Il governo non vuole che i richiedenti asilo imparino l’italiano
Nei centri di accoglienza i corsi di lingua sono quasi spariti, per gli effetti del decreto Cutro: così per i migranti è ancora più difficile integrarsi
di Alice De Luca

Ormai da diversi anni nei centri di accoglienza per i richiedenti asilo in Italia vengono organizzate sempre meno lezioni di italiano. È una conseguenza di alcuni decreti promossi dal governo di Giorgia Meloni, che hanno eliminato diversi servizi dedicati ai migranti: oltre ai corsi di lingua, anche l’assistenza psicologica e legale. In questo modo lo stato risparmia dei soldi, ma priva i migranti di uno strumento fondamentale per integrarsi, cioè la possibilità di imparare la lingua.
Senza corsi di italiano le persone nei centri di accoglienza «restano praticamente parcheggiate, senza poter fare niente», dice Filippo Miraglia, responsabile immigrazione di ARCI.
Significa che non possono studiare, lavorare, stringere rapporti personali, capire meglio il posto in cui sono finiti. Sono tenuti fermi.

Un gruppo di richiedenti asilo fotografato in un centro vicino a Torino, 29 agosto 2023 (Marco Alpozzi/LaPresse)
Questo problema si pone soprattutto nei Centri di accoglienza straordinaria (CAS), cioè i centri gestiti dalle prefetture dove viene ospitata gran parte dei richiedenti asilo una volta arrivati in Italia, via mare o via terra (secondo gli ultimi dati, il 73 per cento del totale). Questi centri vengono dati in gestione a cooperative e associazioni tramite dei bandi. È nei CAS insomma che i migranti aspettano che la loro richiesta venga valutata, a volte per mesi ma più spesso per anni. La procedura di esame della richiesta di asilo, infatti, può richiedere fino a quattro anni. I tempi spesso si allungano anche a causa dei ricorsi presentati dopo che le domande di asilo vengono rigettate, cosa che accade sempre più spesso.
Negli ultimi anni alcune leggi hanno cambiato un po’ di cose sulla gestione dei CAS e sui servizi offerti al loro interno. Nel 2018 il cosiddetto “decreto sicurezza” promosso da Matteo Salvini, allora ministro dell’Interno durante il governo di Giuseppe Conte, stabiliva che gli enti gestori dei CAS non fossero più obbligati a offrire corsi di lingua per i migranti ospitati. Dopo alcune modifiche fatte dalla ministra Luciana Lamorgese, questa impostazione è stata riconfermata nel 2023 con il cosiddetto “decreto Cutro”, promosso dal governo di Giorgia Meloni.
Con il “decreto sicurezza” i progetti di integrazione, tra cui i corsi di italiano, sono stati mantenuti obbligatori solo per le persone che hanno già ottenuto una forma di protezione internazionale, ai minori non accompagnati e ai titolari di alcuni permessi speciali. Tutte persone che non alloggiano nei CAS, ma in altri centri di accoglienza che dipendono dai comuni: come i centri SAI, più piccoli e ritenuti più efficaci per l’integrazione degli ospiti, che però il governo Meloni ha deciso di riservare a chi ha già una forma di protezione.
Nel documento dove il ministero dell’Interno suggerisce come devono essere scritti i bandi per assegnare i CAS agli enti gestori, rinnovato nel 2024, sono menzionati anche i corsi di italiano. Compaiono, però, solo come un esempio delle attività ricreative e di formazione che i gestori possono fornire ai migranti: questo non li rende obbligatori.

