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  • Lunedì 15 dicembre 2025

Le leggi sul possesso di armi in Australia sono già molto rigide

Dopo la grande riforma del 1996 vengono spesso indicate come un modello, ma con il tempo sono emersi anche vari problemi

(AP Photo/Lynne Sladky)
(AP Photo/Lynne Sladky)
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Uno dei due attentatori che hanno ucciso 15 persone a Bondi Beach, una delle più famose e frequentate spiagge di Sydney, in Australia, aveva un regolare porto d’armi e sei armi intestate a suo nome. L’Australia ha una normativa piuttosto rigida sul possesso di armi, spesso indicata come un modello per limitare violenze e sparatorie di massa. Le leggi però non sono uniformi in tutti gli stati e i territori che compongono il paese, e negli ultimi anni sono state fatte varie modifiche criticate perché ritenute più permissive.

La legge australiana sul possesso di armi venne modificata il 10 maggio del 1996, 12 giorni dopo l’attentato più grave nella storia del paese. Un uomo armato, Martin Bryant poi condannato a 35 ergastoli, uccise 35 persone e ne ferì altre 23 a Port Arthur, nello stato della Tasmania. Una delle conseguenze di quella sparatoria fu un ripensamento radicale delle norme sulla detenzione delle armi, che passò dall’essere un diritto intrinseco (come è considerato in alcuni paesi, tra cui gli Stati Uniti) a un privilegio che i cittadini dovevano dimostrare di poter ricevere.

La legge rese illegale importare, acquistare, possedere, vendere o usare molti modelli di armi, tra cui alcuni fucili d’assalto spesso usati in attacchi di massa, altri fucili semiautomatici e i fucili a pompa. Venne avviata anche una campagna di riacquisto di armi da parte dello Stato e in un anno furono comprate a prezzo di mercato dai loro proprietari circa 650mila armi appena vietate.

Furono inoltre introdotti nuovi obblighi di registrazione e restrizioni all’acquisto. Fu creato un registro nazionale e il sistema di licenze, basato su diverse categorie di armi da fuoco, venne vincolato all’obbligo di dimostrare una valida ragione per il possesso: l’uso professionale, l’appartenenza dimostrata a un club di tiro a segno autorizzato o la caccia. Il possesso di armi da fuoco per autodifesa venne specificamente vietato.

Le leggi riviste stabilirono che per ottenere le licenze il compratore dovesse superare un test di idoneità e dovesse obbligatoriamente frequentare un corso di formazione accreditato sulla sicurezza delle armi da fuoco. La registrazione divenne individuale, a nome del proprietario e oltre alla licenza per possedere un’arma da fuoco, venne stabilita la necessità di un permesso separato per ogni acquisto, che viene concesso solo dopo un periodo di attesa di 28 giorni utile per fare dei controlli sull’acquirente. La vendita tra privati venne vietata, e quella di munizioni consentita solo per le armi per le quali l’acquirente era autorizzato, con limiti alle quantità acquistabili. Il governo promosse nel tempo anche delle amnistie che invitavano a disfarsi di armi non registrate senza conseguenze penali.

Celebrazioni per il ventesimo anniversario del massacro di Port Arthur, nel 2016 (Robert Cianflone/Getty Images)

Le riforme furono inizialmente molto discusse, con posizioni diverse anche all’interno del governo conservatore che all’epoca le approvò. Ma i timori di una reazione elettorale negativa o persino di una resistenza violenta (l’allora primo ministro australiano John Howard indossò un giubbotto antiproiettile durante un comizio) non si concretizzarono. Il nuovo programma fu in realtà accolto positivamente e decine di migliaia di possessori di armi da fuoco consegnarono volontariamente e senza indennizzo le armi che detenevano e che potevano continuare a detenere legalmente anche in base al nuovo accordo, come gesto di sostegno all’inasprimento delle leggi nazionali dopo il massacro di Port Arthur: «Pochi australiani negherebbero che il loro paese sia oggi più sicuro grazie al controllo delle armi», scrisse Howard nel 2013 sul New York Times.

