• di Giacomo Giossi
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  • Mercoledì 17 dicembre 2025

Quello che si trova nei libri usati. Oppure no

«Nelle grandi città come in quelle di provincia, dai banchetti e dagli scaffali piano piano riaffiorano non solo titoli introvabili o fuori catalogo, ma anche persone che non ci sono più, i morti»

Un muro di libri usati alla libreria Acqua Alta di Venezia (foto Giacomo Papi)
Un muro di libri usati alla libreria Acqua Alta di Venezia (foto Giacomo Papi)
Giacomo Giossi
Giacomo Giossi

Vive a Venezia. Coordina la rivista The Italian Review. Scrive di letteratura italiana contemporanea e cultura per giornali e riviste. Collabora con case editrici.

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Lavoravo ancora in una libreria di Milano quando si palesò con un piccolo libro sotto braccio Roberto Cerati, allora presidente della casa editrice Einaudi. Portava con sé una rara edizione della NUE, la collana einaudiana inaugurata nel 1962 da Giulio Bollati e disegnata da Bruno Munari. Il volume estremamente raro proveniva dalla sua biblioteca personale ed era destinato in dono al mio capo, un libraio anarchico di origini torinesi che stava cercando faticosamente di raccogliere tutti i volumi pubblicati nella collana fino alla sua sostanziale chiusura avvenuta nel 1998. (Ci fu una ripresa nel 2002, giusto per rubare Paolo Volponi ai Meridiani Mondadori pubblicando le sue opere complete in tre volumi, e un rilancio nel 2010, ma con un riorientamento profondo della collana).

Roberto Cerati era un uomo che non amava i cerimoniali, anzi era affettuosamente brusco. Appoggiò il libro sul tavolo quasi come fosse un’ovvietà e replicò ai ringraziamenti annunciando semplicemente, e forse scaramanticamente, che la sua imminente dipartita avrebbe lasciato a disposizione delle librerie dell’usato «una delle ultime grandi biblioteche del Novecento».

Non so se quel patrimonio librario sia stato poi davvero disperso tra i frequentatori delle librerie di libri usati, certo è che da allora in quelle librerie non ho mai smesso di andarci, ritrovando libri considerati introvabili e al tempo stesso riallacciandomi a pezzi di memoria che in quei libri mi parevano imprigionati: l’urgenza di chi li aveva acquistati per la prima volta o magari sistemati in biblioteca senza nemmeno sfogliarli.

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Frequentando abitualmente queste librerie, sia nelle grandi città come in quelle di provincia, ecco che piano piano riaffiorano non solo titoli introvabili o più banalmente fuori catalogo, ma anche persone che non ci sono più, i morti. Biblioteche facilmente riconducibili a professionisti o intellettuali da poco scomparsi, i cui parenti hanno deciso di disfarsi di chili e metri cubi di carta stampata. Così dalla gioia di una conquista, subito si passa alla sensazione di un furto, di una violenza gratuita. Pochi euro sono sufficienti per comprare un libro magari amatissimo o dedicato a una persona importante per la vita di chi lo regalava.

Mi capitò una volta in una libreria di Roma con una prima edizione di Ragazzi di vita di Pasolini dedicato «A Carlo perché possa capire, tua Roberta». Chissà che doveva capire Carlo nel 1955 e chissà se avrà capito poi, leggendo o meno quel libro. E chissà Roberta che cosa si aspettava allora da Carlo. Iniziai a scartabellare provando a costruire possibili relazioni passate con i libri sugli scaffali vicini, ma non trovai connessioni evidenti, come se quell’edizione di Garzanti fosse caduta lì, dal nulla. Rimanenza di una vita passata, o magari di due, anche se speravo che Carlo e Roberta fossero ancora tra noi e che magari ancora stessero cercando di capire insieme quello che succede nel mondo. Era il 2021 e il covid, oggi tremendamente rimosso, ancora si aggirava con il suo portato di angoscia e morte. In quel periodo iniziò a macinare dentro di me una forma nuova di angoscia legata proprio ai libri. Perché quei volumi che iniziavano a invadere sempre più copiosamente le librerie – una volta che fu possibile riaprirle – mi sembrava portassero il peso dei troppi morti dell’epidemia.

