer Bengt Meier, che vive a Copenhagen, ha 44 anni e una figlia di quattro anni, ricorda che quando era piccolo l’approccio dei suoi genitori era completamente diverso: «mia madre era quella che provvedeva di più ai nostri bisogni emotivi, ovviamente, ma in generale la generazione dei miei genitori non sentiva di dover essere particolarmente partecipe della vita dei figli».
Le cose hanno cominciato a cambiare con l’introduzione di misure che hanno reso obbligatorio o molto conveniente anche per gli uomini richiedere un certo quantitativo di giorni di paternità quando nasce un figlio.
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Il primo paese a farlo è stato la Norvegia, che nel 1993 ha introdotto con una legge il diritto a quattro settimane di congedo retribuito solo per i padri: non possono essere trasferite alla madre, e quindi vengono perse se non vengono utilizzate dal padre. Nel tempo il congedo si è prolungato: oggi è di 15 settimane.
È successa la stessa cosa negli altri paesi del Nord Europa. In Svezia fin dagli anni Settanta esisteva un congedo di 6 mesi che poteva essere suddiviso tra i genitori, ma quasi sempre a prenderlo era la madre, ed esisteva addirittura un termine dispregiativo per gli uomini che sfruttavano il congedo per stare con i figli: «papà di velluto», che evocava l’immagine di un uomo “poco virile”, che girava per casa con un pigiama in vellutino. Dal 1995 è stato introdotto un sistema simile a quello della Norvegia, e oggi ciascun genitore ha diritto a 90 giorni di congedo non cedibili all’altro, su un totale di 480 giorni di congedo parentale totali da usare entro il 12esimo compleanno del bambino. Quello che avviene di solito è che la madre prende i primi sei mesi, il padre i secondi sei mesi.

Un uomo spinge un passeggino fuori da un negozio del centro di Copnhagen (Viola Stefanello/il Post)
In Islanda dal 2000 ci sono tre mesi che possono essere presi soltanto dalla madre, tre mesi soltanto dal padre, e tre mesi che si possono dividere a piacimento. In Finlandia ogni genitore ha diritto a 160 giorni di congedo parentale e può trasferire al massimo 63 di questi giorni all’altro genitore. In Danimarca i padri hanno diritto a 11 settimane di congedo di paternità non cedibile dal 2022.
In Italia la paternità obbligatoria è di 10 giorni.
L’introduzione di questi congedi ha avuto un impatto enorme. Una ricerca del 2019 svolta su oltre 7mila persone in Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia ha mostrato che oggi oltre il 90 per cento delle persone che hanno figli ritiene che il padre debba essere coinvolto nella cura dei figli quanto la madre. Lo stesso studio ha dimostrato che più lungo è stato il congedo parentale di un padre, maggiore è la sua disponibilità a modificare la propria situazione lavorativa per prendersi cura dei figli.
In Danimarca il sindacato degli ingegneri e dei lavoratori del settore scientifico e tecnologico, che ha 166mila membri, stima che il 90 per cento degli uomini oggi chiede più delle 11 settimane di congedo “obbligatorie”. Prima della legge del 2022, dicono, i padri chiedevano una media di 11,8 settimane di congedo parentale e le donne 36,7. Dopo l’entrata in vigore della legge la media dei giorni di congedo richiesti è salita a 14,5 settimane per i padri ed è scesa a 34,5 per le madri.