La polizia del New South Wales (lo stato di Sydney, dove è avvenuta l’ultima sparatoria) ha confermato che uno degli uomini armati, il cinquantenne Sajid Akram, aveva un porto d’armi di categoria A e B (le categorie di licenza più diffuse e più semplici da ottenere) da circa dieci anni e che possedeva sei armi da fuoco registrate. Non ha comunque confermato il tipo né il modello esatto delle armi utilizzate nell’attacco, ma dai video e dalle foto sembrano corrispondere, dicono diversi esperti, a quelle comprese nelle categorie per le quali Akram aveva una licenza.

Polizia intorno a Bondi Beach dopo l’attentato del 14 dicembre 2025 (AP Photo/Mark Baker)

Secondo Roland Browne, vicepresidente di Gun Control Australia, associazione che si batte per una riforma della legge sulle armi già dalla fine degli anni Ottanta, la sparatoria di Bondi Beach avrebbe dimostrato che c’è stata una «grave carenza nel processo di valutazione» attraverso il quale l’attentatore aveva ottenuto le armi e le licenze per detenerle. «Perché qualcuno abbia bisogno di sei armi da fuoco alla periferia di Sydney è un mistero assoluto», ha detto ad ABC Australia, aggiungendo che nel 1996 l’obiettivo «era che per ogni arma un tiratore dovesse dimostrare di avere una buona ragione e che dovesse dunque diventare più difficile ottenere l’autorizzazione per una seconda arma e per tutte le successive». Browne sostiene che questa regola sembra essere caduta completamente, dato che le persone «nei sobborghi di Sydney o Melbourne o in qualsiasi altro posto in Australia possono possedere un numero illimitato di armi».

Un altro problema sono le differenze delle normative approvate dai vari stati australiani a seguito della riforma, a causa delle quali alcune tipologie di armi sono illegali in un luogo ma non in un altro.

La legge del 1996 ha comunque avuto risultati soddisfacenti. Da allora, le sparatorie di massa sono di fatto scomparse in Australia e quello che un tempo era un evento quasi annuale si è verificato una sola volta dopo le riforme, nel 2018, quando un uomo uccise sei membri della propria famiglia e poi si suicidò. Diversi studi hanno poi dimostrato come le restrizioni abbiano avuto impatti positivi sul tasso di omicidi e su quello dei suicidi legati alle armi da fuoco.

Il tasso di mortalità nel 2023 per arma da fuoco ogni 100mila persone in alcuni paesi dell’OCSE (fonte Reuters)

Altre ricerche recenti hanno però mostrato che in tutto il paese ci sono più di 4 milioni di armi possedute da civili (una ogni sette australiani), il 25 per cento in più rispetto a prima del 1996. Alice Grundy, responsabile di questa ricerca per l’Australia Institute, un think tank sulle politiche pubbliche con sede a Canberra, ha detto: «L’Australia ha la reputazione di avere una buona regolamentazione delle armi da fuoco, dopo Port Arthur, ma con l’aumento del tasso di proprietà pro capite e la mancanza di coerenza e trasparenza nei vari territori che compongono il paese, si stanno creando condizioni pericolose per tutti i cittadini».

Un altro problema riguarda i furti: secondo le statistiche generali della polizia dal 2020 al 2024 sono state rubate più di 9mila armi, in media più di 2mila all’anno, ovvero una ogni quattro ore. Negli ultimi vent’anni le armi rubate risultano più di 44mila, ma si tratta di stime al ribasso dovute a una serie di lacune nella raccolta dei dati e alla mancanza di informazioni coerenti sulle armi non registrate.

Dopo l’attentato a Bondi Beach il primo ministro australiano Anthony Albanese e il primo ministro del New South Wales Chris Minns hanno detto di voler proporre leggi sul porto d’armi ancora più severe di quelle in vigore oggi e che, tra le altre cose, potrebbero portare a una limitazione sul numero di armi che ciascuno può possedere legalmente e a una revisione periodica delle licenze concesse.