Un passaggio dello schema di bando per la gestione dei CAS
Il risultato è che molti enti che gestiscono i centri non organizzano più lezioni di lingua, risparmiando così sui costi di questo servizio (e potendo quindi presentare un’offerta più competitiva per gestire i CAS). I pochi corsi che rimangono all’interno dei centri sono organizzati su iniziativa autonoma degli enti stessi, che possono decidere di finanziarli comunque, o da associazioni esterne, che li offrono in modo volontario e gratuito. Le associazioni, in realtà, intervenivano anche prima che fossero emanati i decreti. Ora il loro intervento è diventato la norma.
Marco Omizzolo, sociologo di Eurispes (un istituto di ricerca che si occupa di studi politici, economici e sociali), dice che questa non può essere una soluzione. Pur rimarcando l’importanza del volontariato, secondo lui l’insegnamento dell’italiano ai migranti richiede competenze specifiche e per questo dovrebbe essere fatto da professionisti. Dice che «il risultato di questi provvedimenti è anche una mortificazione del sistema di insegnamento dell’italiano, di cui non viene riconosciuta la professionalità».
Un’alternativa è che i richiedenti asilo frequentino corsi di italiano attraverso organizzazioni e strutture esterne ai CAS: che però, oltre a non avere posti sufficienti per tutti i migranti che ne avrebbero bisogno, non sono sempre raggiungibili con facilità. Diversi CAS per esempio si trovano in periferia o in comuni piccoli e isolati, cioè in territori che li obbligano a spendere i pochi soldi che hanno a disposizione (in molti casi sono nullatenenti) per spostarsi.
Come dice Miraglia, in assenza di servizi di integrazione come i corsi di lingua, i migranti trascorrono molti mesi, se non anni, all’interno dei centri di accoglienza italiani senza instaurare alcun legame con il territorio, nemmeno i rudimenti della lingua. La conseguenza è che finiscono più facilmente in condizioni di marginalità sociale e sfruttamento lavorativo: i richiedenti asilo intervistati dal Post fra quelli che lavorano nei vigneti e uliveti toscani parlano l’italiano poco o nulla.
I partiti della destra italiana spiegano di avere rimosso i corsi di italiano dai servizi chiesti ai gestori dei CAS per una questione di costi. Lo si legge anche nell’atto con cui il Senato ha approvato la conversione in legge del decreto sicurezza, dove si dice che i progetti di integrazione e di inclusione sociale sono stati limitati «al fine di razionalizzare le risorse impiegate per l’integrazione».
In realtà, dice Gianfranco Schiavone, presidente dell’associazione Consorzio italiano di solidarietà (ICS), i fondi erogati dallo stato ai CAS per l’ospitalità di ciascun migrante non sono cambiati più di tanto. La cifra pro capite giornaliera varia da centro a centro, in base agli appalti, ma secondo le stime del ministero dell’Interno per le spese fondamentali (affitto, cibo, pulizia e personale) sono necessari tra i 24 e i 30 euro, a seconda della grandezza e delle caratteristiche del centro. La differenza è che gli enti gestori dei centri non sono più obbligati a fornire determinati servizi, come i corsi di italiano: sembra, insomma, una scelta di natura perlopiù politica.
Al Post risulta che il governo non ritiene conveniente insegnare l’italiano a persone la cui richiesta d’asilo sarà rifiutata, come capita in moltissimi casi. Dalla prospettiva del governo, insomma, quei soldi sarebbero sprecati.
Va ricordato però che il ministero dell’Interno ha una certa influenza nel determinare quali e quante richieste d’asilo vengono accettate e quante respinte: le commissioni territoriali, cioè gli organi che esaminano le richieste d’asilo, sono infatti presiedute da funzionari della prefettura, cioè da dipendenti del ministero dell’Interno. Dall’insediamento del governo Meloni la quota di richieste d’asilo respinte è progressivamente aumentata: nel 2023 era stata del 49,8 per cento rispetto a quelle avanzate, nel 2024 del 64 per cento, oggi è vicina al 70 per cento contro una media europea del 51.
Anche Miraglia ha notato che durante i mandati dei governi di destra i tassi di dinieghi dei richiedenti asilo aumentano. La cosa però genera conseguenze paradossali, soprattutto per i governi che dicono di volere contenere i costi dedicati all’accoglienza. «Il numero di ricorsi dei migranti rifiutati si traduce in una loro ulteriore permanenza nei centri di accoglienza e, di conseguenza, in una maggiore spesa per lo stato».