Due padri fuori da un locale di Copenhagen (Viola Stefanello/il Post)
Ed è esattamente il risultato sperato: «Lo scopo della legge era proprio quello di creare un rapporto più equo con la genitorialità ed eliminare la convinzione antiquata secondo cui il congedo parentale avrebbe senso solo per le madri», ha detto Malene Matthison-Hansen, presidente del Consiglio dei dipendenti del sindacato. «Il fatto che le donne si prendano la maggior parte del congedo parentale ha un impatto negativo sullo sviluppo salariale, sul reddito complessivo e sui risparmi pensionistici delle donne. Questo le penalizza in termini di stipendio e carriera rispetto agli uomini».
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Altri studi mostrano anche che, nei paesi del nord Europa, le donne adulte hanno un quantitativo di tempo libero da dedicare a se stesse nettamente superiore a quello di qualsiasi altro paese occidentale. Chiedere un lungo congedo parentale per prendersi cura dei figli permette anche di rendersi conto di quanto lavoro richieda la cura della casa e della famiglia e quanto pesante sia spesso l’impatto psicologico su chi lo fa quotidianamente: di conseguenza, chi lo fa tende a sviluppare maggiore empatia nei confronti della partner, e le relazioni ne escono più solide.
Quando è nata sua figlia, Christoffer Bengt Meier ha richiesto tutti i giorni di paternità pagata a sua disposizione: tre mesi, a stipendio pieno. «Avrei voluto prenderne di più, ma all’epoca la mia compagna non lavorava, e se l’avessi fatto le nostre finanze non sarebbero più state sufficienti», dice. Ora lavorano entrambi: lui in un’organizzazione non governativa, lei come professoressa. «Penso che siamo più vicini possibili a una divisione perfetta dei compiti: svolgiamo lo stesso ruolo, entrambi la portiamo all’asilo regolarmente e la andiamo a prendere, passiamo più o meno lo stesso quantitativo di tempo con lei», spiega. «Mi sento presente tanto quanto la mia compagna».
Nella sua esperienza, questo modo di vivere la paternità è condiviso da gran parte della sua generazione e dai padri più giovani. Riconosce, però, che città come Copenhagen, che attirano molte persone con un livello alto di educazione e con lavori creativi e flessibili, «sono un po’ una bolla». «Se vai al parco giochi qui troverai tantissimi uomini con i figli. Ma se vai in una cittadina più piccola, soprattutto nelle zone più rurali e tradizionaliste come lo Jutland, sono sicuro che il quadro sarà un po’ diverso», dice. «Molto spesso sarà ancora la donna a occuparsi della casa e ad assicurarsi che tutto funzioni, e poi ovviamente farà anche lui qualcosa, ma sarà molto meno coinvolto nelle decisioni».
In Danimarca un numero crescente di datori di lavoro e contratti nazionali ha cominciato a riconoscere il ruolo dei padri nella vita dei figli. Rasmus Juul Eriksen, radiologo 36enne di Copenhagen, dice che il suo contratto include due “care day” all’anno che può prendere per passare semplicemente tempo con i bambini. Al contempo, molte municipalità danesi organizzano momenti di gioco pubblici per i bambini che servono specificatamente per far incontrare tra loro i padri in congedo.

Un murales di un padre che tiene in braccio un bambino a Copenhagen (Viola Stefanello/il Post)
Quando ha avuto il primo figlio, Eriksen ha preso 21 settimane di congedo: dice che i suoi datori di lavoro e i colleghi non l’hanno visto come un problema, e anzi si sono congratulati con lui per aver deciso di dedicare così tanto tempo al benessere dalla sua famiglia. Il riscontro in Italia per gli uomini che prendono un lungo congedo parentale dal lavoro non è quasi mai altrettanto positivo.
«Ho degli amici in Italia e, da quello che vedo, molti papà lì non si occupano tanto di cucinare, pulire e prendersi cura dei neonati e dei bambini piccoli», dice Kasper Xavier Lykkegaard, che lavora nel settore delle risorse umane e vive a Copenhagen. «Mi chiedo se questo modello sia sostenibile per il futuro di un Paese, dato che limita la partecipazione delle donne e sottovaluta il valore della diversità nei posti di lavoro. Ma ovviamente la perdita maggiore è per i bambini, che non possono instaurare un rapporto stretto con i propri padri durante gli anni più cruciali del loro sviluppo emotivo».
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