Nel film di Nanni Moretti La messa è finita c’è una scena che mi ha sempre molto commosso. Don Giulio (interpretato da Nanni Moretti) si siede al capezzale della madre morta e le parla, ricordando gli anni dell’infanzia, quella felicità ormai non più raggiungibile. Poi vede un libro sul comodino, lo apre e trova un segno: «Sei arrivata fino a qui. Non eri curiosa di sapere come andava a finire?».

È quello che penso sfogliando libri usati. Ritrovando a Venezia in un piccolo libro Einaudi, un corallino, la sceneggiatura di L’anno scorso a Marienbad di Alain Robbe-Grillet, un biglietto degli anni Ottanta del vaporetto pensai subito a un professore morto poche settimane prima. Il libraio sorridendomi mi confermò che erano arrivati molti libri di cinema quella settimana. Già, e chissà come mai, mi venne da dire, ed entrambi restammo in silenzio davanti a quella biblioteca scomposta come fosse una pietra angolare. Il libro non ho avuto il coraggio di comprarlo, in compenso ho rubato il biglietto verde del vaporetto ACTV – «Vale tariffa da Lire 800» – che tengo come una reliquia laica.

Non ho mai rubato libri in vita mia, ma chiaramente questa è una dichiarazione falsa. Dei libri rubati conservo una forma di senso di colpa, mentre i furti di oggetti all’interno dei libri non mi provocano alcun rimorso, anzi mi sembra di salvare pezzi di memoria. Spesso sono ritagli di giornale, cartoline e qualche santino, ma i biglietti di viaggio hanno qualcosa di più seducente, perché è come se offrissero l’idea del movimento di un lettore che non c’è più.

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Così, per evitare eccessivi coinvolgimenti affettivi, i miei acquisti tra i libri dell’usato ormai si limitano sempre più alla categoria filosofica dell’«usato mai sfogliato». Il più delle volte sono libri arrivati in omaggio a giornalisti, critici letterari o agli amici degli autori. Sono libri che non hanno mai ottenuto spazio in una biblioteca, più che usati e mai sfogliati sono stati abbandonati anche se riportano ancora le dediche più o meno affettuose degli autori in cerca di recensione e/o apprezzamento. Nonostante questo, resta per me irresistibile buttare un occhio sugli usati veri, sui lotti che provengono da anni di permanenza in case private, perché mi permettono di immaginare di recuperare titolo dopo titolo i fili invisibili di biblioteche che rappresentano i desideri e la sete di conoscenza di chi ora probabilmente non c’è più.

Se c’è Adolf Loos poi sbuca Aldo Rossi, se c’è Freud ecco Foucault. Derrida di solito vive sia nella casa di un architetto che in quella di uno psichiatra o, meglio, psicanalista, ma più raramente in quella di un filosofo, almeno in Italia. Le sfilate di volumi Franco Maria Ricci, invece, oggi mi appaiono quasi funeree con i loro dorsi scuri e le scritte dorate. Invece il De Felice dal dorso nero della Biblioteca di cultura storica Einaudi, così come quello verde delle Grandi Opere, hanno per me il sapore di un ceto medio riflessivo ormai scomparso, che spesso acquistò quei preziosi volumi a rate grazie al Conto Aperto Einaudi, alle vendite porta a porta o ai banchetti delle sezioni di partito e delle feste dell’Unità. Un ceto sociale molto politico, un po’ ideologico e pre barbarico, direbbe Alessandro Baricco, che trovava spazio nei grandi studi borghesi di avvocati con un passato resistente, appartamenti di insegnanti democratici e case popolari di operai e manovali fiduciosi in un futuro migliore tra utopia e pedagogia.

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Nel loro icastico bianco i libri Einaudi dimostrano una qualità della carta superiore a quella, per esempio, di Feltrinelli – i cui libri oggi appaiono ingialliti e bruciati dal tempo – ma offrono anche il ritratto intimo di chi credeva davvero di poter cambiare le cose leggendo Basaglia, Sontag, Marcuse o Arendt, per citare i più famosi. Per me sfogliarli è accedere allo spirito di un tempo ormai chiuso e a una fiducia che oggi sembra un’ingenuità a tratti disperata e a tratti dolcissima.

Provengono invece dal mondo della grande editoria, che tentava di coprire ogni ambito del sapere, un’ambizione ormai quasi del tutto scomparsa anche a causa dell’avvento della rete, i libri di alcuni scrittori e giornalisti un tempo famosissimi e oggi pressoché dimenticati. Come Alberto Bevilacqua, figlio di un aviatore, responsabile cultura della Gazzetta di Parma (quando i giornali locali erano parte preminente del potere culturale), vincitore del Premio Campiello e anche incluso nei Meridiani Mondadori, di cui oggi ci si ricorda vagamente, più che altro per le comparsate televisive e per i giubbini scamosciati. O come Nantas Salvalaggio e Luca Goldoni, il cui enorme successo commerciale basterebbe a testimoniare il limite della cosiddetta egemonia culturale della sinistra e, di contro, l’efficacia di una macchina editoriale che fu sempre, nei suoi massimi esponenti da Mondadori a Rizzoli a Longanesi, profondamente liberale, nel dare al paese quello che il paese voleva. Era un’editoria di massa che, per quanto innovativa, si trovava ad inseguire e accompagnare, più che anticipare e guidare i desideri di una società in forte cambiamento.

A frequentare le librerie dell’usato ti pare di cogliere i guizzi e gli errori, le cadute e la fatica di chi costruiva le proprie biblioteche organicamente alla propria esistenza. Su questi scaffali dove spesso i libri vengono ammucchiati e separati solo da categorie di prezzo, a cinque euro o al chilo, mi pare di ritrovare un tentativo di uscire da sé, la ricerca di un conforto, di una rassicurazione. Il bisogno di costruire la propria identità attraverso la cultura. Anche per questo molti libri usati non sono mai stati letti, bastava possederli per sentire di assomigliare e appartenere a quello che dicevano.

È un destino che mi sembra capiti a quelli che sono definiti i grandi libri e i grandi autori: c’è stato un tempo per Proust e uno per l’Ulisse di Joyce, uno per Marx e uno per i nouveaux philosophes, uno per Il nome della rosa di Umberto Eco e uno per Cadmo e Armonia di Roberto Calasso. Alcuni resistono, come i classici che ritornano ciclicamente, altri invece segnano un’epoca, indicano una moda e un’appartenenza, e poi vengono dimenticati. Spesso sono grandi romanzi di genere, che nelle librerie dell’usato sono quasi sempre letti, magari una volta sola, per poi essere stati prestati a un amico o abbandonati su un treno. Sono i libri meno ricercati, meno nobili, che hanno per me ancora il sapore istantaneo di una giornata al mare, di un viaggio, di un pomeriggio passato a leggere senza altri pensieri attorno.

Alcuni libri sono intonsi, altri usurati fino ad aver perso la legatura, ma tutti, anche quando non sono mai stati letti, mi sembrano essere segni di un passaggio indelebile come ha mostrato Claudio Parmiggiani con le sue Delocazioni, in cui librerie incendiate lasciano pareti cariche delle ombre di fuliggine dei libri che ospitarono. È un passaggio che si rinnova ogni qual volta si portano dentro casa un nuovo libro e le parole che contiene. Ma è un passaggio, mi pare, che ogni libro usato rimanda, portando con sé il corpo esteso dei lettori passati, di chi lo ha desiderato, comprato e letto la prima volta. Degli occhi che lo hanno guardato e delle dita che lo hanno sfogliato, magari di notte, a letto.

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